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258 IL BUON CUORE


messer di Joinville era caduto di mano allo sgraziato Pietro nel portarlo al forno!... bisognò che quel giorno messer di Joinville facesse a meno del pasticcio. Pietro, per sfuggire al giusto corruccio del buon uomo, prese il partito di fuggire e corse con tanta precipitazione, da cadere fra le braccia di un novizio domenicano che atterrò per la violenza dell’urto.

Il religioso s’interpose fra il percuotitore ed il percosso, ed il suo carattere entusiasta reprimette in seguito le escandescenze di maestro Giacomo che si scapellò e si mise a spiegare a lungo il suo stato d’animo nei riguardi del figlio. Del resto era qui tutto ciò ch’egli voleva, poichè la sua collera non si sfogava mai appieno per mancanza di persone che ascoltassero le sue lagnanze.

Frate Antonio (perchè il magro domenicano altri non era che l’artista domenicano), mentre il pasticciere narrava dell’incapacità di suo figlio in materia di composti culinarii, e la sua predilezione a costruire e disegnare focaccie, girò macchinalmente gli occhi attorno a sè.

Egli non potè contenere un movimento di sorpresa alla vista di una specie di chiesa che Pietro modellava in farina umida, aspettando di gettarla in pasta da biscotti, perchè questo abbozzo non era cosa ordinaria, e a malgrado dello scopo prosastico al quale doveva servire, il monaco vi riscontrò a primo colpo l’indice d’un talento che gli era stato così fatale.

Da allora una viva simpatia commosse il suo cuore.

— Maestro Giacomo, — diss’egli piegandosi alle idee assurde del pasticciere — la vocazione è libera. Se vi avessero voluto obbligare a non fare che abbellimenti di tavola senza mai fabbricare cialde, voi vi sareste rivoltato. Perchè non avere in senso contrario per vostro figlio l’indulgenza di cui voi avreste avuto di bisogno? Voi siete glorioso del vostro talento; ebbene, vostro figlio potrebbe acquistare in altra carriera una riputazione egualmente grande che la vostra. Invece di ereditare da un nome, ne creerebbe un altro. Mandate vostro figlio domani al convento, io ne farò un mio allievo.

Dicendo questo, egli dimenticava il saio monastico di cui era vestito; il suo occhio d’artista lampeggiava ed un’emozione convulsiva faceva tremare tutto il suo corpo; ma presto tornò alla realtà delle cose e soggiunse:

— Io chiederò al padre superiore il permesso di ricevere vostro figlio e dirigerlo nella carriera dell’architettura. Se me lo accorda, può darsi che i miei consigli abbiano a giovare a questo giovinotto; addio.

Egli uscì, lasciando Pietro al colmo della gioia, e Giacomo stupefatto. Ma la vista del pasticcio che stava a terra restituirono a quest’ultimo il suo cattivo umore.

— Per S. Lorenzo mio patrono! — gridò egli — che fare intanto per non scontentare il capo cuoco di messere di Joinville?

— Buon zio, mettere al forno questo pasticcio che composi mentre ve la prendevate con Pietro, ed inviarlo poi al palazzo di messer di Joinville!...

Maestro Giacomo stupito guardò con una completa sorpresa la giovane e graziosa fanciulla che gli parlava.

— Davvero, Agnese? — fec’egli.

E bentosto crollò le spalle.

— Il tuo pasticcio non varrà nulla, pazzerella mia; sono io solo in tutta la città che sappia comporre come si deve questo pasticcio.

— Io vi ho visto molte volte all’opera caro zio, e sono certa di esservi riuscita.

— In realtà, ecco qui tutti gli ingredienti necessarii; piccioni sminuzzati con pelle di maialetto di latte, uova farina di marroni. Agnese, vi hai messo crema ed uova nella pasta?

— Sì, buon zio, e dello zafferano per colorire meglio; ho umettato l’esterno con tuorlo d’uovo perchè si indori al forno.

— Bene, benissimo. E ci ha pure cervella?

— Sì, cervella di passeri mescolata a quella di polli....

— Perchè la delicatezza degli uni migliori la fermezza degli altri. Tu sei un piccolo angelo. Pietro, porta tutto ciò al forno.

— Niente affatto, zio mio — interruppe la graziosa fanciulla che temeva qualche nuova disgrazia da parte del cugino. — Niente affatto, io voglio fare tutto da me, non solo mettere la cialda al forno ma anche ritirarnela.

— Nulla di più giusto; va adunque.

— Pietro, — disse Agnese — vedi che buona scenata io ti risparmio; mi ami tu un poco per ragione di ciò?

— Io voglio diventare allievo di quel monaco! Io potrò dunque abbandonarmi alla mia vocazione e riuscire architetto, — pensava Pietro che non avvertiva tampoco le parole della cugina.

Questa asciugò una lacrima ed aprì il forno per ben assicurarsi che la sua cialda non bruciava.

In fondo al convento dei Domenicani, in un lungo corridoio sul quale davano piccole celle, trovavasi una camera alquanto più spaziosa delle altre, benchè il suo mobilio povero e squallido come quello dell’ultimo novizio, non si componesse che d’un tavolo, d’una panca e d’un letto di asse. È là che Tomaso d’Aquino consacrava allo studio tutto il tempo che gli lasciavano la preghiera e la carità; e là ch’egli scrisse diversi libri che produssero una così viva impressione nel mondo cattolico, e di cui qualcuno serve tuttora di base ai sistemi teologici della religione romana. Una profonda cognizione dei Padri della Chiesa, ed una sublimità di vedute assai più illuminate di quelle di altri monaci suoi contemporanei, gli valsero una rinomanza di sapere che non era uguagliata fuorchè da quella della virtù della bontà. Non solo egli soccorreva i poveri colle sue elemosine; non solo andava ad assidersi al capezzale dei moribondi per riconciliarli con Dio e per mostrar loro il cielo che li aspettava all’uscir da questa valle di lacrime, ma anche preveniva un pentimento che avrebbe ricondotto su buona strada, a forza di sollecitudini, di indulgenza e santi esempi. Come il suo divino Maestro, egli teneva dietro alle pecorelle smarrite e le metteva sulle sue spalle per riportarle all’ovile, pieno di compassione per la loro fragilità e per l’errore che le aveva trascinate lontano dal tetto protettore.