Il buon cuore - Anno X, n. 32 - 5 agosto 1911/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 32 - 5 agosto 1911 Religione

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LA SANTA CAPPELLA


STUDII STORICI


(Continuazione, vedi numero 31).


E dopo alcuni minuti di cammino, arrivarono, traverso una porticina, — quelle grandi essendo chiuse da molto tempo, — entro la Chiesa: navata immensa le cui gigantesche arcate poggiavano su esili colonnine riceventi in mille foggie diverse i bagliori di tre o quattro lampade lasciate accese qua e là in una cappella od ai piedi della statua di qualche Santo.

Quando questi due uomini si trovarono nel silenzio e nella solitudine della Chiesa, un senso di tristezza e di paura s’impossessò dei loro cuori; uno perchè aveva terribili confessioni da fare, l’altro perchè comprendeva quanta responsabilità stava per assumersi. Del resto era spettacolo ben solenne quel sacerdote inginocchiato in preghiera, mentre pallido, affranto, e il cuore tutto in tempesta l’altro provava l’attesa e le angoscie d’un colpevole condotto innanzi al giudice che deve decidere della sua sorte e che è per restituirlo alla libertà o per gettarlo sotto il ferro d’un carnefice.

Ma ad un tratto invece di accingersi all’accusa sacramentale il cavaliere si mise come un energumeno a gridare: — E che bisogno ho io di confessarmi e di implorare la misericordia divina? Non c’è più perdono per me, e se Dio mi perdonasse non sarebbe giusto. Ascoltatemi Padre mio: voi dovreste rivolgervi da me con orrore, cacciarmi senza pietà dalla Chiesa che io profano colla mia presenza, gridarmi anatema e maledizione. Ah, io sono un assassino, un vile assassino che colpisce la sua vittima protetto dal favor della notte ed alle spalle; un assassino che non già si indirizza a quelli che ponno difendersi, ma ad un vecchio che supplica ginocchioni il suo carnefice di risparmiargli la vita. Nè le sue lacrime nè i suoi gemiti mi hanno disarmato; egli trascinavasi a’ miei piedi, e fu allora che lo colpii; egli implorava grazia, e lo percossi; egli parlava della sua eterna salute ed io l’uccisi; l’uccisi nell’anima e nel corpo. Dopo d’allora una voce di dannato ripete nel soggiorno del pianto e dello stridor dei denti: «Tu sarai accanto a me nell’eternità». Questa voce non resta chiusa nell’inferno; ne esce, mi perseguita, mi assedia. La sento di giorno, la sento di notte, la sento quando son sveglio, la sento quando dormo. Capite voi ora perchè mi ubbriaco? Capite ora perchè cerco di abbrutirmi nel vino, fo di togliermi il pensiero ed il sentimento? Ebbene, voi non parlate di perdono? Eccovi più pallido e più atterrito di me. Ditemi o sacerdote, dove sono le vostre consolazioni e penitenze? a che si riducono le vostre promesse di misericordia? Maledetto! dannato! si, io sono maledetto e dannato per l’eternità.

— Fratello mio, i vostri delitti sono grandi, ma la misericordia di Dio è infinita. Non disperate di ottenere a forza di lacrime, di compunzione e di fiducia nella bontà celeste, il perdono dei vostri falli, per enormi che essi siano. Tornate adunque a sentimenti meno disperati.

— Non ho detto tutto; a rendere più vile la mia crudeltà, più imperdonabile, giacchè non uccisi in un impeto di subita brutalità ma con premeditazione, ci concorse la miserabile passione della gloria. La gelosia, l’amor della gloria, questa febbre strana, questa corona di spine che lacera tutte le fronti che la portano. Io ero un architetto venuto dal fondo dell’Alemagna per concorrere con tre altri artisti, invitati come me dal Re di Francia per costruire la Cappella del suo palazzo.

Io conoscevo i miei avversarii; nessuno di loro poteva inspirarmi inquietudini; poichè, Padre mio, fui io che costrussi la Chiesa di S. Giacomo a Vienna; fui io che creai le sue torri cesellate e le sue misteriose [p. 250 modifica]scolture che nascondono un senso mistico e i misteri della grand’opera. Bene, io avevo fatto anche di meglio per la Cappella del Re Luigi. Mai il mio estro si era sollevato con volo più ardito e grande; mai le concezioni della mia mente non ebbero a sognare maggior armonia e grazia. All’interno dei tesori di cesello, una freccia così leggera che nessuno saprebbe comprendere come resista alle violenze della tempesta; mille figure d’angeli e di demonii; infiniti particolari di formare un tutto largo e completo. Poi, sempre all’interno, due cappelle sovrastanti; delle volte d’una arditezza sorprendente, che non riposino se non sopra deboli colonne, senza altro sostegno. Oh! quale sarà la mia gioia! mi dicevo io, quando migliaia di scultori e di manovali sottomessi ad un cenno della mia mano, schiavi del minimo mio sguardo, cominceranno a realizzare il mio nobile e sublime pensiero; quando si scaveranno le fondamenta, quando i muri si eleveranno; quando si costruirà l’armatura in legno del castagneto scelto da me! Giacchè io voglio che questa sia l’opera più perfetta e più compita che siasi mai fatta. Non dipenderò da nessuno per la scelta dei materiali; da nessuno per sorvegliare i lavori.

Sarà fatto tutto da me; una madre ha meno tenerezza pel suo bimbo di quella che ho io per la mia chiesa.... Poi verrà la ricompensa di tante cure e di tante fatiche: l’inaugurazione del sacro tempio, la folla che si pigia e piange d’ammirazione e di gioia; il suono dell’organo; i profumi dell’incenso; il sole che lancia i suoi raggi attraverso le vetrate policrome; Re Luigi inginocchiato avanti all’altare che io ho costruito....

Parigi, la Francia, l’universo ripeteranno con trasporto il mio nome; la mia sarà una gloria eterna contro cui nè la morte nè i secoli non potranno nulla!...

Ecco, padre mio, ciò che io sognavo nella mia folle confidenza, nel mio insensato orgoglio.

A venticinque leghe da Parigi, quasi al termine del mio cammino io incontrai un vecchio.... Egli viaggiava come me; come me si recava dal Re S. Luigi per presentargli dei progetti per la Santa Cappella. Io ridevo della sua fiducia; perchè, mi dicevo io, chi può rivaleggiare con me? Finalmente per curiosità e piuttosto all’intento di compiacerlo, io acconsentii a vedere i suoi progetti che una fatale bonarietà spingevalo a mostrarmi. Oh! padre mio, io ero vinto. Quell’uomo avea più genio di me; la mia gloria sfuggivami; bisognava tornare al mio paese.... Coperto di onta, disonorato, io non ero più il primo architetto del mondo. Ero vinto. Non chiedetemi che cosa avvenne in me da allora, quali pensieri mi bruciavano, qual febbre mi divorava! Tutto quello che so, è che la notte, in un bosco io vidi un vecchio inginocchiato davanti a me che mi chiedeva grazia; che mi sentii le mani imbrattate di sangue; che gli alberi della foresta si imporporarono alla luce che mandava nel bruciare un cumulo di fogli di pergamena.... Dopo d’allora io non ho più nè tregua nè riposo. Volevo andare al palazzo di Re Luigi, ma uno spirito invisibile me ne allontanò. Non mi restò che un rifugio: bere; bere fino alla ubbriachezza; fino all’abbruttimento, fino alla morte del pensiero.

Il Domenicano si alzò. Non era più un cristiano che consolava, era un giudice.

— Ascoltate, — ascoltate ciò che Dio, il Dio che punisce e perdona, vi comanda per bocca mia. In penitenza rinunciate al mondo ed ai vostri sogni insensati di gloria; quind’innanzi non essere altro più che un povero monaco, senz’altro nome quaggiù che quello di frate Antonio.

— Obbedirò.

— Indossate il cilicio ed il saio; non coricatevi che sulla nuda terra, poi fate uso della disciplina; non mangiate che pane nero cosparso di cenere.

— Obbedirò.

— Condannatevi al più assoluto silenzio e le vostre labbra non si schiudano che per pregare. Se vi si insulta, mettetevi in ginnochio; se vi percuotono, baciate la mano che si alzò sopra di voi; se qualcuno riconosce in voi quegli che fu un celebre artista, rispondete: Io non sono altro che frate Antonio.

— Obbedirò.

— E perchè l’espiazione sia completa, abbandonate al fuoco il disegno che vi ha fatto commettere un delitto e gettatene le ceneri al vento; periscano come quelli della vittima.

Ma a queste parole del sacerdote, il colpevole si era alzato.

— Mai, mai. — gridò egli — Piuttosto la dannazione eterna. Distruggere il più nobile, il più grande dei miei concetti! lasciar dire che un altro edificherà la santa Cappella, che nulla resterà dell’opera mia; no. Accetto la penitenza; pregherò, piangerò, mi lacererò le carni a colpi di disciplina; non dirò a nessuno il mio nome, il glorioso mio nome, a nessuno, neppure a me. Ma voi non esigete ch’io bruci il mio disegno; voi non esigerete che io lasci edificare ad un altro la Santa Cappella. Piuttosto l’inferno, piuttosto un nuovo delitto.

La sua voce umile e tremante risuonava rumorosa sotto le volte della chiesa deserta; camminava precipitoso, batteva con violenza l’una mano contro l’altra; un sudor ghiacciato colava dalla sua fronte.

Il Domenicano ne ebbe pietà, e piuttosto che perdere quest’anima energica, piuttosto che respingere la pecorella venuta alla porta dell’ovile, preferì cedere su questo punto della penitenza.

— Ebbene, ascoltate. Che Dio mi perdoni la mia arrendevolezza e non mi punisca di una indulgenza forse colpevole. Voi farete ricapitare il disegno a Re Luigi da una mano sconosciuta: il vostro progetto verrà eseguito, ma la gloria non vi apparterrà punto.

— Oh! grazie, padre mio, grazie. Che mi importa della gloria purchè il mio disegno non vada al fuoco nè perisca, ma venga eseguito? D’altronde, nessuno si ingannerà. Chi altro fuor di me potrebbe creare simile maraviglia? Chiunque dirà: Lui solo poteva esserne l’autore. Grazie, padre mio, grazie.

Il Domenicano sorrise melanconicamente di questa mescolanza singolare di pentimento e di attacco alle vanità del mondo; egli aveva una fede troppo illuminata ed una pietà troppo caritatevole per non essere indulgente.

[p. 251 modifica]— Passate la notte in preghiera in questa Chiesa. Domani mi affiderete il progetto vostro che io mi incaricherò di far rimettere a Re Luigi; poi, se volete sinceramente salvarvi, mi giurerete che più nulla quaggiù avrà importanza per voi.

— Sì, padre mio, sì; quind’innanzi voi dirigerete la vita, la penitenza e persino il minimo pensiero dell’architetto Frantz....

— Silenzio, — interruppe il monaco — il vostro nome non vi appartiene più. Chiunque lo deve ignorare, io come gli altri: perchè questo nome è glorioso, ed un penitente non deve serbare più nessuna pompa terrestre. Frate Antonio, inginocchiatevi.

L’artista sospirò profondamente ed obbedì.

— Almeno, prima di allontanarvi, ditemi chi è il mio salvatore, insegnatemi qual nome io possa associare alle mie preghiere; poichè a lui io devo un bene che avevo perduto per sempre: la speranza della mia salute.

— Pregate per il Padre Tomaso d’Aquino, dell’Ordine di S. Domenico, — disse il monaco nell’allontanarsi.

(Continua).

Trad. di L. Meregalli.

BONTÀ

Straduccia oscura e solitaria
ove par che si limiti l’azzurro,
qual roseo sogno è nella tua aria
pendente tra il balcone tra il susurro?

Qual roseo mito a l’innalzar degl’occhi
pende tra i ferri del balcon severo?
quale incanto di fior pare trabocchi
e il ferro allenta in un feston leggero?

Più tu la strada che il tardivo raggio
rischiari, ghirlanda dal color di rosa,
e a le pupille del viandante, maggio
più tu richiami in tua favella ascosa.

Quale una dolce anima presa
dai suoi ricordi, infinita dolcezza
fuor dal cuor spande, che Iddio le rese,
in bontà ciò che diede in tenerezza,

e del suo mite accento altri rallegra
e si spande su cuori disprezzati,
tale quei fiori dalla casa negra
pendente, ed in ghirlande riversati.

Fernanda Zorda.



Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.



La dolorosa e commovente istoria

di un granatiere “ boxeur „

Pietro Boine è un fervente amateur della boxe. Non lo spaventano le ammaccature, il sangue, nè i pugni ben dati nel cavo dell’occhio o sull’osso nasale; egli è forte — e per di più è granatiere — conosce bene la boxe, e la boxe è la sua passione. Appena egli lesse l’annunzio sui giornali e sui muri della capitale che presto vi sarebbero state delle gare del suo sport amatissimo, si mise in allenamento, già prevedendo che avrebbe dovuto presentarsi al ring.

Come abbiamo detto, egli è granatiere, di stanza a Roma, e perciò non essendo libero di fare ciò che più gli piacerebbe, cominciò il suo allenamento nelle camerate della caserma.

E cinque o sei giorni fa i suoi commilitoni ebbero il nuovo spettacolo di vedere il Boine che, all’improvviso, tralasciava di mangiare o di pulire la sciabola, andava a dare due o tre pugni contro il muro e poi ritornava pacificamente a mangiare mormorando: Ah, la boxe, la boxe!

Di notte, tanto per seguitare nell’allenamento scientificamente inteso, egli si esercitava caricando di pugni il cuscino ed il povero materasso.

Finalmente venne il gran giorno della prima grande gara: egli si fece dare il permesso serale e si recò, esultante, al Frattini.

Vide, ammirò, s’infiammò, si convinse che anch’egli poteva essere un grande boxeur, si crede già campione d’Italia, stava per sognare di diventare campione del mondo, quando, ad un tratto, una voce, proveniente dal palcoscenico, la voce di un boxeur autentico, arrivò sino a lui.

— Io, Martuin, campione di Francia, sfido alla boxe qualunque amateur e qualunque altro campione!

Ah, questo era troppo! Lo sfidavano anche, lui, il granatiere Boine? Pietro Boine è un buon ragazzo ma ha un po’ il sangue caldo e, non ascoltando che il consiglio della propria impetuosità, facendosi prima pallido e poi rosso, prima tremante e poi beato pel gesto compiuto, lanciò un tonantissimo:

— Io Pietro Boine, campione d’Italia, accetto la sfida. —

Oramai la frittata era fatta: era diventato un camp ione davvero — tutto il teatro lo aveva ammirato! — ma si era procurato il grattacapo di farsi rompere il viso.

Eppure bisognava andare sino in fondo: il guanto era lanciato; la bandiera dei granatieri doveva sventolare al vento orgogliosa del suo figlio che si lanciava all’arduo cimento: Boine avrebbe fatto il suo San Pietro col viso ammaccato, ma anche col cuore pieno di fierezza per aver difeso i colori d’Italia ed avrebbe mandato al paese natio i giornali in cui si parlerebbe della grande sfida, in cui si direbbero le sue gesta eroiche, da cui i giovani suoi compagni di età avrebbero imparato che Boine è ormai un grand’uomo.

[p. 252 modifica]Francamente. Pietro era contento di sè. Ritornato in caserma non dormì e solamente il povero cuscino può sapere la febbre intensa, la febbre di entusiasmo che si sviluppò in quel cervello di vent’anni.

La mattina dopo però era un po’ più calmo e cominciò a ragionare con più praticità.

Prima di tutto: egli sapeva di boxe nient’altro che ciò che aveva imparato dando dei pugni, durante tre giorni, contro i muri della camerata. Secondo ostacolo: egli era soldato e non poteva presentarsi in pubblico, in un teatro, senza il permesso dei superiori, permesso che certamente non gli verrebbe concesso.

Come fare?

Ci eravamo dimenticati di dire una cosa: Pietro è un ragazzo intelligente.

Difatti egli architettò subito un piano machiavellico: egli doveva esser libero per la giornata di ieri, libero completamente, libero come l’aria, libero come la sua fantasia: gli occorreva qualche giorno di licenza e l’avrebbe. Alle ore 9 in punto era davanti al capitano medico:

— Cosa vi sentite?

— Capitano, di tanto in tanto mi gira la testa (questo forse era vero!), mi sento le gambe fiacche, mi duole la rotella del ginocchio quando cammino, non ho appetito...

— Ma voi foste malato poco tempo fa?...

— Sì, capitano.

— Ebbene, è debolezza, nient’altro; voi non vi siete rimesso, siete ancora convalescente. Sergente! Il soldato Boine è dispensato dal servizio per otto giorni.

La cosa andava a gonfie vele.

Da campione d’Italia, Boine era diventato un convalescente dei granatieri: era questo però ch’egli voleva. Di corsa andò a mettersi a rapporto col capitano della compagnia.

— Capitano, mi trovo in uno stato di debolezza opprimente, lo ha detto il capitano medico, che mi ha dispensato anche dal servizio: sarebbe Lei tanto gentile di concedermi due giorni — domani e posdomani — di licenza straordinaria per convalescenza? Ne parlerò al colonnello e gli dirò anche una buona parola.

Pietro fece il saluto più militare che avesse mai fatto: era raggiante.

Corse in camerata, fece una capriola sul letto, abbracciò stretto stretto un compagno che stava con tutta calma lustrandosi le scarpe, andò a dare quattro pugni contro il muro e si stese sulla branda sfinito dalla gioia.

Neh, guagliò, ch’è successo?

— Taci, omuncolo, viva la boxe, io sono malato...

Tu si’ escito pazzo.

Per tutto il giorno Pietro Boine fu felice, fece disperare i commilitoni colla sua gioia bambinesca e colle relative effusioni cosicchè se lo avesse potuto vedere il capitano medico che l’aveva visitato il mattino molto probabilmente sarebbe rimasto meravigliato osservando come faccia presto un granatiere a rimettersi dalla debolezza quando ha ottenuto otto giorni di esenzione dal servizio.

Ma

ciò ch’è bello e mortal passa e non dura

e difatti il campione d’Italia della boxe ebbe al mattino dopo — cioè ieri — un ben doloroso risveglio!

— Soldato Boine, venite con me: vi vuole il capitano.

— Bene, bene, lo so: è per la licenza...

Dal capitano:

— Boine, vi sentite ancora debole?

— Tanto, capitano: non posso trascinare le gambe, sto in piedi per miracolo.

— E volete la licenza straordinaria per convalescenza?

— Se ella vuole?

— Ditemi un po’: conoscete quel Pietro Boine che per stasera, ha una sfida di boxe al Frattini?

— Eh?... chi è?... io non so...

— Già, un certo granatiere Pietro Boine, non lo conoscete?

— Capitano... non so...

— Stasera andremo a vederlo, siete proprio voi?

— Ah, sì, capitano.

— Per cui non siete più debole, nè convalescente.

— Lo ha detto il capitano medico...

— Bravo, intanto...

Arriva il colonnello;

— Capitano, è proprio lui che deve andare al «Frattini» stasera?

— Sì, ha confessato.

— Ah, volevate imbrogliare i superiori?... ve la darò io la boxe ed il campionato... Capitano, me lo sbatta in carcere per quindici giorni. March!

Ed il povero Pietro ha dovuto fare retrofront:ed andarsi a consegnare al picchetto di guardia.

Come è vero che

Ai voli troppo alti e repentini
Sogliono i precipizi esser vicini!

Così Pietro Boine dalla cella infame che lo racchiude ha dovuto rinunciare al campionato ed alla gloria, ai pugni sul viso ed a spedire i giornali al paesello natio ed è stato obbligato di andare a fare una cura forzata di 15 giorni per rimettersi dalla debolezza di gambe e dal male alla rotella del ginocchio.

Là dentro, purtroppo, non può nemmeno gridare a squarciagola viva la boxe; non può abbracciare nessun compagno che si lustra le scarpe... Ah! che vita infame, la vita militare!...

Almeno gli avessero dato il suo cuscino che sa tutte le sue gioie, tutti i suoi entusiasmi e tutti i suoi sfoghi... boxistici.

Nemmeno quello... Povero Piero!...

PENSIERI


La maldicenza è come la moneta, che serve a far le spese della giornata, e corre più facilmente. La maggior parte l’intasca senza guardarne il conio.


Onoriamo tutte le opere virtuose; onoriamo l’attività umana in qualsiasi campo ella s’eserciti, quando le sia guida la rettitudine degli intendimenti.


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Per la figlia di A. Nibby

Agli uomini di cuore.

Voi trascorrete per le vie rumorose, per le piazze allietate dalla gioia fulgente del sole, e l’amore alla vita vi germoglia spontaneo nel cuore e dimenticate le piccole angustie della vita quotidiana, sentendo il palpito del mondo nei vostri palpiti, sentendo riflettersi nel vostro animo, come in limpido specchio, l’azzurra purità del cielo, la tersa chiarezza dell’aria.

Vedete intorno a voi facce per lo più sorridenti, udite clamori di risa festose, intravedete nel luccicar degli occhi la tranquillità dell’anima. E allora forse si crede che la felicità non è quell’enigma inspiegabile, quella mèta irraggiungibile come molti ci vogliono far credere.

Beata illusione! Pensate che il più delle volte quel sorriso ohe aleggia sul volto di chi vi passa dinanzi è il sorriso di una di quelle antiche maschere da commedia, sorriso che vuol essere di gioia o di disprezzo che non riesce se non un ghigno di mal celato dolore. Pensate che molti di quelli che voi scorgete lieti festosi non sono che miseri istrioni della comica tragedia umana. Quanti strazi, quante lagrime, quante grida disperate dietro quegli scrosci di risa, dietro quei sorrisi forzati!

Ed è questa, questa che si nasconde sotto l’orpello di una vana letizia, è questa la miseria più grande e più dolorosa, la miseria che deve maggiormente destare la nostra compassione. Rare volte porgete orecchio a quelli che sbraitano la loro indigenza; essi il più delle volte non sono che speculatori e sfruttatori della umana pietà: ma cercate, cercate coloro che temono quasi la luce del giorno e che, nell’oscurità ad arte procurata intorno al loro stato, si trascinano faticosamente sotto la mole della propria disgrazia fino al giorno in cui la morte, troncando il corso di infiniti spasimi, darà la requie che loro dar non seppe la vita.

E coloro che, o per un innato sentimento di nobiltà, per fierezza d’animo, o per legittimo orgoglio soffrono in silenzio, ostentando in pubblico felicità, felicità effimera peggiore d’ogni spasimo, costoro, dico, sono in numero infinito. Ostentando felicità, è vero, ma quando la folla che non sa e non comprende più non si agita loro d’intorno, quando, ascosi nelle mura gelide di una nuda stanza, nessuno può osservare le lacrime che, cocenti e disperate, scendono dal cavo degli occhi, allora questi poveri, addolorati, strenui lottatori della vita piegano finalmente, invocando forse, nell’acutezza dello strazio, il grido ultimo dell’ultima sconfitta.

Ecco quanto accadde ad una donna di ottantadue anni di età, la quale, per conservare intatta la nobiltà del nome grande e intemerato a lei lasciato dal padre, osteggiato anch’esso da quel cieco nume che è la Fortuna, trae gli ultimi giorni della sua vita nella più completa miseria, nel più sconfortante abbandono. Costei è la signora Sestia Nibby, figlia del celebre storico e archeologo romano Antonio Nibby che tanto decoro ha dato alla nostra città cui consacrò tutte intiere le sue nobili fatiche.

Entrando nella stanzetta che ella abita nei pressi della chiesa di S. Salvatore in Lauro, si rimane penosamente colpiti dalla sua estrema povertà.

Da una finestrola a mala pena entra lo splendore del giorno e quella luce fredda e grigiastra aumenta in strana guisa la malinconia del luogo. Le pareti sono quasi nude: da un lato sta un misero letticciulo, pur tuttavia bene assestato. E non notate altro: ma, girando intorno l’occhio ormai assuefatto alla luce incerta della stanzuccia, vedete in un angolo semioscuro alcunchè di biancheggiante: vi accostate: è un busto magnifico in marmo: il busto del padre.

Bisogna non aver cuore per non sentirsi salire le lagrime negli occhi! Quel bianco simulacro, segno di gloria, segno di agiatezza, dominante là, dal suo cantuccio oscuro, quello squallido luogo dove un’esistenza miseramente si consuma vi aumenta quel senso di sconforto e di oppressione quasi che si è impossessato di voi: similmente un fiore lussureggiante nella sua beltà vi rattrista se il suo capo superbo vigoreggi nell’orrido squallore di un deserto.

Quante tragedie interne di quella povera anima non sono collegate al bianco splendore di quel marmo! Quante volte esso non sarà stato baciato dalle labbra aride per febbre della povera vecchia, quante volte le sue scarne braccia tremanti non l’avranno tenacemente stretto, nell’invocazione disperata di un aiuto e di un conforto! Quante volte, quando la fame tormentosa rendeva insonni le lunghissime notti, quante volte ella dal misero giaciglio non avrà rivolto lo sguardo a quella bianca forma, apparente come fantasma nella oscurità della stanza, chiedendo il perchè di quel suo immeritato martirio! E con questi pensieri conclude che immensi debbono essere l’amore, la venerazione che questa donna nutre per il padre suo; poichè essa molte volte avrà dovuto lottare con bisogni stringenti, con necessità imperiose per procurarsi ciò di cui la vecchiaia non può mancare: poichè sapete che essa molte volte esce di casa con la febbre addosso per andare da qualche pietoso che le fa la carità del pranzo; poichè pensate che questo busto ha pure il suo valore.... ed è ancora lì, nel suo angolo oscuro, e per tale oscurità tanto più lucente. E’ ancora lì, sola tavola scampata al gran naufragio, ancora lì per l’amore e per l’abnegazione di questa vecchia che, se prima sentivate di rispettare, ora sentite di amare, di venerare quasi, per questa sua prova sublime di amor filiale. E con ciò sentite pure, e con dolore, che è ben ingiusta questa società scettica ed egoista che, pur riconoscendo il dovere di difendere e di aiutare gli animali, dimentica troppo spesso che, prima di questo, c’è il dovere di difendere e di aiutare il nostro simile.

Dovere anche maggiore quando esso debba esser figlio della gratitudine.

Ho detto gratitudine: e infatti Roma potrà, beneficando Sestia Nibby, assolvere questo debito grandissimo che ella ha per il padre di lei.

[p. 254 modifica] Antonio Nibby diede tutta l’opera sua, tutto se stesso allo studio della storia della città eterna: e con numerose pubblicazioni, che raggiungon quasi la trentina, ha recato un contributo grandissimo alla conoscenza del nostro passato glorioso. Amantissimo degli studii archeologici, per cui fu allievo di Lorenzo Re, a soli ventitrè anni cominciò i suoi lavori coi quali passò in rassegna tutte le questioni più importanti, illustrò i luoghi più famosi di Roma e dintorni, commentò i monumenti nostri più celebri. Esso fu di un’attività e di una versatilità senza pari: con la più gran disinvoltura passava dalla traduzione della Grecia di Pansana alla descrizione delle Vie degli antichi, dallo studio su La forma e le parti che costituivano le antiche chiese cristiane alla illustrazione storico-archeologica del Museo Pio-Clementino.

Nei suoi studi ebbe a predecessori i celebri E. Q. Visconti, Filippo Aurelio Visconti e Giuseppe Guattani e di costoro il Nibby uguagliò, se non superò, la profondità della dottrina e l’acutezza della critica. Il bene che egli ha fatto alla nostra città è immensurabile: poichè egli per primo l ha iniziato i lavori di costruzione storica, topografica, archeologica della campagna romana e si può ben dire che se egli non fosse stato, il Gregoriovus non sarebbe così grande come è ed il Tomassetti, testè rapito a noi, non ci avrebbe potuto dare così completa quella poderosa sua opera sull’Agro romano. Dico questo poichè il Nibby è stato l’esploratore di questa parte della nostra storia: è stato colui che ha saputo tracciar le vie principali, togliendo via i primi ingombri, spiandone le più grandi difficoltà, agevolando così e di gran lunga il lavoro ai suoi successori, come realmente è stato.

E con le descrizioni altresì di Villa Adriana, di Subiaco, della villa d’Orazio, ecc., ecc., egli ha fatto conoscere cose a tutti ignorate, rendendo note, specie all’estero dove i suoi libri venivano e vengono ancora molto apprezzati, le bellezze interne ed esterne, dirò così, della nostra città invogliando gli stranieri a visitarle.

E con tutto ciò, con tutto il suo lavoro, egli, a soli 47 anni, morì poverissimo. La pietà di un amico pensò a fargli onorevoli funerali. La famiglia numerosa rimase così nel lutto e nella povertà, aiutata nei bisogni più urgenti da qualche amico pietoso e da qualche Accademia a cui l’illustre estinto apparteneva. Ma ora le Accademie più non esistono: gli amici pietosi saranno tutti morti e la povera Sestia dovrà finire così, solo ottenendo per il suo cadavere il conforto dell’altrui pietà?

Mi auguro di no. Sono tanti gli Istituti di beneficenza, sono tante le persone in Roma che si ascrivono a dovere la tutela di questi poveri derelitti della fortuna, e che questo dovere compiono e con letizia. Noi additiamo loro questa grande miseria ignorata, sicuri che vorranno rendere meno amari gli ultimi giorni di vita che il cielo assegna a questa infelice. E’ questione di cuore e di gratitudine: e, fortunatamente, per la maggior parte degli uomini, cuore e gratitudine non sono ancora parole vane e senza soggetto. Diano essi questo frutto di carità e faccian sì che un uomo così benemerito della nostra nazione in genere e della nostra Roma in ispecie abbia almeno in ispirito la soddisfa. zione di vedersi rimunerato di tanto amore e di tanta attività nell’ultimo avanzo della sua stirpe infelice.

Guglielmo Ferri.