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IL BUON CUORE 253


Per la figlia di A. Nibby

Agli uomini di cuore.

Voi trascorrete per le vie rumorose, per le piazze allietate dalla gioia fulgente del sole, e l’amore alla vita vi germoglia spontaneo nel cuore e dimenticate le piccole angustie della vita quotidiana, sentendo il palpito del mondo nei vostri palpiti, sentendo riflettersi nel vostro animo, come in limpido specchio, l’azzurra purità del cielo, la tersa chiarezza dell’aria.

Vedete intorno a voi facce per lo più sorridenti, udite clamori di risa festose, intravedete nel luccicar degli occhi la tranquillità dell’anima. E allora forse si crede che la felicità non è quell’enigma inspiegabile, quella mèta irraggiungibile come molti ci vogliono far credere.

Beata illusione! Pensate che il più delle volte quel sorriso ohe aleggia sul volto di chi vi passa dinanzi è il sorriso di una di quelle antiche maschere da commedia, sorriso che vuol essere di gioia o di disprezzo che non riesce se non un ghigno di mal celato dolore. Pensate che molti di quelli che voi scorgete lieti festosi non sono che miseri istrioni della comica tragedia umana. Quanti strazi, quante lagrime, quante grida disperate dietro quegli scrosci di risa, dietro quei sorrisi forzati!

Ed è questa, questa che si nasconde sotto l’orpello di una vana letizia, è questa la miseria più grande e più dolorosa, la miseria che deve maggiormente destare la nostra compassione. Rare volte porgete orecchio a quelli che sbraitano la loro indigenza; essi il più delle volte non sono che speculatori e sfruttatori della umana pietà: ma cercate, cercate coloro che temono quasi la luce del giorno e che, nell’oscurità ad arte procurata intorno al loro stato, si trascinano faticosamente sotto la mole della propria disgrazia fino al giorno in cui la morte, troncando il corso di infiniti spasimi, darà la requie che loro dar non seppe la vita.

E coloro che, o per un innato sentimento di nobiltà, per fierezza d’animo, o per legittimo orgoglio soffrono in silenzio, ostentando in pubblico felicità, felicità effimera peggiore d’ogni spasimo, costoro, dico, sono in numero infinito. Ostentando felicità, è vero, ma quando la folla che non sa e non comprende più non si agita loro d’intorno, quando, ascosi nelle mura gelide di una nuda stanza, nessuno può osservare le lacrime che, cocenti e disperate, scendono dal cavo degli occhi, allora questi poveri, addolorati, strenui lottatori della vita piegano finalmente, invocando forse, nell’acutezza dello strazio, il grido ultimo dell’ultima sconfitta.

Ecco quanto accadde ad una donna di ottantadue anni di età, la quale, per conservare intatta la nobiltà del nome grande e intemerato a lei lasciato dal padre, osteggiato anch’esso da quel cieco nume che è la Fortuna, trae gli ultimi giorni della sua vita nella più completa miseria, nel più sconfortante abbandono. Costei è la signora Sestia Nibby, figlia del celebre storico e archeologo romano Antonio Nibby che tanto decoro ha
dato alla nostra città cui consacrò tutte intiere le sue nobili fatiche.

Entrando nella stanzetta che ella abita nei pressi della chiesa di S. Salvatore in Lauro, si rimane penosamente colpiti dalla sua estrema povertà.

Da una finestrola a mala pena entra lo splendore del giorno e quella luce fredda e grigiastra aumenta in strana guisa la malinconia del luogo. Le pareti sono quasi nude: da un lato sta un misero letticciulo, pur tuttavia bene assestato. E non notate altro: ma, girando intorno l’occhio ormai assuefatto alla luce incerta della stanzuccia, vedete in un angolo semioscuro alcunchè di biancheggiante: vi accostate: è un busto magnifico in marmo: il busto del padre.

Bisogna non aver cuore per non sentirsi salire le lagrime negli occhi! Quel bianco simulacro, segno di gloria, segno di agiatezza, dominante là, dal suo cantuccio oscuro, quello squallido luogo dove un’esistenza miseramente si consuma vi aumenta quel senso di sconforto e di oppressione quasi che si è impossessato di voi: similmente un fiore lussureggiante nella sua beltà vi rattrista se il suo capo superbo vigoreggi nell’orrido squallore di un deserto.

Quante tragedie interne di quella povera anima non sono collegate al bianco splendore di quel marmo! Quante volte esso non sarà stato baciato dalle labbra aride per febbre della povera vecchia, quante volte le sue scarne braccia tremanti non l’avranno tenacemente stretto, nell’invocazione disperata di un aiuto e di un conforto! Quante volte, quando la fame tormentosa rendeva insonni le lunghissime notti, quante volte ella dal misero giaciglio non avrà rivolto lo sguardo a quella bianca forma, apparente come fantasma nella oscurità della stanza, chiedendo il perchè di quel suo immeritato martirio! E con questi pensieri conclude che immensi debbono essere l’amore, la venerazione che questa donna nutre per il padre suo; poichè essa molte volte avrà dovuto lottare con bisogni stringenti, con necessità imperiose per procurarsi ciò di cui la vecchiaia non può mancare: poichè sapete che essa molte volte esce di casa con la febbre addosso per andare da qualche pietoso che le fa la carità del pranzo; poichè pensate che questo busto ha pure il suo valore.... ed è ancora lì, nel suo angolo oscuro, e per tale oscurità tanto più lucente. E’ ancora lì, sola tavola scampata al gran naufragio, ancora lì per l’amore e per l’abnegazione di questa vecchia che, se prima sentivate di rispettare, ora sentite di amare, di venerare quasi, per questa sua prova sublime di amor filiale. E con ciò sentite pure, e con dolore, che è ben ingiusta questa società scettica ed egoista che, pur riconoscendo il dovere di difendere e di aiutare gli animali, dimentica troppo spesso che, prima di questo, c’è il dovere di difendere e di aiutare il nostro simile.

Dovere anche maggiore quando esso debba esser figlio della gratitudine.

Ho detto gratitudine: e infatti Roma potrà, beneficando Sestia Nibby, assolvere questo debito grandissimo che ella ha per il padre di lei.