Il buon cuore - Anno X, n. 28 - 8 luglio 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Religione Società Amici del bene

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Al Collegio Rosmini di Stresa

Favorita da una splendida giornata, una sì bella solennità al Collegio, non poteva aver esito migliore in ogni sua parte e la ricorderanno sempre, come una gioconda festa dell’intelletto e del cuore, quanti ebbero la ventura di prendervi parte, e non furono pochi, venuti anche da fuori, al richiamo gentile delle antiche memorie, della riconoscenza, della amicizia che non si rallenta per scorrer veloce di anni e per mutarsi incalzante di vicende e di cose.

Correva il giorno onomastico dell’amato Rettore Don Pietro Cerutti, ed, insieme, una data memoranda e cara della vita di lui, il XXV anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Come avrebbe potuto questo giorno passare senza specialissimo segno di esultanza da parte dei Confratelli, dei discepoli d’oggi e di ieri, degli amici del degno Rettore?

Già la sera prima tutto il Collegio si stringeva intorno a Don Pierino e colla parola, e coi fiori, e coi doni offerti diceva a lui l’affetto riconoscente e vivo che lo circonda, e rimerita le sue cure «soavi e forti» di educatore e di padre.

Il 29 giugno nella Chiesa del Collegio tutta a fiori ed a luci, il festeggiato celebrava, non senza viva conimozione sua e dei molti presenti, la sua Messa d’argento ed al mistico Rito, cui assisteva non soltanto dal bianco marmo del Vela, l’immortale Roveretano, teneva dietro la benedizione della ricca serica Bandiera che in questa fausta occasione Convittori, Superiori ed Amici offrivano al Collegio Rosmini; era padrino l’ill.mo sindaco di Stresa avv. cav. uff. Ottolini, ed oratore il reverendo prof. Don Alessandro Rocca, che, detto in un toccante discorso della dignità e missione del Sacerdozio, trovò pure nobilissime parole per incitare i giovani ai due grandi amori Religione e Patria, i cui nomi brillavano a caratteri d’oro sull’inaugurando vessillo.

Più tardi, dinanzi ad autorità ed invitati, canti e poesie varie salutavano nel giardino, sotto la volta azzurra del cielo riflesso sul lago e sul panorama meraviglioso del golfo sottostante in una festa superba di colori, la bandiera spiegata al bacio del sole; e giungevano altri doni preziosi, fra i quali primo quello di S. A. R. la Duchessa di Genova Madre, la veneranda Donna che aveva voluto dire il suo memore pensiero al degno Rettore.

Seguiva il banchetto. Alle frutta brindava primo il sindaco cav. Ottolini che diceva tutto un inno di gloria e d’onore al Collegio Rosmini del benessere di Stresa tanto benemerito. Seguiva I. Ceretti che recava i saluti e gli auguri degli amici di Intra, e suscitava, parlando di pesca, di reti e di pesciolini, tale scroscio d’applausi che parve ne volesse rovinare la sala.

E poichè nelle pieghe sinuose dell’aurea rete che in questo giorno lieto avviluppava e stringeva dolcemente i presenti egli vedeva brillare gli occhietti luminosi di lucci superbi, che, un di pesciolini minuscoli delle quiete acque del Collegio, avevano oggi sentito il fascino maliardo della rete antica, augurava all’ottimo Rettore che tutti i pesciolini guizzanti oggi intorno a lui sentissero sempre la nostalgia delle fresche e limpide acque verbanesi ed a fiotti copiosi queste acque ne riversassero su per la collina deliziosa che porta il Convitto, il faustissimo giorno, daí presenti tutti auspicato, nel quale il Rettore amatissimo celebrerà la sua Messa d’oro.

Nuovo scroscio d’applausi entusiastici ma non più soli stavolta, che ad essi — per coincidenza gentile — si mischia il rombar rumoroso d’un’automobile che, proprio in quel preciso istante, depone al Collegio un numeroso gruppo di Convittori liceisti a Domo che ritornano alla rete d’un dì, e vengono a portare a Don Pietro il pescatore, omaggi ed augurii affettuosi.

Poi, al caffè, parlano altri ed altri, il cav. dott. Pestalozza, il cav. ing. Tadini, il cav. avv. Bonola, un ex Convittore, ecc., e tutti ripetono i dolci auguri a Don Pierino, che vivamente commosso ringrazia tutti del bene dimostratogli e del quale si allieta per sè stesso ma più ancora per l'Istituto al quale egli si è consacrato.

La bella Accademia presenziata da eletto pubblico, e nella quale è svolto genialissimo programma, poi una splendida generale illuminazione del Collegio chiudono la memoranda giornata, della quale abbiamo detto solo a grandi tratti, mentre facciamo solenne promessa di dire più a lungo, se non potremo con maggior affetto, di quella che la seguirà di quì ad un quarto di secolo, e che ieri tanti cuori affezionati e cari, hanno augurata all’impareggiabile Rettore.

Dopo il Congresso degli Italiani all’Estero

Ora che il congresso degli italiani all’estero è definitivamente chiuso e venne effettuata anche la visita a Torino, non parrà forse superfluo uno sguardo retrospettivo ai lavori, di cui ci siamo occupati quotidianamente, e che domandano soltanto di essere considerati nel loro insieme, nella luce che emana dalle diverse discussioni del congresso. Il successo è indiscutibile. Tutte le persone intervistate dal Corriere d’Italia, dal Giornale d’Italia, ecc., furono perfettamente d’accordo nel constatare che il secondo congresso degli italiani all’estero rappresentava sul primo un reale progresso, ch’era più metodico, più positivo, più cosciente dei doveri che incombono all’Italia di fronte all’arduo problema dell’emigrazione. Quando si riflette che più di cinque milioni dei nostri connazionali vivono sott’altro cielo, che gli emigrati costituiscono un sesto della popolazione totale del regno, e che questo sesto esercita un’influenza preponderante sui fratelli che restano, non si può rimanere indifferenti al fenomeno dell’emigrazione in Italia. Amore di patria e [p. 220 modifica]di religione debbono convergere ad un identico scopo: salvare l’italianità e la fede in colui che lascia il nostro bel cielo per cercare un tozzo di pane onorato in terra straniera. In patria possono sussistere divisioni politiche, religiose, sociali; ma queste divisioni non hanno più ragione d’essere quando si tratta di venire in aiuto dei nostri emigranti delle piccole Italie che debbono tener alto il prestigio della patria in qualsiasi parte del globo. Questa concordia di animi rifulse al congresso, anche là dove s’accapigliavano le diverse concezioni della vita, materialistica o spiritualistica. Al di sopra delle ire di parte, appariva l’imagine radiosa della patria che mitigava le rampogne e faceva trovare una soluzione comune, tra gli applausi generali. Ricordo con preferenza la discussione sugli Mädchenheim che lasciava presagire una tempestosa battaglia. Tre correnti si erano designate, una conservatrice, un’altra, non saprei dire se rivoluzionaria o idealistica, una terza temperata. Angiolo Cabrini aveva aperto il fuoco. Nelle sue parole vibrava l’accento di un socialista disposto domani a varcare la soglia del Quirinale, ma colla preoccupazione di smentire il motto irriverente dell’attuale presidente del consiglio: Carlo Marx in soffitta. Questi asili, heime, per fanciulle sono presieduti generalmente da suore. Non è per questo che Cabrini lancia il suo strale. Tra un ricovero sicuro dove vegliano le candide cornettes e la bettola dove la fanciulla si avvia al disonore; Cabrini non esita.. Le sue preferenze vanno alle suore. Ma questi heime sono un prolungamento del dominio padronale, sono la fucina del krumiraggio, sono una jattura economica. Dunque? vanno combattuti inesorabilmente? Il ritorno alla bettola s’impone? L’Opera d’assistenza per mezzo di alcuni simpatici rappresentanti, l’on. Baslini, il professore Galavresi, il conte Stefano Jacini, don Priori doveva contemperare l’ideale al contatto del reale. L’organizzazione professionale del lavoro? Nulla di meglio. L’indipendenza di questi asili dall’influenza padronale? È l’ideale. A San Gallo l’Opera d’assistenza ha fatto sorgere uno di questi asili che funziona egregiamente, ma i sacrifici non sono pochi, non bisogna nasconderlo. Là dove non è possibile un ricovero indipendente, bisognerà far ritorno alla bettola? No, perchè — e tutta l’assemblea conveniva su questo punto — il fattore morale deve avere il sopravvento sul fattore puramente economico, per quanto — e don Priori lo faceva notare — si videro gli scioperi incoraggiati dalle suore negli heime padronali stessi, quando la giustizia li rese necessari. E si finì per votare un ordine del giorno in cui i nostri amici Gallavresi e Jaccini apparivano i veri trionfatori. Nei giorni antecedenti, essi s’erano imposti al rispetto per la conoscenza tecnica di tutte le questioni precedentemente discusse, nella discussione degli Mädchenheim i rappresentanti dell’Opera d’assistenza sapevano fondare mirabilmente l’ideale e il reale, avviando il congresso verso l’attuazione progressiva di ciò che apparve a tutti come la meta ideale da conquistare. Ed Angiolo Cabrini prendeva occasione per rendere omaggio agli avversari, non soltanto pei rapporti personali migliorati, ma in nome di un ravvicinamento incontestabile. L’Opera può aver commesso degli errori, come l’Umanitaria del resto — s’affrettava ad aggiungere il Cabrini — ma l’esperienza ha dimostrate molte cose di cui l’Opera ha saputo approfittare. Ciò non impediva all’Avanti! di tornare all’indomani alla carica contro l’Opera, ma doveva rettificare subito le accuse, dietro lettera perentotia di chi opponeva fatti positivi a calunnie generiche e sistematiche.

Al congresso i giovani nazionalisti recarono la nota pugnace contro di San Giuliano ed i rappresentanti ufficiali dell’Italia all’estero che si rannicchiano, che mettono la bandiera nazionale in tasca. Sul terreno della nostra attività all’estero, il nazionalismo è meno vaporoso di quanto è generalmente creduto ed esercita un funzione che ha la sua ragione d’essere. In un momento di sfibramento nazionale, mentre la dittatura di un vecchio settantenne dal parlamento sembra estendersi a tutto il paese, con oblio totale di tutto ciò che si riferisce alla nostra influenza all’estero, la combattività giovanile nazionalistica, anche quando può sembrare trascendere, va risguardata con occhio benevolo. Ciò premesso, astraendo da tutte le altre questioni che ci toccano meno direttamente, abbiamo preso visione di quello che fanno i cattolici non solo perciò che concerne la emigrazione temporanea e contitinentale, ma anche perciò che risguarda l’emigrazione transoceanica. Erano presenti al congresso il P. Bandini, il fondaiore di Tontitown, e il P. Caruso, le cui scuole in America, a Filadelfia, sono fiorentissime e dal punto di vista dell’italianità — non disgiunta dal bacio di Cristo — non temono confronti. Certo, i bisogni sono grandi, messis multa, operarii autem pauci. Occorre che i cattulici nella loro fede intensa e nel loro patriottismo, sappiano compiere nuovi sforzi e dirigerli ad uno scopo sempreppiù preciso. Il problema dell’emigrazione è per noi un problema di vita o di morte, sotto il duplice punto di vista nazionale e religioso. Bisognerà che tutti, collettivamente, prendiamo coscienza di quest’arduo problema. Il terzo congresso degli italiani all’estero deve segnare una nuova tappa nell’ascensione della nostra attività. Leggevo qualche giorno addietro nella Germania di Berlino, una lunga colonna consacrata all’opera della protezione degli emigranti cattolici. I cattolici di Germania si occupano minuziosamente della partenza, del viaggio, dell’arrivo in terra straniera di coloro che lasciano la patria per tentare fortuna altrove. Gli emigrati si riuniscono tosto in associazioni, generalmente attorno a consolati, chiamano nuovi fratelli, li ricevono e compiono la penetrazione pacifica ovunque. Non v’ha paese al mondo dove non ci siano rappresentanti della razza germanica. L’associazione cattolica di San Raffaele contribuisce potentemente alla protezione dei cattolici emigranti contro pericoli economici, religiosi e morali. Fondata nel 1871, ha consacrato al suo scopo 24 milioni di marchi e soccorse due milioni d’emigranti. Essa ha messo nei porti del mondo intero degli uomini di fiducia incaricati d’occuparsi di coloro che partono o arrivano, di procurare loro colla facilità dell’alloggio quella del [p. 221 modifica]servizio divino. L’associazione è rappresentata in Europa, in America e in Australia, ecc. Presso l’Ordinario di ogni diocesi, v’ha in Germania un membro di fiducia specialmente occupato allo scopo dell’associazione di San Raffaele: scopo che non è puramente religioso, poichè ogni emigrazione nuova può essere considerata come la creazione di uno sbocco nuovo per l’esportazione; e così i cattolici lavorano alla prosperità e alla grandezza della loro patria.

La situazione non è identica in Germania ed in Italia. Da noi il cattolicismo ha radici più profondamente nazionali, ma urge che gli italiani che rimangono in patria si occupino maggiormente della Italica gens che emigra, che siano mantenuti più intimi i rapporti tra le piccole Italie e la madre patria, e che sopratutto si vegli alla conservazione della fede religiosa, perduta la quale, il nostro emigrato diviene facilmente preda dell’anarchia.

L’Opera d’assistenza, l’Italica gens, i Salesiani, i nostri missionari in genere — per non nominare ogni associazione particolarmente — sono benemeriti. Ma non si è fatto ancora abbastanza. Bisogna tendere ad altiora.

E. V.

Il problema della cittadinanza all’estero

Un caratteristico e necessario contrasto ha animato di tanta passione e di tanto fervore la discussione sulla cittadinanza che si è svolta al congresso degli italiani all’estero; un contrasto in cui tutti gli italiani che si trovano lontani dalla madre patria vengono prima o poi a trovarsi; un contrasto che dà loro tormento di spirito e che pone in conflitto i più gravi loro interessi — da cui pure non possono prescindere — e le loro più sincere e potenti aspirazioni di nazionalità.

Lasciamo da parte il caso del cittadino italiano che, nella sua qualità di emigrante, traversa periodicamente l’oceano e passa breve parte dell’anno all’estero, occupato in determinati lavori di cui, poi, trarrà quei risparmi che riverserà in patria. Egli, nella terra che lo accoglie, non stringe legami di sorta, non crea che transitori interessi e per lui il problema di cui tanto si discute non ha che un valore relativo. Lascia la patria come cittadino italiano, tale rimane durante la sua permanenza in terra straniera e tale, secondo il giusto concetto dei più, deve rimanere anche se, dal suo stato giuridico che lo pone in contrasto con la nazione che lo ospita, può ricevere qualche danno.

Il problema della cittadinanza assurge, invece, alla più alta importanza e va considerato sotto un aspetto in certo modo sentimentale — sotto quell’aspetto, cioè, che commuove la grande turba di italiani che vi sono interessati e che rende le discussioni sull’argomento vive ed appassionate — solo quando riflette la condizione di quei nostri connazionali i quali — forse avendo lasciata la madre patria con l’intenzione di ritornare a lei, o avendola lasciata con la ferma volontà di rimanere a lei uniti negli affetti e con vincoli giuridici — si accorgono poi che questa loro intenzione e questa volontà s’infrange di fronte a realtà molto tristi e certo superiori e più forti della loro nobile idealità.

Essi s’illusero di poter lasciare l'Italia e di poter creare una fitta rete d’interessi materiali in terra straniera pur rimanendo cittadini italiani; e si accorgono, invece, che la terra straniera se dà loro quella fortuna che ricercavano avidamente toglie ad essi, in compenso, qualche cosa della loro anima italiana; perchè li costringe, appunto per questi interessi, a rinunciare al titolo della patria di origine, a divenire figli di un’altra nazione e ad interessarsi, per proprio tornaconto, delle sorti e degli interessi della nuova patria, che hanno accettato.

E tutti i rimedi che si sono escogitati finora per risolvere il problema non servono che ad alimentare illusioni; illusioni che poi, come tanti sogni dei nostri emigranti, svaniscono.

Si era trovata la formula giuridica della doppia cittadinanza; ma essa oramai è abbandonata come la risoluzione più grottesca del problema e come l’assurdo giuridico più urtante e più repugnante. La cittadinanza che costituisce prevalentemente una forma di diritto anzichè uno stato di fatto non può sovrapporsi due volte nello stesso soggetto; perchè altrimenti quel conflitto, la cui risoluzione andiamo cercando, lo ritroviamo più grave e più acuto laddove credevamo di averlo eliminato. Senza dire — come acutamente osservò ieri lo Scialoia prospettando il problema da un punto di vista pratico e molto doloroso per noi — che la doppia cittadinanza è un sistema pericoloso per noi italiani che all’estero, in gran parte a torto e certo con grandi esagerazioni, siamo accusati di essere spesso e volentieri poco rispettosi della buona fede altrui. Questa doppia cittadinanza può spingere talvolta gli elementi peggiori della nostra emigrazione fino alla truffa e può gettare sugli elementi migliori — che costituiscono la grande maggioranza — un sospetto che certamente danneggia il nostro nome all’estero. Dunque, per queste e per altre considerazioni anche più gravi, la risoluzione della doppia cittadinanza va scartata, e l’ha condannata solennemente il congresso di Roma approvando un ordine del giorno in cui di essa non si parla neppure.

Ma in esso, se non si parla della doppia cittadinanza, non si affronta neppure il problema nel suo aspetto principale; almeno che per risoluzione, certo molto indiretta, non si consideri l’affermazione molto importante del resto, che l’assunzione della cittadinanza straniera non va reputata come atto contrario alla patria. Però, a parte questo, l’impressione che si prova nel leggere il lungo ordine del giorno che il congresso ha approvato con tutti i suoi considerando è questa: che esso, nel complesso, non corrisponda, nell’importanza e nello spirito, alla larga e veramente alta discussione che lo precedette. Il dibattito a cui presero parte eminenti giuristi, uomini politici e pubblicisti, portò alla penetrazione dello spirito vero del problema ideale che si discuteva e il congresso, invece, con l’approvazione di un voto, sanzionò solo degli aspetti particolari, [p. 222 modifica]speciali del problema. E trascurò, invece, di esprimere il suo pensiero sulla questione fondamentale che è nell’anima di tutti; se si debba, cioè, rinunciare o no, per necessità di cose, alla cittadinanza italiana e se gli italiani che sono all’estero e che si trovano in conflitto di idealità e di interessi debbano prima preoccuparsi dell’interesse loro personale abbandonando la cittadinanza italiana per quella straniera, o debbano invece preoccuparsi dell’interesse ideale e collettivo della patria rimanendo sempre e ad ogni costo cittadini italiani.

Ora è certo che una simile questione — che contiene in sè molti elementi ideali più che positivi — non si formalizzano in un ordine del giorno, o costringere poi in una norma di legge; ma è pure vero che il congresso avrebbe potuto esprimere un’opinione precisa in materia, creare un tendenza, o meglio riassumere — dandogli significato e valore — la tendenza che già c’è e per la quale i cittadini italiani, che per necessità di cose vi sono costretti, abbandonano facilmente la cittadinanza italiana non preoccupati da un sentimento di nazionalità che se è encomiabile ha pure i suoi gravi inconvenienti. Noi italiani che viviamo in patria non abbiamo, insomma, il diritto io credo, di chiedere ai nostri confratelli che ne sono lontani un sacrificio superiore alle loro forze e gravemente dannoso ai loro interessi.

Sappiamo, ad esempio, che in certi Stati americani il conflitto delle varie nazionalità è ardente e che i cittadini italiani, che pure sono numerosissimi, non godono di tutti quei diritti e di quei vantaggi di cui gli altri godono; e ciò perchè, non essendo cittadini americani, non possono adire ai pubblici uffici e alle pubbliche cariche le quali sono, invece, monopolio di tutti gli elementi di altre nazionalità avversi alla nostra. Ora, come si può in coscienza condannare ed accusare di scarso amore alla madre patria il cittadino italiano che, per tutelare i suoi interessi, la sua dignità, per difendersi insomma, abbandona la cittadinanza italiana? Non è possibile condannare; e si dovrà dire, anzi, che esso fa bene a tentar di tutto per penetrare nella compagine della nazione che lo ospiti; solo così egli farà opera di penetrazione italiana, solo così potrà concorrere ad affermare in terra straniera la nostra razza e lo spirito migliore e più puro della nazionalità italiana.

Del resto la nazionalità, nella sostanza, è data non tanto dal titolo giuridico per cui uno appartiene ad una nazione piuttosto che ad un’altra, ma è data dalla somma d’interessi e di condizioni di vita che legano l’individuo ad una determinata terra. Tanto che solo allorquando questa fitta rete di condizioni e d’interessi ha raggiunto il suo culmine, si sente la necessità di dare sanzione giuridica al mutamento di cittadinanza; ma il mutamento, in realtà, era già avvenuto da un pezzo.

Posta così la questione, a me sembra del resto, che avvenuto il trapasso da una cittadinanza all’altra, il problema non sia esaurito; ma esso anzi, giunto a questo punto, si sollevi in tutta la sua gravità. Ed il problema è questo: come si può far rimanere italiano un cittadino che, lontano dalla patria, non è e non può essere cittadino del regno d’Italia? Che cosa si deve tentare per far rimanere nella sua anima, non alimentata da interessi, quella scintilla di nazionalità per cui ogni italiano, pur non giuridicamente tale, deve portare in mezzo agli stranieri l’affermazione potente della nostra razza, del suo carattere etnico, della sua forza e della sua genialità?

E le risposte a così gravi domande potrebbero essere molte e si potrebbe anche accennare a tutto un programma di educazione e di penetrazione nazionale che altre nazioni — quella tedesca e quella inglese sopra tutte — curano gelosamente come infallibile mezzo per affermarsi in tutti i modi anche in terra straniera. Ma il problema è così grave e così complesso che non è possibile trattarlo sommariamente; e occorre accennarlo appena per intuirne l’importanza. Sarebbe, cioè, necessai io — perchè gl’italiani rimanessero tali... anche quando più non lo sono — che lo Stato nostro non limitasse la sua tutela a quando essi sono in patria; ma seguisse, custodisse e tutelasse con amore i loro interessi e il loro carattere d’italiani anche quando sono fuori della patria: e sopratutto allora. Perchè il cittadino italiano che traversa l’oceano il più delle volte è un povero essere debole che, per difendersi, cerca protezione; e siccome non la trova negli organismi che rappresentano ufficialmente il suo Stato, la sua nazione, è costretto a cercarla nello Stato straniero. Solo allora la trova e solo allora si accorge che la patria italiana si è dimenticata, si è disinteressata di lui. E così, oltre la cittadinanza che già ha abbandonata, perde molto spesso anche lo spirito di nazionalità e a poco a poco perde anche l’amore per la patria. E lo perde perchè non ha nessuna ragione di esser grato verso chi, mentre non doveva, si dimenticò di lui. Ora questo non deve, non dovrebbe più essere. Lo Stato italiano ha il supremo dovere di comportarsi in modo, nella sua azione politica verso gl’italiani che sono all’estero, da costringerli alla gratitudine, all’amore, all’attaccamento ideale verso la patria anche quando, per ragioni imprescindibili di necessità, non possono più rimanere a lei uniti.

Giulio Seganti.


COME IL MAR

Da DOMINGO MARSINTO.


Per coloro cui lieto splende all’alma
dell’età giovanile il primo albor,
mostra la vita ampi orizzonti in calma
come li mostra il mar.

Per coloro, che tutti sono assorti
nelle illusioni di un felice amor,
pure la vita offre ospitali porti
come li offre il mar.


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Per coloro che cercan le feconde
lotte, sperando glorioso allor,
ha pur la vita procellose l’onde,
come quelle del mar.

Per coloro che naufraghi, speranza
più non hanno di gloria nè d’amor,
solo è la vita silenziosa stanza
deserta come il mar.

Oreste Beltrame.

MARIA PIA

A distanza di pochi giorni, la Regina Maria Pia ha seguito nella tomba Colei che le fu sorella anche nel dolore.

Era nata in Torino il 16 ottobre del 1847, nella primavera della patria; e come figlioccia di S. S. Pio IX, Ella era stata detta Pia, perchè questo suo secondo nome suonasse simbolo e speranza di redenzione italica.

Giovanetta quindicenne, elesse sua patria d’adozione la terra che fu d’esilio a Re Carlo Alberto, e andò sposa in Portogallo all’infante Luigi di Braganza.

A Lisbona, dove giunse il 6 ottobre, ebbe accoglienze grandiose. Mai, si disse, una visione di giovinezza più pura, più gentile passò fra tanti osanna sotto innumerevoli archi di trionfo. Piazza del Commercio, nei pressi della Reggia sontuosa che si specchia nell’estuario del Tago, era tutto un padiglione di fiori e di luci; quarantasei anni dopo quella piazza doveva essere il luogo di una spietata, selvaggia caccia all’uomo, e le vittime che dovevano insanguinarla erano il miglior sangue dell’allora adolescente Principessa, accolta nella sua nuova patria come una fata benefica dal consenso di tutti i portoghesi.

Ma la sventura aveva segnato di sanguigno il ciclo della sua vita. Nell’89 Re Luigi muore a soli so anni; nel 1900 un ferale annunzio la chiama in Italia, a Monza. E chi ricorda Maria Pia di quel tempo, accorsa a rendere l’ultimo tributo di affettuoso pianto alla salma del Re buono, sa come ella apparisse trasfigurata ed invecchiata, ombra dolorosa suscitante una immensa pietà.

Ma il calvario di questa Regina non era finito.

Dopo la strage del 1908, ecco scoppiare la rivoluzione del 6 ottobre 1910 (notate il fatale ritorno di questa data) che sradica e schianta il trono dei Braganza! Quale somma di sventure sul capo di questa esile e pallida donna. Qualunque altra esistenza si sarebbe spezzata all’urto di sì tragico destino! Ma Maria Pia è figlia di una stirpe ferrea, nella quale è tradizione immutata che anche le donne posseggono una forza d’animo eroica.

La Principessa Clotilde, resistendo ai consigli di salvezza a Lei mandati da Re Vittorio a Parigi, scrisse nella nobilissima lettera pubblicata di questi giorni: «Sono certa che Maria Pia farebbe come me».

E fu, difatti, la morta Regina l’unica che sconsigliasse la fuga al giovane nipote Re Manuel. Ella avrebbe voluto resistere alla rivoluzione; sapeva come quelli della sua stirpe affrontare il pericolo. In carrozza aperta Ella percorse le vie di Lisbona ai tempi della sommossa contro Re Luigi; salvò dalle acque i suoi figli, rispose fiera e risoluta ad un generale spaccone e despota che, invasa la Reggia, l’aveva fatta alzar di notte: Siete fortunato che non sia io il Re, perchè domani vi farei fucilare sulla prima piazza di Lisbona!

Il sangue dei Savoia non mentiva nelle sue vene: alla bontà, alla pietà che la rendevano tanto amata e rispettata dal popolo, Ella univa una adamantina fermezza di carattere ed una vigile coscienza del dovere regale.

Estranea al mondo, pallida pellegrina, Ella era ora venuta in cerca di pace e di silenzio in Italia della quale — tutta chiusa nel suo dolore — non partecipò mai alle feste cinquantenarie, se non quando questa partecipazione Le si presentò come un dovere ed un omaggio filiale alla memoria del Padre suo assunto a simbolo dell’unità italiana. L’ultimo suo pellegrinaggio fu di pietà al capezzale della morente sorella.

Ma a questa suprema sventura più non resse il povero cuore della tragica Sovrana, alla cui memoria oggi commossi e reverenti ci inchiniamo — commosso e riverente si inchina il popolo italiano.

La Contessa CHIARINA LURANI

Non era ancor scesa nella valle degli anni, perchè ne contava appena 49, ed era una santa creatura appartenente a santa e numerosa famiglia, nella quale splendevano i raggi della sua grande bontà. Una crudele malattia l’ha rapita, lasciando un vuoto incommensurabile nella sua casa e suscitando un generale, sincero rimpianto. Era la gioja del suo degno marito, il caro amico nostro conte Agostino Lurani, ed era l’affettuosa sua coadiutrice nelle opere buone, specie al Rifugio omonimo, vero rifugio a inenarrabili miserie. Era pure indefessa nell’opera delle Dame di S. Vincenzo per l’assistenza dei malati a domicilio, e seguiva così gli esempi della sua santa suocera, la veneranda marchesa Elisa Lurani del Carretto, la quale, ora, nel suo strazio, pur rassegnata alla irreparabile perdita, va dicendo: «Oh, perchè il Signore ha lasciato qui me e ha tolto la mia diletta nuora a mio figlio e alla corona dei figli suoi! Ma sia fatta la volontà sua!».

La mamma non dovrebbe mai morire. Da quanti è stata ripetuta questa frase, specialmente quando, come in questo caso, la mamma ha lasciato tanti figliuoli in età ancor fresca!

Ma la santa creatura che s’è involata veglierà sui cari che la piangono e da Lei verranno ancora gli ajuti di un cuore materno, coi lumi, colle ispirazioni che vengono dall’alto.

A. M. Cornelio.