Il buon cuore - Anno X, n. 14 - 1º aprile 1911/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 14 - 1º aprile 1911 Religione

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Il Cinquantesimo anniversario

della proclamazione dell’Italia una con Roma Capitale

I giornali hanno riferito i discorsi di S. M. il Re, dei Presidenti del Senato e della Camera dei deputati, del Sindaco di Roma, letti sullo storico Colle Capitolino nella occasione della Commemorazione del voto del Parlamento che proclamava Roma Capitale del Regno.

È interessante rievocare in questo momento la Grande figura del Re Galantuomo e ricordare le sue parole di quaranta anni fa, perchè ogni lettore, che pur sentendosi italiano non crede dovere rinnegare la grandezza della sua fede, possa raffrontare nella sua mente le parole d’oggi con quelle del Sovrano che voleva e sapeva dare sempre un’impronta personale ai discorsi ufficiali.

Il 9 ottobre 1870 così rispondeva Vittorio Emanuele alla deputazione romana, che gli comunicava il plebiscito della provincia latina:

«Infine l’ardua impresa è compiuta, e la patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche degli uomini, ci ricongiunse oggi a quello d’Italia, il nome più caro al mio cuore. Il plebiscito pronunciato con così meravigliosa concordia dal popolo romano, e accolto con festosa unanimità da tutte le parti del Regno, riconsacra le basi del nostro patto nazionale, e mostra una volta di più, che se noi dobbiamo non poco alla fortuna, dobbiamo assai più all’evidente giustizia della nostra causa. Libero consentimento di volontà, sincero scambio di fedeli promesse, ecco le forze, che hanno fatto l’Italia, e che, secondo le mie previsioni, l’hanno condotta a compimento. Ora i popoli italiani sono veramente padroni dei loro destini. Raccogliendosi dopo le dispersioni di tanti secoli, nella città che fu metropoli del mondo, essi sapranno senza dubbio trarre dalle vestigia delle antiche grandezze gli auspicii di una nuova e propria grandezza, e circondare di riverenza la Sede di quell’impero spirituale, che piantò le sue pacifiche insegne anche là dove non erano giunte le aquile pagane. Io come Re e come Cattolico, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa1 e l’indipendenza del Sommo Pontefice, e con questa dichiarazione solenne io accetto dalle vostre mani, egregi signori, il plebiscito di Roma e lo presento agli Italiani, augurando che essi sappiano mostrarsi pari alle glorie dei nostri antichi e degni delle presenti fortune».

È lo Spirito che animò le parole degli Avi della stessa natura di quello che muove quelle dei nipoti? Al lettore il giudicare.

G. D.


IL PETTIROSSO

Era il tempo in cui il nostro Signore creava il mondo, e non creava soltanto cielo e terra, ma eziandio animali e piante e dava loro nome.

Un giorno, verso sera, gli venne in mente di formare un piccolo uccello grigio.

«Ricordati che il tuo nome è pettirosso», disse il Signore quando l’ebbe creato. Lo posò sulla mano aperta e lo lasciò volare. Dopo che l’uccello ebbe volato un pochino, ed ammirato la bella terra, sulla quale [p. 106 modifica]doveva vivere, gli venne voglia d’osservare sè medesimo. Si vide tutto grigio, grigia la gola come il resto. Il pettirosso si voltò, si rigirò, si guardò nell’acqua, ma non riuscì a scorgere nemmeno una piuma rossa.

Tornò volando al Signore. Buono e mite Egli sedeva sul trono: farfalle uscenti dalle Sue mani Gli svolazzavano intorno al capo, le colombe tubavano sulle Sue spalle, e dal suolo spuntavano intorno a Lui rose, gigli e margheritine.

Il cuore del piccolo uccello batteva forte pel timore: descrivendo brevi curve volò sempre più vicino, sempre più vicino al nostro Signore, e finalmente si lasciò cadere sulla mano di Lui.

Il Signore chiese di che abbisognava: «Vorrei domandarti una cosa soltanto» disse l’uccellino.

«Che vuoi dunque sapere?» replicò il Signore.

«Perchè mi devo chiamare pettirosso mentre sono interamente grigio dal becco alla coda? Perchè sono stato chiamato pettirosso se nemmeno una piuma rossa mi appartiene?»

L’uccello volgeva il capino verso il Signore e lo guardava supplicando co’ suoi occhietti neri. Vide all’intorno fagiani tutti rossi, cosparsi d’un lieve pulviscolo d’oro, pappagalli con un ricco collaretto rosso, galli colla cresta rossa, per tacere delle farfalle, dei pesci dorati e delle rose. Egli pensò ingenuamente che sarebbe occorso tanto poco, che sarebbe bastata una sola goccia di colore sul petto per far di lui un bell’uccello e perchè il suo nome gli fosse acconcio.

«Perchè mi devo chiamare pettirosso e sono tutto grigio» domandò nuovamente l’uccello e aspettò che il Signore rispondesse: «Piccolo amico, m’avvedo d’aver dimenticato di colorire di rosso le piume del tuo petto, attendi un pochino e vi rimedieremo.» Poscia sorrise in silenzio, e aggiunse: «T’ho chiamato pettirosso, e pettirosso ti devi chiamare, ma le piume rosse dovrai meritarle.» Sollevata la mano, il Signore mandò l’uccello a volare pel mondo, e il pettirosso lasciò il paradiso molto pensieroso.

Che poteva fare un piccolo uccello come lui per procacciarsi le piume rosse?

L’unica cosa che gli venne in mente fu ch’egli fabbricava il nido fra i rovi. Sì, egli nidificava fra le spine dei folti roveti: parve si aspettasse che una foglia di rosa, rimanendo appesa alla sua gola, gli donasse il colore.

Un infinito numero d’anni era trascorso dal giorno che fu il più lieto per la terra. Animali ed uomini, lasciato il paradiso, s’erano sparsi pel mondo. Gli uomini avevano molto progredito, avevano imparato a lavorare il suolo, a fabbricarvi sopra, a viaggiare per mare, si erano allestiti ornamenti e vesti, avevano appreso a costruire grandi templi e possenti città come Tebe, Roma e Gerusalemme.

Spuntò un nuovo giorno, indimenticabile nella storia del mondo; al mattino di questo giorno il pettiroso stava sopra una piccola e nuda collina dinanzi alle mura di Gerusalemme, e cantava ai suoi piccini, giacenti nel nido, entro un basso roveto. Parlava loro del meraviglioso giorno della creazione, dei nomi ch’erano stati dati, come solevano fare tutti i pettirossi sin dal primo che aveva udito la parola divina e che:dalla mano divina era uscito.

«Vedete un po’» concluse egli turbato «sono trascorsi tanti anni dal giorno della creazione, hanno fiorito tante rose, sono usciti dal loro uovo tanti uccelletti che niuno potrebbe numerarli, ma il pettirosso è sempre un uccello piccolo e grigio; non è ancora riuscito a meritare le piume rosse al petto.»

I piccini spalancarono il becco, e chiesero se i loro antenati avessero cercato di compire qualche grande opera onde ottenere il prezioso colore.

«Abbiamo fatto tutto quello che potevamo» disse l’uccello «ma non siamo riusciti. — Il primo pettirosso incontrò una volta un altro uccello che gli assomigliava perfettamente, e cominciò ad amarlo d’un amore così vivo ch’egli si sentiva ardere il petto. — Ah! pensò allora, il buon Dio vuole ch’io ami caldamente perchè la fiamma d’amore che mi sale dal cuore possa colorire di rosso le piume del mio petto. — Ma non ottenne l’intento, come non l’ottennero altri dopo lui, nè a voi riuscirà di raggiungerlo.» I piccini pigolavano mestamente, poi cominciarono a dolersi di non poter adornare del colore fiammeggiante la loro piccola gola piumata.

«Speravamo anche dal canto» disse il vecchio uccello. «primo pettirosso cantava sì che il suo petto si gonfiava dall’entusiasmo, ed egli osò sperare di nuovo. — Ah! pensava, l’ardore del canto che mi sale dall’anima farà divenir rosse le mie penne. — Ma egli s’illuse, come si sono illusi tutti dopo lui, come v’illuderete anche voi.

Un mesto pigolio uscì nuovamente dalle gole seminude dei piccini.

«Speravamo pure nel nostro coraggio e nel nostro valore.» disse l’uccello «Il primo pettirosso combattè eroicamente con altri uccelli e il suo seno s’infiammava nel fervor della pugna. — Ah! egli pensò, l’ardor della guerra che mi riscalda il cuore farà diventar rosse le piume del mio petto. — Ma s’ingannò come noi tutti dopo lui ci siamo ingannati, e come voi pure v’ingannerete.»

I piccoli pispigliarono arditamente che avrebbero voluto tentare di guadagnare il premio ambito, ma il vecchio uccello rispose dolente che non vi sarebbero riusciti. Come potevano sperare se tanti valorosi antenati non lo avevano raggiunto? Che potevano fare oltre che amare, cantare e lottare? Che potevano....

L’uccello s’interruppe perchè da una porta di Gerusalemme veniva una folla d’uomini, che si dirigeva frettolosa alla collina dove egli aveva il suo nido.

Erano cavalieri sopra superbi cavalli, guerrieri con lunghe lancie, manigoldi con martelli e chiodi, sacerdoti e giudici dall’incesso dignitoso, donne piangenti, e innanzi a tutti una schiera di popolo selvaggio che correva dintorno; una feroce, urlante scorta di vagabondi.

L’uccello grigio stava, tremante, sull’orlo del suo nido. Temeva che da un istante all’altro il piccolo roveto [p. 107 modifica]venisse calpestato, e i suoi nati fossero uccisi. «State in guardia» gridò ai figli inermi «rannicchiatevi e, silenzio! Ecco un cavallo che passa sopra di noi! Viene un guerriero coi sandali ferrati! Tutta la schiera selvaggia si precipita innanzi!»

Ad un tratto l’uccello cessò di dare i suoi avvertimenti e ammutolì, quasi dimentico del pericolo che lo minacciava. Indi, improvvisamente saltò entro il nido stese le ali sopra i piccini.

«È troppo spaventevole» disse «non veglio che vediate un simile spettacolo; vi son tre malfattori che vengon messi sulla croce.» Aggosciato, spiegò le ali perchè i figli non potessero veder nulla. Essi intesero soltanto colpi rimbombanti di martello, grida lamentevoli e urli selvaggi di popolo.

Il pettirosso seguì l’intero spettacolo con occhi dilatati dal terrore. Non poteva staccare lo sguardo dai tre infelici.

«Come sono crudeli gli uomini!» disse poco dopo. «No, non basta loro d’inchiodare sulla croce queste povere creature, sopra la testa di una di esse hanno messo una corona di acute spine.»

«Le spine hanno ferito quella fronte e il sangue scorre» seguitò l’uccello. «Quell’Uomo è tanto bello e guarda intorno a sè con occhi così miti che tutti dovrebbero amarlo. Nel vederlo soffrire sento attraversarmi il cuore dalla punta d’una freccia.»

Il piccolo uccello provò una compassione sempre più intensa per l’incoronato di spine. «Se fossi l’aquila mia sorella» pensò «vorrei strappare i chiodi da quelle mani, e mettere in fuga, coi miei artigli, tutti coloro che lo fanno soffrire.»

Il sangue gocciolava dalla fronte dell’Uomo crocifisso e l’uccello non potè rimaner più nel suo nido.

«Sebbene piccolo e debole debbo fare qualcosa per questo povero martoriato» pensò. Uscì dal nido, si alzò a volo per l’aria descrivendo ampie curve intorno al Crocifisso. Seguitò a volare così diverse volte senz’osare di avvicinarglisi troppo, perchè egli era un piccolo e timido uccello e non si arrischiava ad accostarsi agli uomini. A poco a poco prese coraggio, volò vicino, e tolse col becco una spina infissa sulla fronte dell’Uomo messo in croce.

Mentre l’uccello faceva questo, una goccia di sangue gli cadde sulla gola, e si stese rapidamente colorando tutte le piccole e morbide piume del petto.

Tornato ch’ei fu al nido, i piccoli gli gridarono:

«Il tuo petto è rosso, le piume del tuo petto sono rosse come le rose!»

«È una goccia di sangue della fronte di quel pover’Uomo» disse l’uccello «ma sparisce se mi bagno nel ruscello o alla sorgente.»

Per quanto si bagnasse il color rosso non gli sparì dalla gola, e quando i suoi figli furono cresciuti brillò la tinta purpurea sul loro petto, come brilla anch’oggi sulla gola e sul petto d’ogni pettirosso.

Samarita.




Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.




FIUMANA D’ORO IN TERRA ARGENTINA


Come si spende e si spande oltre Oceano


(Continuazione e fine, vedi n. 13).


Di lotterie in Argentina, con relative estrazioni ve ne sono per lo meno un centinaio all’anno: i biglietti delle lotterie, raggruppati in serie o venduti singolarmente, sono un’altra delle forme sulle quali il vostro denaro si volatizza colla più sorprendente facilità.

Il barbiere presso del quale vi fate regolarmente lucidare il mento, vi userà la cortesia di offrirvi un buonissimo biglietto, che vi ha riserbato per speciale riguardo; il lustrascarpe — quasi sempre è un napoletano — ha anche lui il suo biglietto da vendervi, e il cameriere del restaurant dove capitate più sovente a rovinarvi lo stomaco, avrà esso pure la squisita attenzione di mettervi sul piatto, insieme al conto, una cartella della prossima lotteria. E se andate a prendere un bagno, foss’anco turco per cacciarvi dalle ossa l’umidità che Buenos Ayres vi avrà infiltrato, il masseur tra una strofinatina e l’altra, pur constatando che in quel momento non avete tasche, vi offrirà anche lui il suo bravo biglietto.

È un’ossessione, una persecuzione cortese, insistente alla quale ci vuole un coraggio da eroi per potervi resistere. E chiamatevi fortunati se ve la cavate con cinque pesos!

Però — ad onor del vero — il denaro a Buenos Ayres lo si può spendere anche per qualche cosa di meglio e più poetico che non sono la réclame, le corse dei cavalli, i biglietti delle lotterie.

Ci sono i teatri!

Ah! i teatri di Buenos Aeres, che splendida istituzione!

Domandatelo a tutti i nostri tenori, baritoni, bassi e soprani laceratori più o meno caritatevoli di ben costrutti orecchi, che dopo di aver fatta la fame in Italia, in continua guerra coll’ impresario e col portinaio per strappar all’uno quel benedetto quartale che deve poi andare a finire nelle mani dell’altro, domandate a questa benemerita categoria di viventi che cosa ne pensano essi dell’Argentina.

Domandatelo a Zacconi, a Grasso, a Savini, a Novelli, a.... Vittorina Lepanto, e poi, a tutta la costellazione delle nostre ugole più illustri e squillanti, e sentirete che cosa ne pensano dei teatri di Buenos Ayres.

L’Eldorado è nulla in confronto.

Ma il guaio si è che le tasche di questi nostri illustri concittadini si riempiono in ragione diretta colla vuotatura delle tasche nostre.

Il Colon — il teatro principale di Buenos Ayres — che viene subito dopo il Manhattan di New York — rappresenta per ogni famiglia che si rispetti e che voglia avere il suo palco durante una delle parecchie stagioni annuali, una spesa che si aggira intorno a 10,000 pesos per stagione.

Siccome poi il bon ton esige che chi ha il palco al Colon, lo abbia pure all’Opera — il teatro che per [p. 108 modifica]lusso e importanza di spettacoli vien subito dopo il Colon — volendo la moda che in una stessa serata la signora elegante si rechi ai due spettacoli, così è presto fatto il conto di quanto per l’arte sacrifichi un argentino autentico o che lo vuol parere.

Pei semplici mortali che vogliono concedersi essi pure il piacere di andare a teatro senza avere un palco o una poltrona, la spesa è sempre relativamente forte; e bisogna dire però che è una spesa alla quale anche le fortune modeste si sottopongono volentieri, perchè tutti i teatri di Buenos Ayres — e sono circa venti senza calcolare gli innumerevoli teatri di varietà, cinematografi, sale di pattinaggio e varietà, ecc. — fanno eccellenti affari.

C’è poi un’altra occasione a spendere venuta di moda da poco tempo, che però ha assunto presto proporzioni allarmanti. Proprio in quei giorni in cui l’Italia riposava sotto la soffice pelliccia della bianca neve, in Argentina si era in piena stagione balneare, che, come dappertutto, mentre dovrebbe costituire un refrigerio sotto la canicola, viceversa non è che un eccellente pretesto a far sfoggio di toilettes, per passarsi il lusso di stare un mese o due all’albergo, spendendo qualche altra diecina di migliaia di pesos. In fatto di stazioni balneari, a dire il vero, la società dorata di Buenos Ayres ha poco da scegliere, non avendo che Mar del Plata e Montevideo.

Mar del Plata è per l’Olimpo finanziario. Come spiaggia lascia molto a desiderare; come bellezze naturali non c’è che qualche ombù magro magro, qualche eucalipto. Ma questo non importa. Oggi è di moda andare ai bagni a Mar del Plata e côute qui côute, bisogna andarci o dire di andarci, il che per la pubblica opinione è lo stesso, essendo più igienico per la borsa, se non pei polmoni.

La gente meno fornita o meno spendacciona, va a Montevideo, dove ci sono due splendidi stabilimenti, i Poçitos e la Plaga Ramires, con spiaggia magnifica e una natura assai più bella. Il solo guaio è — per un argentino chauvin — che questo ben di Dio non è argentino, ma sibbene uruguayano, o, come dice ogni buon argentino, della banda orientale, intendendo così che l’Uruguay non è che la parte orientale della Repubblica Argentina.

Li ho passati in rassegna tutti gli incentivi a spendere che mettono un argentino autentico fuori da ogni tentazione di.... risparmio? No. Dovrei parlarvi ancora delle gite sul Rio a Lujan, della passeggiata a Palermo, dei pick-nick al campo: dovrei parlarvi dei raffinamenti della moda e dell’eleganza che credo superiori a quelli che rendono celebre Parigi, di cui del resto Buenos Ayres non è che una fedele imitatrice; dovrei parlarvi di tante altre cose, ma allora invece di una corrispondenza dovrei scrivere un capitolo di un libro. Faccio dunque punto.

Però a questo.... punto mi accorgo che il lettore potrebbe ragionevolmente chiedermi, se a una persona di modesta fortuna, è possibile vivere a Buenos Ayres dal momento che si spende tanto.

Tranquillizzatevi mie buone massaie che domani forse valicherete l’Oceano per seguire vostro marito in cerca di miglior fortuna. A Buenos Ayres ci potrete venire molto bene, perchè se molte sono le occasioni a spendere, in tutto ciò che è lusso, divertimenti, viceversa i generi di prima necessità sono molto più a buon mercato che da noi.

La carne — e carne eccellente — costa 40 o 50 centavos il chilogramma; caffè, e zucchero costano assai meno che da noi, anche perchè in Argentina, quella nostra bella istituzione che si d’ce il dazio consumo non si sa che cosa sia; le lepri ve le danno in regalo, le pernici le avete per pochi centavos, il pesce è abbondante, buono e a buon mercato. È molto cara la verdura, ma le patate — le papas, una qualità speciale, eccellente — si hanno per poco. Il vino, se è vino di Mendoza, costa su per giù quello che costa da noi, non essendo però così buono; se vorrete passarvi il lusso di un fiasco di Chianti — sia Antinori o Mirafiori — lo dovrete pagare molto, però lo berrete migliore di quello che trovate nelle nostre città.

Carissimi sono gli affitti; ma viceversa con ciò che paghereste per l’affitto, potete in pochi anni diventare proprietari della vostra casa, se non nel centro della città, alla periferia, o nei dintorni, dove troverete modo di cercarvi il vostro home civettuolo in mezzo alla campagna, con un pezzo di orto, di giardino, dove i vostri figli potranno godersi il sole, e, quando c’è, il vento della pampa e bere le uova fresche dei vostri polli.

Giuseppe Serralunga-Langhi.


  1. Al singolare, perchè quella degli avi suoi, del patto nazionale, di Lui e della grandissima maggioranza della Nazione.