Il buon cuore - Anno IX, n. 36 - 3 settembre 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 36 - 3 settembre 1910 Religione

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UN CURIOSO TESTAMENTO


Lo scorso aprile, l’avvocato Leclerc, con studio in Regent Street, notissimo nel mondo teatrale londinese per le sue prestazioni illuminate e spesso trionfalmente riuscite, riceveva da una vecchia signora un plico voluminoso, con ingiunzione di aprirlo solo dopo la morte della depositante e di dare corso a quanto vi era espresso, contro un assegno rappresentato da titoli industriali, essi pure contenuti nel plico misterioso. E come la vecchia dama era da molti anni cliente fedele dell’avv. Leclerc, così questi non esitò un istante ad accettare.

Ora madama non tenne troppo in sospeso l’esecuzione dell’istruzioni date al Leclerc; poichè già esaurita per tabe senile, al primo attacco di pleurite che la colse in un supremo addio che volle dare al teatro, si mise a letto, peggiorò, soccombette in brevissimo volgere di tempo.

E il suo avvocato diede corso alle istruzioni avute; dissuggellò il plico, apri i diversi sottoplichi e piccoli involti, trovò subito una lettera che dava in succinto le varie spiegazioni occorrenti, e senz’altro si trovò davanti al più regolare e facile compito che mai gli fosse capitato in vita sua.

Madama lasciava esecutore testamentario l’avvocato Leclerc; disponeva che tutto l’ammontare della sua proprietà in stabili, titoli e denaro spiccio che si sarebbe trovato in casa sua, come a dire un modesto totale di un milioncino, dovesse andare per fondazione di istituzione benefica che nominava espressamente e di cui dava le condizioni. Che a tale progetto era stata condotta dai casi della sua vita di cui dava ampio ragguaglio in un grosso quaderno minutamente vergato dalla più chiara ed elegante calligrafia.

L’avvocato, che conosceva la sua cliente per una delle più fortunate stelle del teatro, per quanto anche seria e bona e religiosa — cosa infrequente in cotale ambiente nomade e superiore a certe leggi — non è a dirsi se si sentì pungere da morbosa curiosità di leggere quel documento. Era una storia che mai più si aspettava neppure da persone in cui le sorprese, i colpi di scena, le fantastiche vicende sono la regola e non l’eccezione.

Madama Molly Ward, vissuta nove decimi della sua lunga vita, come una solitaria, senza patria, senza famiglia, senza amici, e legata solo alla troupe artistica alla quale la costringevano i contratti di scrittura, veniva da una famiglia di operai del Gallese. Il padre, schiavo dell’alcool in sommo grado, dal pomeriggio del sabato alla domenica mattina, consumava poco meno, in bevande inebrianti, che tutto il guadagno d’una settimana. La madre, per tirare innanzi alla men peggio la famigliuola, composta di lei, del marito, di Molly e di due altri marmocchi, l’ultimo ancora in fasce, non solo si vide costretta ad affidare il bimbo lattante ad una bona comare del vicinato, e l’altro figlioletto in cura a Molly, ma a lasciare la casa tutta la lunga giornata per recarsi al lavoro in un’officina del villaggio.

Quando Moliy raggiunse un’età discreta, fu messa anche lei al lavoro in un opificio dove le fatiche erano troppo prolungate e intense, l’ambiente lurido e malsano, l’aria irrespirabile, dove tutto suonava durezza, brutalità, diritto di padroni, dovere di dipendenti, senza una dimostrazione di umanità, di gentilezza amorosa. Quasi ciò non bastasse, Molly ebbe la sventura di trovarsi con fanciulle tutte maggiori di lei che molto conoscevano della vita, e talune anche non ignoravano di esperienza propria nessuna bassezza, nessuna vergogna. Nei loro discorsi era prevalente la nota lubrica, resa anche più urtante dalla crudezza sguaiata della forma, non curante di pudore, sprezzante di riguardi.

Si può pensare la funesta azione che dovette esercitare tutto questo complesso di circostanze sul fisico di Molly, quando sul formarsi abbisognava piuttosto di [p. 282 modifica] ambiente aperto, ventilato, scaldato dai raggi diretti del sole, purificato dell’aria ossigenata; e sul suo cuore così impressionabile, sulla soglia dell’adolescenza, e tanto facile a contrarre abitudini, gusti, criterii morali che spesso non si modificano mai più.

Insinuata la consuetudine di vita volgare e triviale, soffocati i richiami del pudore e del riserbo tanto amabili nella donna, trovato gustoso l’acre sapore del male, perduta quella gentile femminilità che rende così cara una fanciulla e assunta una libertà di modi troppo arditi, sguaiati anzi, ogni protezione contro il male è tolta, ed è facile il passo alla corruzione se appena si fa innanzi seducente, audace e senza scrupoli un tentatore; che, a vero dire non manca mai dove si accoglie cotal sorta di fanciulle, per il riflesso molto naturale che è facile far acquisti là dove non si aspetta altro che un compratore a qualunque prezzo e condizione.

Molly, non certo nè più forte nè migliore di tante altre, si lasciò influenzare sinistramente dalle compagne, riuscendo come una di loro, corrotta e corruttrice, travolta dalla corrente e divenuta zimbello dei propri istinti strumento d’ogni licenza in mano di svergognati sfruttatori di donne cadute nella più umiliante degradazione.

Era troppo. Il bon fondo naturale che, nel naufragio miserando della primitiva caduta non potè venir sommerso tra gorghi spaventosi per nessuno dei figli di Adamo, erasi salvato anche nel cuore di Molly. Pertanto, la violenza esercitata su lei la urtò, le cagionò nausea, orrore, agonie, sensi di ribellione più o meno decisi, finchè venne il giorno della liberazione.

Verso il 1852 — dopo le strepitose conversioni al cattolicesimo iniziatesi sette anni prima e segnanti i nomi gloriosi del Cardinal Newman, del P. Faber — è saputo che nella località londinese detta Brompton si eresse l’attuale Oratorio dei Filippini, la cui Chiesa in stile e gusto e splendore italiano e con funzioni religiose praticate con pompa ed entusiasmi pure italiani, attrassero un mondo di gente anche protestante, non fosse altro, per curiosità.

A quella predicazione infaticabile, fiammeggiante di zelo, spesso tenuta dal P. Faber e dal P. Newman, l’uditorio era conquiso; e non infrequente il caso di conversioni non foss’altro, a vita più morale se non adirittura al cattolicismo, in grazia dell’insistenza del predicatore sulla necessità d’una purificazione del cuore, d’una sublimazione dei costumi dall’estrema degradazione alla purezza degli Angeli.

Molly, nelle ore che le sue condizioni di operaia e donna perduta le concedevano, si recava spesso alla splendida Chiesa dell’Oratorio, attratta di preferenza dalle malìe del culto esterno cattolico, ma sopratutto dal canto sacro che in quella chiesa si eseguiva con impeccabile precisione e bon gusto e ardore. La predicazione finì per trasformarla in un essere affatto diverso; cominciò a inspirarle fiducia in una riabilitazione, a svegliarle in cuore il senso di decenza e di purità, le soddisfazioni le gioie d’una facile redenzione, la nausea lo schifo dello stato presente — vedevasi un mucchio di luridume fisico e morale — da ultimo il coraggio di

agire. Però, tutta la sua conversione si arrestò qui, nè volle, nè potè assorgere a conversione religiosa fino a entrare nella Chiesa cattolica. Ad ogni modo era già molto anche questo e c’era bene da rallegrarsene.

Dal canto suo Molly non pensava tampoco a quel passo supremo. Pensò invece ad un altro, di carattere affatto terreno. Ella aveva sempre avuto una voce del più puro e delicato timbro; e le compagne colle quali piacevasi di cantare, spesso ebbero a lodarla, a felicitarsi con lei, che possedeva un così prezioso dono di natura; formulando supposizioni non sempre fantastiche sui possibili vantaggi che cotal dono avrebbe potuto arrecare, se non fosse stato della vita dura di opprimente lavoro e di insufficiente alimentazione che impedivano il naturale sviluppo; se avesse potuto collo studio e coll’arte educare la voce.

Ora accadde che proprio nella magnifica Chiesa dell’Oratorio di Brompton, la voce di Molly, che volontieri univasi al canto del bon popolo, fosse udita, notata da un signore, agente teatrale, in cerca di personale da scritturare. Nei cori religiosi, per quanto ben nudriti, poderosi, la voce di Molly si distingueva facilmente per la potenza degli acuti di voce di soprano che slanciavansi in alto, su su fino alla volta, fino alle stelle, come getti argentei, luminosi, proiettati da qualche misteriosa fontana. E anche se abbassavasi di tono, e si faceva più naturale, più facile e quindi più docile alle svariate inflessioni dell’arte o del capriccio o della passione, anche allora, e più si distingueva per la morbidezza carezzevole, per la dolcezza seducente, molle, voluttuosa così da gettare scintille incendiarie nel sangue di più d’uno dei divoti e dei curiosi che ascoltavano.

L’incettatore di personale di palco scenico aveva trovato il fatto suo; e dopo un seguito di pratiche riuscì a persuadere la piccola convertita a studiare e darsi all’arte teatrale; quanto alle spese, il suo Direttore avrebbe pensato a sostenerla colla cassetta della Società.

Così non ancora digrossata e tanto grezza, Molly passò successivamente dall’uno all’altro professore di canto, di recitazione, di mimica, e da ultimo al Conservatorio musicale molto apprendendo e perfezionando la preziosa sua voce finchè fu il momento di debuttare.

Cosa curiosa! nessuno aveva dato fiato alle trombe per annunciare la nuova stella; l’opinione pubblica non fu in nessun modo preparata, accaparrata. E subito la prima sera — pur sostenendo una parte molto secondaria in un’operetta che restò memoranda nella memoria nel cuore della nuova artista — fu una rivelazione, un trionfo.

Da allora, non si contarono più nè le volte in cui si produsse, nè le corone di gloria conquistate. Da una città ad un’altra, da una ad un’altra regione, fu una corsa sfrenata in una luminosità di trionfi incessanti. E coi trionfi, coi doni regali, e la commozione della stampa, gli omaggi dei soliti che a teatro debbono esaurire la dignità d’uomo in adorazione ultraridicole e perdere la testa e la borsa innanzi ad una ballerina o ad una cantante, ebbe anche il danaro che saliva, saliva ogni dì più a favolose altezze.

Eppure, cosa insolita! Molly, non si lasciava [p. 283 modifica] ubbriacare da quell’effimera glorificazione. Anzi, il cuore fremeva di indignazione, di disprezzo per quelle turbe di miserabili adoratori; nè sapeva sempre dissimulare a perfezione, ed era un tantino dura, poco compiacente, scortese perfino. Quanto poi al cedere alla tentazione di intrecciare più o meno platonici idillii, oh! questo mai, neppure per prendersi giuoco crudele di quegli svigoriti insulsi cavalieri che più spasimavano per avere i suoi favori. Tanto che i compagni di troupe ne erano disperati, e gli estranei non capivano più nulla.

Di questa riserbatezza tutti parlavano, ammirando o criticando a seconda degli umori, l’artista che rompeva così bruscamente le tradizioni del palco scenico: la chiamavano la casta diva, la bella crudele, l’inespugnabile. Molly lasciava dire, contenta di saper continuare nei fieri propositi di donna sinceramente riabilitata e di far onore alla sua conversione. Vivea ritiratissima in un elegante palazzina acquistata col frutto dei suoi sudori e talenti, tutta dedita all’arte ed a rifare intellettualmente e socialmente la sua vita. Leggeva molto della più sana ed elevata e classica letteratura inglese; col suo fine spirito esercitato a meditare, colpiva facilmente una situazione, una condizione di cose, vedeva dove mirava tutto l’arrabattarsi delle passioni umane, deduceva senza sforzo le più pratiche e sennate conclusioni da tutto un mondo che le si agitava innanzi.

Lei stessa fattasi omai di una maturità di senno, invidiabile anche nelle persone collocate su più elevata scala sociale, trattava, dirigeva i suoi affari economici; faceva compere di stabili, metteva al massimo più sicuro interesse il suo danaro, che per quanto le fioccasse in casa come un’inondazione, non lo sprecò mai, non l’assotigliò che per i più urgenti bisogni della vita conforme al decoro che dovea pure imporsi. Non sottraeva tampoco un centesimo neppure per l’elemosina; ed è tutto dire Sarebbe sembrato che lei, venuta dal popolo e avendo conosciuto tutto il rigore brutale delle miserie, avesse dovuto pensare a chi soffre, al bisognoso del pane quotidiano e d’un cencio per difendersi dal freddo.

Ma semplicemente differiva, non già che negasse al povero un soccorso che per tanti titoli ella gli dovea. Aveva formato da anni uno strano progetto in materia di beneficenza; e stabilito ben bene fino nei suoi più minuti particolari in che cosa veramente dovea consistere, ora non facea altro che aumentare la massa che dovea servire a tale atto filantropico. L’avaro che adora il danaro per il danaro, non avrebbe messo maggior febbre d’accumulare e di conservare, di quello che andava facendo Molly. I principali banchieri londinesi, gli industriali più in vista per colossali aziende non potevano difendersi da un impercettibile sorrisetto malizioso quando se la vedevano innanzi; la chiamavano col poco lusinghiero epiteto di madama finanziera, un Rothschild in gonnella. Ma lei lasciava dire, pure di concludere affari nel miglior modo possibile. Come anche lasciava dire i compagni in arte, i quali non finivano di punzecchiarla garbatamente, di farne argomento di derisione. Padronissimi tutti di criticare le sue economie e il suo sistema di risparmio; tanto, lei alla sua volta non

poteva approvare il sistema di prodigalità, di sperpero, di libidine dello spendere finanche in cose futili per il piacere di spendere e apparir grandi, al ritornello materialista ed egoista: «oggi coroniamoci di rose prima che marciscano; cogliamo fiori da ogni prato prima che il sole li faccia appassire; nessun capriccio resti insoddisfatto, nulla neghiamo alle nostre voglie; domani morremo».

Molly intendeva a modo suo la vita; ma intanto non vide mai la squallida miseria che si accompagna agli ultimi anni desolati di molti artisti; visse fino all’estrema vecchiaia felice ed onorata e lasciò dietro a sè un motivo di benedizione sincera, duratura nei molti beneficati dalla sua opera filantropica.

Quando l’avvocato Leclerc lesse anche il testamento, non aveva più fiato dalla sorpresa. La sua cliente lasciava un milione preciso in beneficenza con un testamento olografo di questo tenore: Io Molly Amy Davidson, lego tutto il mio avere consistente in poderi, case e titoli industriali dell’ammontare di un milione, ad un’opera umanitaria forse strana, ma non per questo meno necessaria e importante. E cioè: visto dalla mia personale esperienza e dal fatto molto evidente che tutti possono verificare, come la fanciulla del popolo, in troppi casi riesca al naufragio completo non meno della sua sanità fisica quanto della sua innocenza, della sua virtù, del suo pudore, andando a finire nella più deplorevole corruzione e miseria, perchè la crudele necessità della vita la spinge a cercar lavoro dovunque il lavoro si può trovare quando e tutt’ora in troppo tenera età; perchè vien sottratta alla vigilanza d’una madre costretta essa pure a cercar lavoro in officine lontane dalla casa, che deve lasciare alla custodia di Vicine insieme alle sue tenere creature; a impedire che la famiglia si disperda, a impedire che la fanciulla troppo giovane venga a contatto colla vita dura, inumana e corrotta degli opificii, dove certo riceverà funeste impressioni che la rovineranno inesorabilmente: lego al mio paese nativo, Bath, tutta la mia sostanza, allo scopo di provvedere coi frutti del medesimo, il lavoro a domicilio alle madri povere e cariche di figli, e alle figlie dì tali madri, fino al quindicesimo anno di età; e il lavoro consisterà solo in cucito, ricamo, rammendo, tessuto, mode, maglierie, sartoria. Ho dovuto farmi la convinzione che, nella crociata del bene sociale è più saggio prevenire il male perchè non si impadronisca del cuore umano, che reprimerlo perchè lo si lasci ad abitudine fatta. Il mio avvocato Leclerc è pregato di dar corso a questa mia generica ultima volontà, inspirandosi per l’applicazione in tutti i suoi particolari da me lungamente studiati, alle diverse istruzioni che io consegnai a diversi fogli che figurano nel plico in cui si trova pure questo mio testamento».

Tale il fatto. Ebbene, immantinentemente ebbe colle critiche dei soliti che trovano ben fatto solo ciò che loro fanno o inspirano, anche le lodi più incondizionate. Il primo magistrato del paese commemorò solennemente la santa benefattrice nella prima riunione degli amministratori del comune. Poi un vecchio signore misantropo che vivea tappato in un antico castello dei dintorni — [p. 284 modifica] con una donazione inter vivos — aggiungeva alla massa rilevante del milione di Molly un’ingente offerta del suo allo stesso scopo della grande benefattrice; poi un’altra persona che volle serbare l’incognito, alla sua volta vi fece altra aggiunta.

Ora il paesello di Bath non risuona che dalla parola della riconoscenza ai suoi benefattori illuminati; è laborioso, tranquillo, agiato, sopratutto morale. La famiglia restituita alla sua condizione di società non disciolta o dispersa da nessuna necessità brutale, ma unita e raccolta, e vigilata dall’amoroso sguardo di chi ne è stata costituita da Dio l’angelo custode, la donna, rifiorisce di onestà e di vigore fisico, è contenta d’una felicità quale solo può ottenersi alle condizioni d’un ritorno coraggioso, senza egoismi abbietti, senza indegne cupidigie, allo stato in cui fu messa originariamente da Dio, traducendo in stupenda realtà ciò che sarebbe sembrato nulla più che ridente sogno dorato di un dilettante di filantropia, di sublime umanesimo.

Augusta Maxwel-Hutton

Proibire i matrimonii fra sordo-muti?


I giornali hanno dato notizia della strana cerimonia computa il 22 agosto ultimo scorso al municipio di Alessandria, cioè del matrimonio di certo Vincenzo Fasolis d’anni 28 con Adele Moi d’anni 20, ambedue sordo-muti; analfabeta lo sposo, ma cognita del leggere la sposa. Ad ogni modo il padre della sposa fece da interprete benissimo compreso. I due sposi erano lieti e sorridenti.

Ora, di simili fatti si occupano, oltre i cronisti, anche gli studiosi di medicina e di sociologia; che dichiarandosi assolutamente contrarii al matrimonio tra sordo-muti, arrivano persino a invocare un intervento dello Stato per regolare questo contratto. «Se lo Stato può proibire il matrimonio fra parenti per i danni che ponno derivare alla società, così pure potrà proibire il matrimonio fra sordomuti, qualora si provi che tali unioni siano di danno sociale».

Dunque un nuovo impedimento dirimente il matrimonio (civile, s’intende).

Intanto a legittimare l’accarezzata proibizione occorrerebbe un dato assoluto di fatto: che cioè i figli di genitori sordo-muti nascessero anormali; e questo dato manca; perchè, di solito, i figli di sordo-muti sono udenti e parlanti. Ma si danno dei casi in cui la sventura si ripeta nei nipoti e non per regola, ma solo per eccezione. Ebbene, davanti a questa minima e rara percentuale d’una sventura più grave in apparenza che in realtà; che non danneggia dei terzi; che coi metodi d’istruzione e coll’istruzione diffusa oggidì sempre più in largo per opera di filantropi generosi e infinitamente ridotta anche nei rapporti sociali, sfidiamo le persone che hanno senno e cuore, se si sentono di negare ai sordomuti un così sacro e dolce diritto di amarsi, di stringersi in società coniugale, di sostenersi a vicenda e farsi innanzi fiduciosi e lieti a impegnarsi nella lotta per la vita.

Ad ogni modo ci sorprende tanta tenerezza per la normalità morale e fisica dei nascituri fino a calpestare i più sacri diritti dei sordo-muti — mentre d’altra parte ci sarebbe da occuparsi di ben altri genitori e di ben altri probabili danni sociali derivanti alla e dalla loro prole; accenniamo ai genitori tubercolosi, ai genitori affetti da malattia vergognosa, che si uniscono legalmente; e poi ai tubercolosi e agli affetti da malattia vergognosa che si uniscono diciamo così... di frodo, ed extra legem.

Invece di sciupare il tempo nel prendersela con innocui ed innocenti sordo-muti, che puniti ingiustamente per tanta tempo con una segregazione crudele dalla società, ora finalmente, coll’istruzione si mettono in grado di partecipare alla nostra vita e alle nostre soddisfazioni, e col matrimonio arrivano finalmente a cogliere il fiore della felicità che Dio creò, destinò anche per loro — checchè vadano cianciando con dotte frasi i medici e i sociologi dalle vedute di giustizia e previdenza sociale limitate — perchè non predicare, ma sul serio, ma venendo ai ferri corti, un’altra crociata, per la contenzione del libero amore a base di libertinaggio, per la riduzione dei matrimoni a base di malattia vergognosa, per la sparizione o quasi dei matrimonii a base di tubercolosi? Teorici che molestate e minacciate degli innocenti sordo-muti — se avete delle energie da consumare, dello zelo, delle risorse da mettere a contributo di bene, altri campi si aprono alla vostra filantropia; entratevi animosi, generosi, che vi sarà facile mietere e comporre ricchi manipoli di bene sociale, di cui tutti senza eccezione vi loderanno, vi renderanno azioni di grazie.

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Concorso a premio per canzonette popolari


Il Comitato Centrale Italiano per la pubblica moralità ha deliberato di aprire un concorso a premio per canzonette popolari, nell’intendimento di iniziare un lavoro di purificazione del canto popolare, che ognuno sa quanto sia oggi inquinato di immoralità.

La canzonetta vincitrice, e con essa quelle altre che eventualmente ne appariscano meritevoli, saranno fatte musicare e diffuse in ogni modo possibile. Ecco il regolamento e le norme per il concorso.

1.º E’ aperto un concorso a premio per il testo di una canzonetta popolare destinata, dopo che sarà messa in musica, a essere diffusa nel popolo italiano, per sostituirvi quelle sconce che, troppo spesso, si cantano oggigiorno.
2.º Ogni canzonetta presentata al concorso deve soddisfare alle seguenti condizioni:
a) Sia morale, cioè priva di qualunque parola o idea meno che corretta dal punto di vista del costume, ma non sia una esplicita lezione di morale.
b) Sia rispettosa degli ideali di religione, di [p. 285 modifica]patria, di famiglia, ma non sia una canzone chiesastica od esclusivamente religiosa.
c) Sia sopratutto calda di sentimento buono e vibrante: e contenga pure, se si crede, la nota amorosa, ma abbia allora forma non lasciva od abbandonata, e canti in modo elevato l’amore sano ed onesto.
3.º Il concorso scade il giorno 31 ottobre 1910. Dopo quest’epoca il Comitato Centrale nominerà la Commissione incaricata di esaminare i lavori presentati e di assegnare il premio.
4.º Alla canzonetta prescelta sarà assegnato un premio di lire cento.
5.º Esaurito il concorso verrà aperta la busta corrispondente alla canzone premiata e reso noto il nome dell’autore al quale verrà inviato il premio.

Le buste corrispondenti alle canzoni non premiate verranno distrutte, salvo contrario desiderio dei concorrenti, esplicitamente dichiarato.

6.º Le canzoni premiate resteranno proprietà del Comitato Centrale.

Quelle non premiate saranno rinviate agli autori o resteranno al Comitato Centrale, a seconda della preliminare dichiarazione degli autori stessi.


Norme del concorso.

I lavori saranno inviati, raccomandati, entro il tempo indicato, all’indirizzo del Comitato Centrale Italiano, per la pubblica moralità, Via Accademia Albertina, 3, Torino.

Non porteranno il nome dell’autore, ma un motto; questo sarà ripetuto sopra una busta chiusa, entro la quale sarà scritto il nome ed il cognome dell’autore ed il suo indirizzo od un suo recapito.

Il concorrente il quale desidera che dopo il concorso gli sia rinviato il manoscritto, lo dichiari in una lettera, unita al lavoro che presenta al concorso e firmata col suo motto, nella quale indichi il nome (che può essere anche di altre persone) e l’indirizzo a cui desidera sia rinviato il suo manoscritto, o autorizzi ad aprire la busta col suo nome dopo terminato il concorso. Inoltre unisca alla lettera, in cartolina vaglia, l’importo della rispedizione del manoscritto raccomandato.

Le canzonette presentate colla dichiarazione, ma senza questo importo e non premiate, non si restituiranno e saranno distrutte: quelle presentate senza la dichiarazione e non premiate resteranno proprietà del Comitato, che potrà distruggerle o conservarle od anche pubblicarle senza nome di autore.

PENSIERI


Le cose più buone e più belle nelle quali sembra, ed è più difficile l’eccesso, possono diventare meno belle o pericolose o cattive, se giungono all’eccesso o alla esagerazione.


Ah! quanto conoscono male la natura umana coloro che pretendono che l’uomo non abbia bisogno che di sè stesso per dirigere la propria coscienza.


Se è vero che i luoghi mutano le disposizioni del nostro animo, è pur vero che lo stato dell’animo muta anch’esso di molto l’aspetto dei luoghi.