Le disgrazie di Cicerone

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XIX

LE DISGRAZIE DI CICERONE


— T
u sai bene, fratello, — disse Clodia, — che la vendetta ha più sapore quando è fredda.

E fu cosi che Clodio propose al popolo una legge che porta il titolo de capite civis romani, e rappresenta la più importante manifestazione di lui quale uomo politico. Per questa legge si decretava l’esiglio per quel magistrato che avesse fatto uccidere senza regolare processo un cittadino romano. La responsabilità legale degli ultimi catilinarii strozzati in carcere spettava proprio all’ex-console Cicerone. Di lui rimaneva celebre la risposta a quelli che gli chiedevano che cosa ne era di quelli infelici, sorpresi e presi in Roma. Cicerone, cosi abbondevole di parole, aveva risposto una sola parola: «Vissero!».

Per la legge di Clodio, Cicerone fu condannato all’esiglio, come già in Atene il giusto Aristide; cosi che, a pensarci bene, fu proprio lui, Cicerone, a fare espiazione per i misteri violati della Dea Bona.

Ad ogni modo è da considerare come, in [p. 139 modifica] Atene e in Roma, l’odio di parte arrivò all’ostracismo e all’esiglio, ma si fermò davanti alla pena di morte. Le «sante leggi» non erano poi tutta favola in Grecia e in Roma! Se poi Cicerone, oltre all’esiglio, ebbe abbattuta la casa, ciò è dovuto al fatto che il popolo, quando è in furore, aggiunge sempre alla condanna il contentino, o buon peso.


Povero e caro Marco Tullio! Era nato per bene et beate vivere: la sua biblioteca, il suo caro filosofo Panezio, le sue ville, i suoi predii che lui chiama praediola, il suo intelligente Tirone, la indimenticabile figlioletta Tulliola... Non gliene andò bene una. Era un galantuomo!

Crollò tra le fiamme la sua bella casa; e, quale capolavoro di ironia, l’area di detta sua casa fu da Clodio consacrata alla Dea Libertà!

Fugge Cicerone lontano da Roma. Non basta l’Epiro, non basta Atene. Cinquecento miglia deve il «padre della patria» andare lontano dalla patria. Mendicare deve la vita a frusto a frusto! Da lontano vedeva con gli occhi dell’anima le fiamme della sua casa, udiva il pianto di Tulliola.

In quella dolorosa condizione la moglie Terenzia si comportò poco bene; invece bene si comportò il Senato, e quella parte del popolo che non era con Clodio. [p. 140 modifica]Cicerone fu richiamato in patria a grande onore. (Ciò che non sarebbe potuto avvenire se fosse stato condannato a morte.) In quella occasione, Cicerone perorò «prò domo sua»; e la sua casa fu ricostruita, i suoi beni restituiti, ma non per questo cessarono le persecuzioni di Clodio contro di lui. Questo odio di Clodio è fra i più misteriosi che la storia ricordi. E fa meraviglia come facesse Cicerone a studiare, pensare, scrivere, conversare in Senato con questa minaccia continua. Non sapeva se la notte avrebbe riposato si o no nel suo letto. E tutto dà a credere che sarebbe morto ammazzato fin da allora, se nei momenti in cui appariva Clodio a capo dei suoi armati rossi, non fosse apparso il fido Milone tribuno anche lui ma amico di Cicerone, a capo dei suoi armati bianchi.

Questo Milone non che fosse il famoso Milone, atleta di Crotone; ma era un uomo vigilante e che faceva paura.

E la legge? Le guardie dell’ordine?

Doveva essere un’atroce mortificazione, un poema di scherno per un uomo come Cicerone, per un filosofo che scrisse tante belle cose su la maestà delle leggi, e, diciam pure, per un avvocato che si era formata una coscienza giuridica, avere salvaguardata la vita [p. 141 modifica] dall’amico Milone: da una vis contro un’altra vis, da una prepotenza contro una prepotenza.


Non è questa materia della nostra storia, ma trattandosi di un personaggio di cui tanto fu scritto in prosa e in rima, non è possibile tacere del tutto.

Il popolo di Roma stava bene in salute, ma la libertà era ammalata, ma non perciò Cicerone la amava di meno. Aveva capito che a curare la libertà occorreva un’operazione pericolosa: e l’operatore c’era e si chiamava Cesare, il quale anzi disse a Cicerone: «Vuoi essere mio aiutante?».

La dittatura in perpetuo, sia pure di un Cesare perpetuo, si presentava all’anima di lui non dissimile a ciò che per un credente sarebbe l’abolizione del libero arbitrio.

«Hai ragione, Cesare! Ma tant’è. Uccidimi! Se mi togli la ragione della vita, tòglimi anche la vita!» Questo fu l’errore di quelli stoici romani che si opposero a Cesare: essi partivano da quel presupposto da cui magnitudo animi existit, cioè che l’uomo fosse nato libero.

Cicerone esitò di fronte all’offerta di Cesare.

Intanto si formò il ciclone. L’amico Attico glielo aveva consigliato: «Marce Tulli, sàivati dal ciclone». Rimase preso in pieno. [p. 142 modifica] Pace all’anima sua. Questo grande studioso, invece di chiudere gli occhi in pace, dover morire cosi sanguinosamente! Fu ben crudele destino. Uomo senza colpa! Se un appunto gli può essere rivolto, è questo: chi studia Panezio, Platone, e la logica di Aristotile, è bene non si metta in mezzo fra demagogia e oligarchia.

Le sue benemerenze vennero riconosciute sùbito. Il divo Augusto disse di lui con l’ammirabile sua precisione: «Uomo insigne fu questi: grande di pensiero e di cuore. Amò molto la Patria».

E riconoscimento anche maggiore gli venne dalla Storia. Per secoli e secoli egli fu autorevole come Aristotile.

E intanto che cosa avvenne? Avvenne che tutte le brutte cose che egli disse contro Clodia passarono nella Storia.