Il Sofista e l'Uomo politico/Prefazione
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Traduzione dal greco di Giuseppe Fraccaroli (1911)
Prolegomeni | ► |
PREFAZIONE
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Anche per chi non consenta pienamente nella sentenza di Giorgio Hegel, rappresentare il Sofista il più alto culmine che la filosofia di Platone abbia raggiunto, il giudizio d’un tanto uomo val sempre più e meglio di qualsiasi lungo discorso inteso a dimostrare l'importanza dei dialoghi che presento tradotti. E lo confesserò candidamente: non per mio diletto li ho fatti italiani (sono infatti inameni e difficilissimi tra i più difficili), ma con la speranza, anzi con la consapevolezza di far cosa utile agli studiosi. Siamo d'accordo: gli studiosi seri leggono Platone nel suo testo; ma io son d’opinione che a quelli anche più seri non abbia a tornare sgradito far la strada in compagnia. E poi, e poi — a chi vi dice di saper intendere alla prima il Sofista o l'Uomo Politico nel testo greco senza ajuto di commenti (e una traduzione conscienziosa è sempre il commento migliore), ditegli pure a nome mio che è un ciarlatano.
Di questi due dialoghi poi, — e questo pure valse a decidermi a così improbo lavoro, — non abbiamo affatto in italiano alcuna traduzione leggibile, o almeno io non ne conosco. Siamo ancora al vecchio Dardi Bembo, la cui insufficenza a tutti è nota.
Una versione moderna, è vero, ci sarebbe, — quella che porta il nome del Bonghi, ma non è leggibile. Non sarà perciò inutile spendere due parole anche a scagionare quel brav'uomo del torto che gli hanno fatto stampandola.
I dialoghi di Platone tradotti dal Bonghi e pubblicati lui vivo io li credo veramente degni anche di maggior conto che non ne corra la fama. Difetti ne hanno, come ogni umana cosa; ma il Bonghi per capire Platone possedeva quanto e più di chi che sia le due fortunate condizioni che il filosofo lodava in Timeo, intendersi di filosofia ed essere uomo di Stato.
Quelli altri invece che furono stampati lui morto 1 sono abbozzi non riveduti nè corretti: frequenti perciò sono gli errori, le inesattezze, gli equivoci, i grovigli. Con tutto ciò erano pur sempre l'opera d’un acuto pensatore, che dove coglie il senso lo coglie intero e preciso: parecchi luoghi anche difficili sono resi con chiarezza ed efficacia, e vi si vedono ottime intenzioni stilistiche. Dagli studiosi pertanto, se non dal gran pubblico, avrebbero potuto perciò esser consultati utilmente, se non fosse accaduta a guastarli del tutto un’altra e assai più grave disgrazia. Chi ha curato l'edizione ne ha fatto uno scempio. Da persona ignorantissima, come si mostra, al di là di ogni verisimiglianza, egli nulla capì nè sospettò di ciò che aveva tra mano, e lasciò perciò correre a ogni piè sospinto tali e così enormi e risibili svarioni da disgradarne ogni più ricca raccolta di spropositi. Non sono errori di stampa: il tipografo fece il suo dovere; — a meno che non si voglia che suo dovere sia pure quello d'intendersi di filosofia o eventualmente di emendare il testo che ha da comporre. Senza cercar oltre, questo è il primo periodo del Sofista, e basti per saggio:
«Teodoro. — Ecco, o Socrate, secondo il fissato di ieri, che noi s'è venuti com’era il dovere, e si conduce anche con noi codesto forestiero, di nascita, da Elea, e comico di tutta la compagnia di Parmenide e di Zenone, un filosofo e di molto anche».
Parmenide è diventato un capocomico! Il Bonghi dovea aver scritto amico, e anche senza aprire il testo e riscontrare, bastava informarsene dal senso comune. E così si può dire è a ogni pagina, quando non è più volte per pagina.
Ma c'è di peggio. Il Bonghi, si vede, non aveva preparato nè note nè sommarî: ora per i sommarî effettivamente supplì il sullodato valentuomo, o la sua serva, e modestamente non vi appose la propria firma: generosamente li lasciò così credere parte genuina dell’opera bonghiana. Ecco a edificazione del lettore la seconda parte del sommario del Sofista:
«Numera dell’ente cinque generi: essenza, identità, diversità, stato e moto. Insegna che la vera essenza conviene alle cose corporee; l’immaginaria alle incorporee. — Quindi detesta quelli che negano le cose incorporee; e quelli che negano o che tutto si muova o che tutto stia fermo.— Poi parla della scienza, dell'opinione, dell'orazione vera e falsa, del verbo, del nome, ecc., in quanto sembrano appartenere alla disputa dello stesso ente. — Finalmente dopo aver parlato insieme del sofista e del filosofo, conchiude il libro con una sentenza direi quasi divina, cioè che tutte le cose naturali sono opera di Dio. Innanzi aveva già provato che tutte le opere della natura dipendono da una certa divina sapienza infusa nel mondo».
Questo non è più fraintendere; questo è impazzire. Come ha fatto costui a sognare la divina sentenza e tutte queste meraviglie?
Per l'onore scientifico del Bonghi ho creduto dunque che ciò si dovesse dire, e per quello dell'editore altresì, con la cui licenza questo io scrivo. Se da noi le opere serie e di polso non trovano chi le voglia stampare, non c’è poi ragione di lagnarsene, quando a quel coraggioso e benemerito che a questo rischio si avventura si fa il brutto scherzo di vender per Platone ciò che in sostanza è diventato men che Bertoldo, ciò che spesso non ha senso nè grammaticale nè comune, condizione necessaria, credeva il Manzoni, di ogni libro stampato.
Come poi io abbia compiuto il mio lavoro è detto in due parole: ho seguito i criteri stessi che per il Timeo. Non ho messo neanche qui il testo a fronte, e credo di aver fatto bene. Chi legge per istudio, un testo di Platone deve possederlo, chi legge per sola sua informazione, sarà forse bene non ci si confonda tanto e tiri via. E poi bisogna esser pratici. Dare il testo vuol dire curarne una nuova recensione, anche nelle minuzie per il senso affatto inconcludenti, perditempo ormai inutile dopo le ottime edizioni che possediamo: per lo meno il guadagno non franca la spesa. Oltre di ciò con la mole si doveva raddoppiare il prezzo del libro, e non è più un affare possibile.
Ho quindi preso a base le edizioni più attendibili, e quando non c'è avvertimento in contrario, s’intende che ho seguito, per il Sofista, l’ottima edizione dell’Apelt, stampata a Lipsia nel 1897 come seconda dello Stallbaum (Dio sa perchè, quando dallo Stalbaum è sostanzialmente diversa), e per il Politico quella pure assai buona del Campbell (Oxford 1868). Dopo uscì, è vero, pure ad Oxford, nel 1899, di tutti e due i dialoghi l’edizione critica del Burnet, che anche compulsai; ma poichè non si può dire che vinca sempre le altre, ed è senza commenti, preferii prendere a base quelle che ne sono fornite: allo studioso benevolo e al critico maligno doveva esser mia cura di porre sott’occhio di preferenza le fonti più copiose a cui attingere. Delle versioni compulsai, oltre la latina, quelle tedesche dello Schleiermacher e del Müller, le francesi del Cousin e dello Chauvet, e l’inglese del Jowett: quando mi discosto dall’una o dall’altra, lo dico nei punti più o meno discutibili, ma non mi fermo a notare per saccenteria gli errori singoli in cui l’uno o l’altro sia caduto. Gli altri sussidî di cui mi sono valso sono citati nei Prolegomeni e nelle note, nè mi scuso tanto per ciò che potesse mancare, quanto per ciò che sovrabbonda. Qualche scrittarello più recente l’ho ricordato solo appunto perchè più recente e perchè la sana critica non ne ha ancor fatto giustizia. La bibliografia, del resto, in Italia è spesso e volentieri un comodo sussidio della ciarlataneria: — ah non avete visto la memoria del tale? i contributi del tal altro? — È una facile sentenza e una facile condanna. — Ebbene, potrà anche darsi che qualche cosa buona io non l’abbia vista, che parecchie altre non le abbia capite, e di ciò mi duole, se mai, sinceramente; delle sciocchezzuole ne ho per altro lette assai più che non ne abbia citate.
Di diligenza insomma io non credo aver mancato. Sono io ciò non pertanto caduto in qualche errore? Non sarebbe nessuna meraviglia; ma nessuno di coloro che hanno letto, o anche solamente saggiato, questi dialoghi, me ne può far carico: l’estrema difficoltà dell’argomento e la scarsità dei sussidî a cui potevo ricorrere, specie per il Politico, mi servano eventualmente di scusa. Tanto più perciò sono obbligato all’affettuosa e filiale amicizia del dr. Paolo Ubaldi e del dr. Ettore Bignone, già miei valentissimi discepoli, i quali mi prestarono nella revisione delle bozze non solo la loro diligenza, ma altresì e più la loro sicura dottrina.
- Milano, 5 dicembre 1910.
G. Fraccaroli.
Note
- ↑ Sono i vol. VII, VIII, e X, XI, XII. Di questi solo il manoscritto del primo, contenente la Repubblica, era stato dal Bonghi in parte riveduto.