Il Re prega/V
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V.
L’entrata nella vita civile.
Don Domenico Taffa, capo di dipartimento al ministero degli affari ecclesiastici, come dicevamo testè, toccava un mensile di cinquanta ducati — 180 lire gravate di ritenute. Egli dimorava al terzo piano di una bella casa alla salita di Magnocavallo, il quartiere elegante della ricca borghesia, e pagava 2500 lire l’anno. L’appartamento, vasto, ben aerato, lindo e gaio, mobigliato con ricercatezza: del palissandro, — allora prezioso ancora, — cortine di seta, tappeti, porcellane, quadri, una bella biblioteca, dei bei cristalli, degli specchi dovunque. Un lacchè in livrea si teneva stecchito nell’anticamera. Una donna confezionava, starei quasi per dire, ricamava la cucina. Una graziosissima cameriera riempiva gli uffici di governante.
All’istante in cui Don Diego si presentò, la tavola non era ancora disservita, ed ei potè intravvedere la bella argenteria, la bella biancheria di Sassonia ed i residui di un ricco dessert.
Don Domenico fiutava e sorbiva il moka nel salone con alcuni amici, e Don Diego rimarcò, quantunque poco conoscitore, il bel servizio di porcellana inglese di Minton e la cristalleria di Boemia. Tutto ciò, mediante 180 lire al mese! Era la ripetizione in permanenza del famoso miracolo dei pani e dei pesci, di cui, a vero dire, gli impiegati di S. M. Siciliana conoscevano tutti il secreto. L’han dessi dimenticato di poi, o non ne han lasciato memoria?
Questa opulenza sembrò quasi regale a Don Diego, ed ei provò una specie di trepidazione involontaria. Ebbe per un momento l’aria goffa ed imbarazzata. Aveva dato il viglietto del capitano Taffa al domestico, ed aveva fatto domandare se lo si poteva ricevere. Cinque minuti dopo, Don Diego era introdotto nel gabinetto di Don Domenico.
Questo personaggio avviluppato in una calda zimarruola, uno steccadenti fra le labbra, entrò quindi a poco e toccò un piccolo campanello per chiamare un domestico che venisse a rimuovere il fuoco del braciere.
Ei navigava fra i cinquant’anni e di già si brizzolava. La sua taglia tendeva all’adipe. Aveva viso aperto, rubicondo, quadrato, minuziosamente raso, da brav’uomo; era lindissimo e si dondolava camminando. Le sue labbra erano carnose, rosse, grosse, i suoi occhi vivaci. Parlava il dialetto napolitano, si fregava le mani ad ogni frase, mirava al concettino, aveva maniere senza ritegno, la voce mingherlina. Egli adorava Pulcinella, al teatro San Carlino, Casaciello, al teatro Nuovo.
La biblioteca era chiusa a chiave, ed alcuno non si avvisava di toccare a quelle opere così bene legate, così bene in ordine dietro i cristalli, come dei mobili appropriati al gabinetto. Il tavolo era coperto di carte, una corrispondenza di larghi dispacci, coi grandi suggelli di cera rossa stemmati. Don Domenico era l’amico ed il confidente di due potenze: il ministro degli affari ecclesiastici, il confessore del Re. Egli provvedeva di vescovi il ministro che s’intendeva col confessore, e costui li faceva approvare da S. M., nel cui nome erano proposti alla Santa Sede.
Ciò spiega l’importanza di Don Domenico e la sorgente della sua fortuna.
Uscito il domestico, chiuse le porte, il provveditore di vescovi che aveva fatto sedere il povero prete accanto a lui, credendolo un cliente, gli dimandò con voce affatto melliflua:
— Vogliate dirmi, signore, qualche parola sulla vostra persona, e che cosa posso fare per voi, perchè mio fratello vi raccomanda a me con interesse.
Don Diego raccontò la sua storia senza nulla omettere, eccetto le sue opinioni politiche e religiose.
Don Domenico cangiò portamento.
— Riconosco ben là mons. Laudisio, diss’egli. Quel diavolo di uomo ci dà più bisogna egli solo che tutto l’episcopato del Regno preso insieme. Gli è un uomo fuori classe quello lì. Doveva essere prefetto di polizia: se n’è fatto un vescovo.
— Il vescovo non ha assorbito il prefetto di polizia, osservò Don Diego.
— Ebbene, figliuolo mio, ripigliò Don Domenico, giuocherellando col curadenti, io non so proprio, io non so assolutamente che fare per voi. Voi siete povero....
— Poverissimo, interruppe Don Diego.
— E ciò che è peggio ancora, soggiunse l’impiegato, voi sembrate aver del merito, della dignità e dell’ambizione.
— Dell’ambizione propriamente, no, rispose Don Diego. Ma io ho bisogno di vivere e di dare a vivere a mia sorella.
— Diavolo! voi siete afflitto ancora di una sorella?
— Sì, sclamò Don Diego: potrei quasi dire di una figlia.
— Che età ha dunque vostra sorella?
— Non ancora diciotto anni.
— È dessa bella?
Don Diego guardò il suo interlocutore di un’aria malcontenta, esitò a rispondere, poi disse, sospirando:
— È bella come la Vergine Maria, e pura come ella.
— Diavolo! diavolo! incalzò Don Domenico; ciò complica la situazione....
— E triplica la spesa, soggiunse Don Diego, ghignando.
— È dessa maritata, vostra sorella?
— No.
Don Domenico restò qualche tempo a riflettere, poi proruppe:
— In fede mia, no: io non posso nulla fare per voi. Di un cattivo prete, toccato dalla Grazia ed inscritto al Gran Libro, si può ancora, a peggio andare, tirare un vescovo, un monsignor romano, un canonico, un abate. Ma voi avete su di voi gli occhi della polizia e siete povero. Accomodate ciò, se potete.
— L’è proprio così, sì: sorvegliato, pitocco, e non un amico.
— Oh! gli amici poi non si scontano al Banco di Napoli, e non se ne trovano che per averli a pranzo o per farsi mettere a male. Il migliore amico di questo mondo, mio caro, è il re....
— Fosse anche un travicello?
— Fosse anche un re a Statuto, purchè impresso alla zecca su delle rotelle di argento e d’oro.
— In questo caso, sclamò Don Diego, io sono sans-culottes.
— Se voi aveste solamente sei poveri mille ducati!
— Una miseria! che!
— Gli è che monsignor Cocle, dappoi che egli ha quella piccola Passaro, diviene un baratro spaventevole. E’ non trova mai che basti.
— Un confessore di re? pensate mo! Allora?
— Ebbene, dei sei mila ducati, tre mila a monsignor Cocle, due mila a Sua Eccellenza, il mio ministro, e mille per il vostro umilissimo servitore. Gli è per un boccone di pane! E’ mi rubano, quei briganti tonsurati. Almeno se mi lasciassero le mani libere! Se quei maledetti vescovi morissero almeno presto! Ora i miei superiori cominciano perfino a trovare la mia mercanzia un cotal poco punticcia. C’è per dio da disgustarsi del mestiere.
— E se io trovassi codesti sei mila ducati? domandò Don Diego.
— Ah! per tutti i santi! procurate di averli e fate presto. Un’occasione superba, in questo momento. Il vescovo di Teramo è morto d’indigestione, disse egli. Il suo posto è a riempire. Il vescovado rende quattro mila ducati l’anno, forse anco cinque mila, rinfocolando un po’ la religione. Potete inventare una madonna che guarda bieco che piange.... Insomma, un poco più della rendita di un anno, e voi sarete patta. Voi vedete! gli è per un mille crazie! per un tozzo!
— Ma! gli è precisamente codesto tozzo che mi manca.
— Tanto peggio per voi allora. Io non posso ribatterne un carlino. La piccola Passaro pretende anch’essa cinquecento ducati per le sue spille, adesso, l’orrida cammella! Fosse bella almeno!
— E voi non pensate a farla saltare, eh?
— Perdio! Se ci penso! Ma con un’altra sarebbe la stessa minestra. A meno che io non metta a quel posto una guidoncella di mia conoscenza che per riconoscenza non mi ricatti.
— L’è giusto.
— Ma quel porco grossolano monaco....
— Qual monaco?
— Monsignor Cocle, perdio! che vede pertanto delle belle dame alla corte e passa al bucato la coscienza del re e della regina.... sissignore! egli si è impaniato in quella moresca butterata...
— Che specie di femmina è dunque codesta piccola Passaro? domandò Don Diego, intrigato perchè colui parlasse di codesto, e così liberamente, con lui, cui punto non conosceva.
— Ma l’è di lei che io parlo. Figuratevi un botticello, cremisino, a grosse labbra di mora, senza vita e senza spirito, con un subbisso di ciccia che sbocca ed inonda dovunque, che s’ubbriaca con Monsignore, che mangia quanto lui, vale a dire come quattro uscieri; un compagnone d’indigestione in gonnella!
— E nient’altro che questo?
— Ma! vi debbe essere altresì qualche altra cosa.... ma poco.
— Ebbene, bisognerebbe presentare a monsignore un partner dei suoi piaceri di un altro stampo.
— Ah! se avessi una sgualdrinella parigina sotto la mano! Lo farei marciare il vecchio maiale, veh! Ma non parliamo più di ciò! Quanto a voi, ve lo ripeto, sono impotente. Pas d’argent, pas de saucisses! soggiunse egli ridendo.
— Lo so. Una chiave d’oro, è la sola chiave che apre tutte le porte qui.
— La sola, no. Una bella donna, un segreto di Stato, un servizio reso alla polizia, l’abilità a manipolare un miracolo... che so ancora? No, vi sono altre risorse nel nostro bel paese, grazie a Dio. Laonde non bisogna disperare. Cercate, sappiate cercare, e troverete.
— In un parola, bisogna essere vile ed infame, osservò Don Diego.
— Ah! sclamò Don Domenico come allocchito, se voi apprendete la lingua nei cattivi dizionari, se voi avete dei principj, aprite una finestra e gettatevi nella corte.... Questo mondo non è per i gaglioffi, soggiunse Don Domenico, con umore, alzandosi.
— Scusate, signore, disse Don Diego, accorgendosi d’aver offeso l’impiegato che da una mezz’ora gli parlava a cuore aperto. Perdono, davvero. Non è dei principj che io proclamo qui; è la mia inesperienza di linguaggio che mi fa chiamar oca un papagallo. Arrivo di provincia. Ma mi formerò....
— Oh sì, mio caro, formatevi e poi venite a vedermi. In questo mondo non si vive mica solamente di vescovadi. Voi potete fare altra cosa.
— Ah! se io non avessi a lottare contro la polizia....
— Corbellerie! La polizia non esiste. Voi non avete a lottare che contro la miseria. Abbiate dei quattrini, e vi si darà il Padre Eterno. D’altronde, voi sarete ricco quando non avrete più pregiudizi. Voi avete una mina....
— Sì, rispose Don Diego sorridendo: la mine d’un homme condamné au suicide.
Don Domenico alzò le spalle come un uomo che si dice: Non ci è nulla da cavare da questo idiota! Ed aprì la porta del suo gabinetto.
Don Diego uscì. Era già nella corte, quando il domestico corse dietro a lui e lo pregò di risalire.
Il suo padrone aveva un’ultima parola a dirgli. Don Diego risalì. Don Domenico l’attendeva sulla soglia della porta del suo gabinetto ove era restato a riflettere.
— Udite, diss’egli, un ultimo consiglio. Mio fratello mi ha pregato d’interessarmi del caso vostro....
— Grazie, signore, rispose Don Diego con dignità.
— Mandate vostra sorella a confessione.... Voi dite ch’ella è bella...
— Signore, interruppe Don Diego, mia sorella è straniera ai miei affari, ed io non vedo perchè....
— Infatti! replicò l’impiegato con disprezzo. Ritornate dunque al vostro villaggio ed andate a zapparvi la terra. Io non so perchè siate venuto a Napoli. Io aveva creduto veder lampeggiare sul vostro sembiante altra cosa. Ma, e’ pare che la natura si piace talvolta dare al tacchino la forma dell’avoltoio. Addio, signore.
— Scusatemi ancora una volta, signore, riprese Don Diego. Datemi ad ogni modo il vostro consiglio. Voi siete buono in sostanza. Fate come l’agricoltore che getta la sua semenza e non guarda se qualche granello cade sulla pietra.
— Non si semina sul tufo, in generale, replicò Don Domenico con impazienza. Ad ogni evento, ecco ciò che avevo a consigliarvi. Mandate vostra sorella a confessione dal P. Piombini della Compagnia di Gesù ed aspettate. Addio.
E dicendo ciò. Don Domenico volse le spalle al provinciale e rientrò nel salone dove i suoi amici l’attendevano per giuocare una partita di mediatore — una specie di whist bastardo che si giuoca nel napolitano.
Don Diego andò a passeggiare alla sponda del mare, la testa piena di pensieri, il cuore pieno di dubbi. Quella conversazione cinica apriva innanzi ai suoi occhi un nuovo orizzonte. Rientrò tardi, molto distratto e silenzioso. Egli meditava le proposizioni, — cabalistiche allora per lui, — seimila ducati per esser vescovo! un secreto di Stato! un servizio alla polizia! un confessore per sua sorella! una mina!... Ei levò la testa e scorse in faccia a lui Bambina che lavorava. Ei la contemplò lungamente. La vedeva forse per la prima volta. Poi si alzò di balzo e prese la volta della sua camera senza schiudere le labbra.
— Non mi abbracci dunque questa sera? disse Bambina. Cosa hai dunque? Non mi racconti la tua visita?
— No, rispose Don Diego. Non ti racconto nulla. Questa città è un inferno popolato di vigliacchi e d’infami.
Ed uscì. Bambina sclamò sorridendo:
— Mio caro Seneca, io vorrei che il tuo inferno fosse almeno un poco più caldo, perocchè ti confesso che io agghiado, e ti prevengo che domani bisogna comperar dei carboni.
L’indomani, questa povera famiglia fu risvegliata alle sette del mattino da un birro che veniva ad ordinare a Don Diego di presentarsi di nuovo al commissario di polizia, a mezzodì. E gli estorse due carlini per essersi... scomodato!
— Che mi vogliono ancora? mormorò Don Diego. Non mi sbarazzerò dunque giammai di codesta orrida ribaldaglia.
All’ora indicata, nondimanco, si trovò alla presenza di Campobasso, il quale lo ricevè con un piglio più brutale che mai. Egli intimò alla sua vittima di avere a lasciar Napoli fra quindici giorni, per ordine del prefetto di polizia. Fu un colpo di fulmine per quel disgraziato che aveva appena speso quasi intero il minimo peculio per installarsi su quell’angolo di terra da cui ora lo si espelleva senza pietà e senza pretesto. Se avesse saputo ove andare almeno! se almeno fosse stato solo!
Le lagrime gli rotolavano per gli occhi. Divenne orribilmente pallido. Barcollò. L’atroce commissario si sentì quasi intenerito.
— Gli è per ordine del ministro, disse egli. Non ci è a recedere.
— Ma che ho dunque fatto? domandò Don Diego con una voce soffocata, che ho dunque fatto che mi si tratta peggio dei forzati?
— Ciò che i forzati non fanno, rispose il commissario. Voi vi mischiate degli affari del vostro paese, della sua morale, del suo governo, di libertà, di dignità e di non so che altre fandonie. Ma quando si ha la perversità di cospirare contro lo Stato, si dovrebbe almanco avere abbastanza spirito per scegliere i suoi complici.
— Ma io non cospiro, gridò Don Diego.
— Contatela ad altri, figliuolo, replicò il commissario. Non sono forse i vostri amici che vi hanno denunziato?
— I miei amici! Ma io non ho amici, io.
— I vostri complici, se vi piace meglio, Insomma, coloro che conoscono i vostri fatti ed i vostri pensieri.
Don Diego parve schiacciato.
— Voi non sapete mica dunque, innocente provinciale, continuò Campobasso, che quando voi cospirate, noi altri, noi, siamo sempre un po’ della partita. Cercate bene nella vostra memoria, e vi ricorderete chi ha potuto essere il vostro Giuda.
— Io non ne conosco alcuno, replicò Don Diego con semplicità.
Poi soggiunse, per correggere lo sbaglio:
— D’altronde, io non ho giammai cospirato.
— Davvero! sclamò Campobasso, voi mi fate pietà. Voi avete una natura generosa, senza fiele; io m’interesso a voi. Al vostro posto, io mi vendicherei; ma vi hanno di già sobbillato nel quartiere che io sono un tristo. Perciò rassegnatevi, rendete il bene pel male ed abbandonate Napoli avanti che spiri il termine fisso dal ministro.
— Ma, signor commissario, poichè voi dite che le mie disgrazie vi toccano, non potreste voi suggerirmi un mezzo per far rivocare da Sua Eccellenza l’ordine che mi precipita in un abisso di disastri.
— Io non ne conosco che uno: provare a Sua Eccellenza che le persone che vi hanno calunniato sono vostri nemici e che dessi vendono la vostra pelle per salvare la loro.
— Ma io non li conosco codesti nemici, gridò Don Diego in tuono commiserevole.
— Per Dio! non è poi difficile a comprendere, e’ mi sembra. Il ministro ha scoverta la cospirazione di cui voi fate parte. Qualcuno dei vostri complici ne ha parlato caricando il delitto sugli altri. Ora, ei bisogna provare al ministro che voi siete innocente, tutto al più un accalappiato, e che gli altri sono i rimestatori.
Don Diego udì il commissario attentamente, riflettè qualche secondo, indovinò infine la trappola e rispose con calma:
— Io non conosco alcuno, non ho fatto giammai parte di alcuna società segreta. Vedo dunque che la mia sventura è senza rimedio e che debbo soccombere.
— Sta bene, ruggì il commissario sconcertato. Fra quindici giorni, a mezzodì, voi avrete lasciato Napoli. Se no, voi avrete a fare con me.
Don Diego uscì. Gli era troppo: si sentì piegare sotto il peso. Gli si dimandava infamie sopra infamie; lo si circondava di trappole grossolane, cui non si degnava neppure dissimulare; gli si proponeva, senza mercè, ogni specie di cose orribili ed odiose: comprate una carica, siate spia, vendete vostra sorella, prostituitela al confessionale di un gesuita, denunziate i vostri amici, infangate la vostra anima, abjurate le vostre credenze morali e politiche; siate Caino o morite di fame! Il cuore di Don Diego si spezzava e si abbronzava.
Adesso, egli vedeva il suo cammino: solamente aveva a scegliere. Gli si dimandava una metempsicosi infernale. E si trattava forse di un semplice problema di psicologia e di fisiologia sociale? No.
Nella scelta che gli si proponeva era implicata l’esistenza di sua sorella come la sua: la quistione morale si complicava di una quistione di vita o di morte. La scelta sarebbe stata libera, se si fosse trattato da lui solo: non l’era più dal momento in cui l’onore, la vita, l’anima, l’avvenire di Bambina vi erano compresi. Gli si domandava, inoltre, un’eccezione unica alla regola, ovvero quell’abbominevole governo gli proibiva di divenire l’esempio solenne di un prete, colpito dal vescovo ed assolto dalla società, condannato a morte dal potere spirituale e salvo dalla società laica? Il governo si credeva nel suo diritto mettendo in atto l’editto dell’interdetto episcopale, quando non poteva vantarsi d’aver fatto grazia ad un amico, ad un fedele, ad un complice, ad uno strumento.
Don Diego si trovò, senza saper come, nella Villa Reale, assiso sul muro che corre sul mare. La sua testa era abbattuta, le gambe penzolavano, le braccia s’incrociavano sul petto: meditava e piangeva. Sentì le sue guance molli a sua insaputa, quando il tramonto lo fece avvedere che era colà da parecchie ore. Si levò allora, passò le mani sul volto, che si addolcì.
Aveva egli risoluto il suo problema?
Bambina fu stupita a veder suo fratello quasi gaio. Mangiò molto, e si divertì a far delle pallottole di mollica di pane, pensando Dio sa che. S’informò di Don Tiberio e scherzò su i suoi vicini. Infine condusse sua sorella ad udire la musica innanzi al palazzo reale e la ricondusse in carrozza dopo averle fatto bere un sorbetto della regina. Bambina gli disse:
— Come dunque? tu mi vizii adesso?
— Ti do una ricompensa prima di dimandarti un sacrifizio.
— Vedete un po’! E qual sacrifizio don Agamennone degna dimandare a donna Ifigenia?
— Domani tu andrai a confessarti.
— Oh! oh! scoppiò Bambina ridendo. A confessarmi!
— Che vuoi, piccina mia? Siamo a Napoli: ciò è alla moda. Bisogna far dunque come tutti fanno.
— Ed ove andrò a confessarmi, di’?
— Dai gesuiti, dal loro confessore in voga, al padre Piombini che spilluzzica le anime di tutte le dame del gran mondo napoletano.
— E cosa occorre dire a quel rigattiere di cenci d’anime?
— Tutto ciò che ti passerà pel capo. Ma trattasi meno di dire che di lasciar parlare ed ascoltare. Resterai dieci minuti sotto l’alito fetido di quel monaco che t’insozzerà il viso. E che Dio ti riconduca così pura da quella gogna di corruzione come vi sarai andata, tesoro mio.
— Ciò ti farà piacere, fratello?
— Ciò è utile.
— Sia. Andrò e mi divertirò forte a giuocare di astuzia con un gesuita. Poi se non dirà che ha confessato la Vergine Maria, io rinunzio ad esser donna. Buona sera.
Mentre Don Diego se n’era andato alla Villa Reale, il commissario Campobasso si era recato dal prefetto, e questi, in seguito, dal ministro per rendergli conto dell’interrogatorio del prete.
— Ebbene? dimandò il marchese di Sora.
— Eccellenza, è sembrato estremamente abbattuto dell’ordine di espulsione.
— Si è desso lamentato?
— Sì, ma non fino alla bassezza.
— Quale ragione avete voi data dell’adozione di questa misura?
— La denunzia di qualcuno dei suoi complici, che l’ha accusato per mettere in salvo la propria testa.
— E non ha nominato alcuno?
— No, Eccellenza. Assicura anzi non aver complici.
— E poi?
— Si è rassegnato a lasciar la capitale.
— Sta bene. Aspettate miei ordini per dar seguito a questo affare.
— Lo lasceremo tranquillo allora?
— Ora, che uno dei nostri agenti travestiti dia questa lettera ad un commissionario per ricapitarla al suo indirizzo.
Il marchese di Sora prese un foglio di carta e vi scrisse qualche parola in cifre. Poi piegò la lettera in un certo modo, la suggellò senza alcuno stemma e la rimise al prefetto.
— Scusi, Eccellenza, e l’indirizzo?
— Ah! sì, sclamò il marchese. Scrivete.
Il prefetto prese la penna, il marchese dettò:
— Al signor Antonio, mercante di tabacco, Piazza della Carità.
— È fatto. Ora Vostra Eccellenza vuole ella il rapporto della giornata?
— Me lo comunicherete stasera nel mio palco a S. Carlo. Nulla di urgente?
— -No, Eccellenza. Il rapporto del n. 7.
— Datemelo codesto. Barcolla sempre il Reverendo Padre?
— Più che giammai. La Compagnia esita. Cattivo segno.
— Credete?
— È arrivato al Gesù Nuovo un corriere di Roma nella notte ed è ripartito la notte stessa.
— Ed il n. 15 non ne fiata?
— Non ha potuto saper nulla. Tutto si è passato nel piccolo consiglio.
— Sta bene. Andate.
L’indomani alle otto del mattino, il barone di Sanza venne da Don Diego, e gli disse:
— Andiamo. Vi presenterò ad un uomo che può esservi utile.
Bambina entrò. Lo sguardo di Tiberio le andò incontro.