Il Re prega/IV
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IV.
Un benvenuto! che non vale neppure un: vatti a fare impiccare!
In Francia, un prete interdetto se ne va a Parigi, e quivi egli è ancora un uomo, un cittadino. Al momento in cui scrivo, vi sono in quella capitale più di ottocento cocchieri di fiacre ex-preti, senza parlare di coloro che trafficano alla Borsa, sono impiegati come garzoni nei caffè, domestici nelle case mobigliate, commessi qua e là e segugi di polizia. In Francia, la dignità dell’uomo è sua mercè, sua proprietà: può conservarla, abbassarla, insozzarla, venderla. A Napoli, non era così in sul finire del 1846. L’uomo non si apparteneva: egli era alla polizia, che l’allevava, lo istruiva, lo contaminava, lo spezzava, lo uccideva senza responsabilità, senza render conto dell’opera sua alla società.
Don Diego Spano si era recato a Napoli. Monsignor Laudisio aveva annunziato quest’arrivo al ministro della polizia con un rapporto particolare, il quale si riassumeva in questi termini:
«Uomo pericoloso, ateo, ex-carbonaro, mazziniano, capace di tutto, uno dei capi della Giovane Italia. Da sorvegliare, da comperare se può esser utile, da neutralizzare ad ogni costo. Sa cose che bisognerebbe strappargli; o ridurlo al silenzio con tutti i mezzi.»
Il ministro conservò per lui questa santa denunzia e dette qualche istruzione al Prefetto.
L’appartamento che il barone di Sanza aveva trovato al suo conterraneo, vico Canalone, all’estremità della strada di Forcella, dava sur uno sporco e scuro chiassuolo circoscritto dalle alte mura di due conventi e di una chiesa. Il fitto non era caro; ma non si poteva immaginar nulla di più lugubre di quell’alloggio.
Don Diego occupava il primo piano, il più a buon patto ed il meno ricercato degli altri cinque appartamenti di quella casa, a causa dell’aria e della luce di cui era completamente orbato. Non essendovi portinaio, la corte apparteneva, di giorno come di notte, ai lazzaroni, ai mendicanti, ai musici ambulanti, alle prostitute, agli animali perduti, ai fanciulli scostumati: era il salone del vizio e della miseria. Un materassaio vi veniva a battere il suo crine e cardar la sua lana, perchè gli accomodava così, non curandosi punto se il rumore e la polvere incomodassero gl’inquilini. Una cagnaccia vi veniva a trafficare del suo commercio di frittura all’olio, e tanto peggio se le esalazioni appestassero gli abitanti del luogo. Un ganascione vi veniva a tosare i suoi barboni, a castrare i gatti ed i porcelli. I cialtroni di tutto il quartiere vi davano la caccia ai loro insetti e vi medicavano le loro piaghe come a casa propria.
Del resto, don Gregorio, l’inquilino del sesto, esciva alle sei del mattino e rientrava a mezzanotte, lasciando almanaccar forte i suoi vicini sulla sua persona e sulle sue occupazioni. Al quinto, dimorava un prete di provincia che sorvegliava l’educazione dei suoi due nipoti e li nudriva del prodotto delle due o tre messe al dì ch’egli andava a rappresentare nei rioni i più opposti della città. Una monaca di casa stanziava al quarto, e questa religiosa a domicilio, giovane e bella, ma molto pia, riceveva il suo confessore, — un frate di Santa Maria la Nuova, da un’ora a sei del pomeriggio, e suo cugino, avendo paura dei ladri la notte, dalle nove della sera alle sei del mattino. Un impiegato alla lotteria abitava il terzo piano in compagnia di sua moglie, sei bambocci, qualche coniglio, molti polli e un cacatoes bianco che ripeteva tutta la giornata la famosa interiezione tanto usata dai romani, alla quale Benedetto XIV voleva annettere l’indulgenza plenaria, e cui io non oso scrivere. Il secondo piano era vuoto.
Eccetto Don Gregorio, tutti gl’inquilini fecero visita al nuovo venuto, quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, secondo l’uso napolitano di quei tempi. Otto giorni dopo, Don Diego restituì la visita, e si cessò di vedersi, limitandosi tutti a scambiare un saluto quando s’incontravano per le scale.
L’alloggio di Don Diego componevasi di due camere da letto, un salone, un gabinetto scuro ed una cucina, che serviva altresì di sala da pranzo. Le mura erano state tinte a terra gialla in colla forse vent’anni innanzi. Il suolo era a quadrelli; il soffitto a travi coperti di carta gialla a gigli turchini. Dei piccoli vetri anneriti dalla polvere oscuravano le finestre, ed i ragnateli tenevano luogo di cortine. Tutto ciò aveva l’aria sinistra e gocciolava la tristezza e la solitudine. Un romito vi poteva pregare; un malfattore scannare e fondere moneta falsa.
Al piccolo mobilio portato di provincia, Don Diego aggiunse alcune sedie, un vecchio canapè coperto di tela di crine e borrato di pietre, una tavola, un vecchio stipo, una mensola a mezza luna, verniciata nero, a marmo bianco smussato. Don Tiberio diede il consiglio di allogar su quella mensola i busti in gesso del re e della regina, e di appendere in qualche angolo del salone un gran Cristo, ch’e’ gli somministrò. Bisognava mobigliar quella camera per ricevere la polizia ed i messi dell’arcivescovo di Napoli, e, per conseguenza, alla convenienza di costoro. Del resto, non seggioloni, non tende, non tappeti, non specchi, non orologi, non candelabri: in mezzo del salone, al posto della lumiera, una gabbia con un canarino che non cantava più.
Erano degli avanzi che ornavano una tomba!
Bambina si sentiva soffocata; Don Diego, rotto e schiacciato. Egli, l’ho detto, dava alla sua dimora la toiletta appropriata ad ammortire i sospetti della gente officiale che sarebbe venuta a snidarlo.
La toiletta delle persone fu in armonia. Don Diego pigliò un costume mezzo prete e mezzo laico, non senza una certa eleganza: cappello tondo, cravatta e panciotto neri, soprabito bleu lungo, brache di drappo nero, e stivali che salivano fino al ginocchio, alla scudiera. Bambina si vestì da una beghina di religiosa.
Queste spese e quelle di viaggio avevano assorbito una parte della piccola somma portata da Lauria. Restava nondimeno di che vivere un anno per bussare alle porte della fortuna prima di mendicare.
— E quando tutto sarà finito, disse Don Diego a sua sorella, se non saremo riesciti, tu entrerai in un convento, io.... mi brucierò le cervella.
— Bravo! interruppe Bambina, bruciarti le cervella? Tu saresti ridicolo agli occhi dei napolitani. Tu perderesti la loro considerazione se non ti precipitassi da un quinto piano e ti fracassassi il cranio sul lastrico come un semplice vecchio coccio. Speriamo fratello, — soggiunse ella in tuono più serio. Il barone di Sanza ci aiuterà.
— Noi siamo poveri, figliuola, e tocchi dalla disgrazia. Non abbiamo dunque amici. Gli uomini sono come i cani: abbaiano ai mendichi e si gettano addosso ai più deboli. Si divora il ferito, come tra le bestie feroci. Non hai tu osservato come Don Tiberio si è mostrato glaciale verso di noi?
Don Diego non aveva visto sua sorella arrossire ed il barone di Sanza impallidire, al loro primo incontro, all’arrivo. Bambina si guardò di comunicare quest’osservazione a suo fratello e replicò:
— È vero. Ma noi siamo dei provinciali, e lui... un elegante della città, che frequenta di già ambasciatori e ministri.
Il barone di Sanza, in fatti, venne a vedere i suoi amici di Lauria due o tre volte, suggerì qualche consiglio molto utile; ma si addimostrò in generale freddo e riservato, come un uomo che non vuole svegliare speranze, cui non potrebbe poi realizzare. Non dimandò neppure a Don Diego ciò che voleva fare. Don Diego, del rimanente, sarebbe stato forse imbarazzato egli stesso a rispondere a questa dimanda. E’ non sapeva che una cosa, come diceva a sua sorella, che egli era un cacciatore esausto, per il quale ogni selvaggiume era buono.
Don Diego ebbe della pena ad orientarsi nella città. Napoli è vecchia. Le sue strade, i suoi edifizi datano da molti secoli, appropriati alle esigenze di quei secoli ed oggimai un incomodo anacronismo. Strade anguste, vicoli sporchi, oscuri, poco o punto lastricati, ingombri di depositi d’immondizie, in cui sguazzano cani, maiali e monelli. Casamenti altissimi, male intonacati, male aerati, affollatissimi di abitanti malpropri, edifizi tortuosi, sovente guerci. Chiese e conventi che occupano ed attristano due quinti della città, o dei palazzi immensi e solitari che tengono tutta una strada. La vecchia Napoli è infetta, malsana, male abitata, piena di sgorbi, storpia in tutte le membra, senza logica. Un fetore orrendo, cui gli abitanti non percepiscono più, l’avviluppa. Don Diego perdeva la sua strada ad ogni passo o faceva dei lunghi giri. La città gli spiacque. E’ sentì, dai primi giorni, la nostalgia dell’aer puro, delle foglie verdi, del cielo e dello spazio. La gente, nondimanco, gli parve buona. Egli non fu in contatto da principio che col popolo, il quale a Napoli è caritatevole, sente e si affeziona. È un cane: ha bisogno di amare qualcuno, o qualcosa, obbedire, consacrarsi; abbaierà talvolta per non importa chi e non importa che, ma non morde giammai. La libertà di già lo corrompe. Il borghese poi è altra cosa; del pessimo, pessimo. Ma Don Diego nol conobbe che più tardi.
Aveva appena terminato d’installarsi che, un mattino, un ispettore di polizia gli si presentò in casa. Quell’uomo ruppe quasi il campanello suonando. Entrò, cappello in testa, senza salutare. Si assise senza scovrirsi il capo, senza esservi invitato lasciando Don Diego in piedi. Squadrò insolentemente Bambina. Incrociò le gambe, rimuginò dello sguardo in ogni angolo e dimandò infine, parlando alto ed in tuono corrucciato:
— Sei tu Don Diego Spani?
— Sì, signore, rispose Don Diego alquanto stupefatto dei modi del messere.
— Di Lauria?
— Di Lauria.
— Arrivato a Napoli da alcuni giorni?
— Sì, signore. Ma...
— Giù ai ma! cos’è codesto ma?
— Infine, signore, a chi ho l’onore di parlare?
— Sono io che ti parlo, replicò il poliziotto. Io sono l’ispettore di polizia del quartiere.
Don Diego salutò il destino.
— E vengo ad ordinarti, continuò l’ispettore, di presentarti dal commissario signor Campobasso.
— Non mancherò, signore.
— Eh! vorrei ben vedere che tu mancassi. Hai tu ben compreso?
— A mezzodì, signore, replicò Don Diego con molta dignità.
— Quanto paghi tu qui?
— Non caro, signore.
— Lo credo bene. Chi diavolo ha scoperto questo canile?
— Ciascuno si alloggia come può.
— Tu parli come un almanacco. E quel piccolo gioiello lì è tua figlia?
— È mia sorella, signore, rispose Don Diego, facendo segno a Bambina di ritirarsi.
Bambina salutò ed uscì. L’ispettore la seguì degli occhi, poi si alzò.
— E dire che ciò viene di Calabria! sclamò desso. A mezzodì dunque.
Poi dando un ultimo colpo d’occhio alla casa ed all’uomo, partì come era entrato, senza cavare il cappello, senza salutare. Alla porta però si fermò, mise la mano in tasca, ne cavò fuori una piastra e disse a Don Diego che l’aveva pulitamente accompagnato.
— Potete voi darmi della piccola moneta di questo, per pagare il cocchiere?
Don Diego tirò innocentemente di tasca un pugno di piccola moneta in argento e rame, e la presentò all’ispettore onde prendesse il valore della sua piastra. Il poliziotto intascò la moneta di Don Diego e la sua, non disse neppur grazia, chiuse la porta con fracasso e discese le scale borbottando.
Don Diego restò come allampanato e, testa giù e passo lento, ritornò in sala.
A mezzodì meno un quarto, ei saliva la scala del commissariato del quartiere Pendino, al primo piano di una casa sudicia e scura, al fondo di un angiporto. Nella corte gironzavano alcuni di quei birri ostensibili che lo straniero incontrava nelle strade di Toledo e di Chiaja, bardati di uniforme, un coltellaccio ai fianchi. Gli sbirri reali, i veri, i più numerosi, coloro che menavano la bisogna nei quartieri cui lo straniero non visitava giammai, gli sbirri pel popolo infine, formavano quella categoria a parte chiamata i feroci. Essi vestivano un largo calzone di velluto in cotone grigio, largo, una giacchetta ed un corpetto di velluto di cotone nero, stretto alla vita da una fascia di seta rossa, un berretto di pelle di coniglio o di lontra. Questi manigoldi, che si sarebbero detti da Opera Comica, coi loro baffi neri, e le facce bestiali ed atroci, violenti, grossolani, crudeli, ai quali la vigliaccheria delle vittime dava un potere terribile, erano in realtà degli abbietti vigliacchi. Il primo venuto, — straniero ben inteso, — di un man rovescio ne faceva una pecora, malgrado le sacche piene di coltelli e di pistole e le mani armate di anella e di randelli. Questa roba guardava di un’aria truce le persone che entravano, pronta a stender la mano per dimandare una mancia senza pretesto, se colui che veniva in quella bolgia aveva un aspetto di persona comoda.
Don Diego traversò la corte ciottolata di quei ceffi sinistri. Essi si avanzarono e si scovrirono innanzi ad un signore che saliva le scale nel tempo stesso. Questo signore, vedendosi seguito da un uomo dai lineamenti imponenti e malinconici, si fermò sulla soglia e voltandosi l’interpellò.
— Di chi chiedete?
— Del signor commissario, rispose Don Diego.
— Sono io, disse l’altro. Chi siete?
— Don Diego Spani.
— Ah! fece Campobasso. Vieni
Al suo passar dall’anticamera zeppa di gente, tutti si alzarono. Campobasso tirò innanzi senza salutare e si diresse verso il suo gabinetto.
Un ispettore gli parlò a voce bassa.
— Fatela entrare, rispose il commissario.
Si assise e lasciò Don Diego in piedi in un angolo della camera.
Il commissario Campobasso era un uomo di una quarantina di anni, alto, snello, brunissimo, un po’ calvo, gli occhi neri fiammeggianti, i lineamenti pronunziati e duri, avendo mustacchi neri, labbra crudeli, naso aquilino, braccia lunghe, mani grasse ed uncinate, la voce forte, la parola breve. Portava un diamante per bottone di camicia, dei cornetti contro la jettatura per breloques. In una parola, una fisonomia petulante, piena di vita, di violenza, di passioni sensuali, prontissima alla collera. Egli era carnefice, tra i carnefici commissari di polizia in Napoli. È restato come una leggenda.
Conservò il suo cappello sul capo.
La camera era dipinta a verde. Sopra due plinti, i busti del re e della regina in gesso; un Cristo in un angolo; un cattivo canapè coperto di tela gialla e qualche sedia.
Una signora entrò. Era vivamente commossa, pallida, tremante.
— Signora! disse Campobasso lasciandola in piedi dinanzi al suo tavolo, voi avete cacciato di casa vostra una giovane serva a cui noi portiamo interesse. Andrete a riprenderla.
— Ma, signor commissario, ella mi rubava.
— Voi non la pagavate abbastanza.
— Ma, signore, ella restava fuori tutto il giorno, Dio sa dove, mi mancava di rispetto, non faceva il suo dovere, mi dava degli ordini....
— E voi, non avete i vostri difetti, voi!
— I miei pensionari se ne lamentavano.
— Ah! Ebbene, essi avevano torto, e voi avete torto. Scegliete. Domani, o la serva rientra in casa vostra, e voi la compenserete di averla licenziata, o darete congedo ai vostri locatari e non affitterete più camere.
— Ma, l’è la mia sola risorsa per vivere, signor commissario.
— È dunque indispensabile che voi viviate? Ho detto. Uscite.
La signora salutò e si ritirò a ritroso.
Gli occhi del commissario si illuminavano.
L’ispettore rientrò. Campobasso fece un segno della testa, e due minuti dopo comparvero due bei giovanotti di una ventina d’anni. Restarono, cappello in mano, nel mezzo della stanza.
— Avvicinatevi, gridò Campobasso, alzandosi.
I due studenti avanzavano. Campobasso ne prese uno per le orecchie, e gli applicò, senza dir verbo, parecchi schiaffi sul viso. Poscia prese l’altro della medesima maniera e gli regalò la stessa correzione.
— Briganti! gridò egli in seguito, perchè non siete voi andati alla congregazione domenica scorsa?
— Mio fratello era ammalato, rispose il più giovane degli studenti, ed io restai a casa per accudirlo.
— Voi mentite, urlò il commissario. Voi siete due empi e mal pensanti. Il priore della congregazione si lamenta di voi. Non confessione, distratti alla messa, poco rispetto verso monsignor Scotti.... E poi, e poi, cosa sono codeste setole che portate sulle labbra?
I due giovanotti non risposero. Campobasso li riprese per le orecchie e, scuotendoli con violenza, strappò loro come potè la neofita lanuggine delle labbra.
— Dei mustacchi dunque? dei segni di libertini? Peste e sangue! noi vedremo codesto. Don Severio!
L’ispettore chiamato comparve.
— Un barbiere, all’istante. Fate radere fino al sangue questi due galuppi e metteteli in segreta, a digiuno. Andate! soggiunse egli poi allungando un calcio alle spalle dei due disgraziati giovanotti, pallidi come due statue d’avorio.
Dopo ciò, come se nulla avesse fatto, Campobasso si fregò le mani, si riassise e disse a Don Diego: Avvicinati.
Don Diego era tutto in iscompiglio. Delle idee di tutti i colori turbinavano nel suo capo. Ciò che aveva udito e veduto lo annientava. Campobasso impiombò i suoi occhi freddi, ironici, pieni di disprezzo, crudeli, su quel sembiante decomposto e disse:
— Sei tu Don Diego Spani di Lauria?
— Sì, signor commissario.
— Interdetto da Sua Eccellenza Reverendissima monsignore di Policastro?
Don Diego abbassò gli occhi senza rispondere.
— Perchè quel santo vescovo di monsignore Laudisio ti ha desso interdetto?
— Egli non m’ha fatto l’onore di dirmelo.
— Egli! Egli! tu potresti ben dire Sua Eccellenza Reverendissima, mi pare? Infine, perchè sei tu partito da Lauria, innanzi tutto?
— Perchè non avevo più nulla a fare in quel paese, ed io ho bisogno di fare qualcosa; perchè quel soggiorno non mi era più possibile, dopo la mia disgrazia.
— Insomma, che cosa vieni a fare qui?
— Cercare un posto e del pane. Io sono pronto a tutto. Procurerò di apprendere, se mi chiede cosa che io ignori.
— Quando si sloggia, vendendo tutto ciò che si ha nel paese ove si è nato, si ha uno scopo. Quale è codesto tuo? Rispondi categoricamente.
— Vorrei darmi all’insegnamento.
— Per far ciò, occorre il nostro permesso, che noi non accordiamo, ed il permesso dell’arcivescovo e del presidente della pubblica istruzione, monsignor Apuzzo, che lo rifiutano agli empii.
— Vedrò allora di collocarmi come segretario presso di qualche persona.
— Noi l’impediremo, dando sul tuo conto dei cattivi ragguagli.
— Mi procurerò un impiego come potrò, continuò Don Diego, cominciando a turbarsi.
— Lo Stato non nudrisce i suoi nemici, li schiaccia. Noi respingiamo i carbonari.
— Potrei domandare di scrivere in un giornale, almeno?
— E quale? Non vi sono giornali qui, anzitutto. Se qualcuno ne apparisce, se qualcuno alligna, esso è nostro; e noi ci opporremo. Quali dottrine possono professare gli atei ed i demagoghi? Va poi a fregarti con Scrugli e con Ruffa — due convertiti.
— Ebbene, cercherò di trafficare di una piccola industria.
— Io non ti accordo la patente.
— Procurerò in questo caso di entrare come commesso nel commercio, come prefetto in un liceo, in un seminario....
— Noi noi permetteremmo. Lo Stato e la gente onesta vogliono in codesti posti persone fedeli e non sospette di fellonia contro la Chiesa e lo Stato.
— Ma, signor commissario, se voi mi sbarrate tutte le vie per le quali io potrei utilizzare la mia educazione, e’ non mi rimane che divenire commissionario, facchino, ed io sono abbastanza forte....
— Affatto! Ti occorre un autorizzamento che la polizia non è disposta a concederti.
— Signore, e’ non mi resta allora che morire di fame quando avrò terminate le mie ultime risorse. Infrattanto, studierò la medicina o altra cosa per espatriarmi di poi.
— Ed il passaporto? Ma hai tu insomma di che vivere qualche tempo!
— Ho di che non morire d’inedia per un anno, signore.
— Tu ti presenterai qui ogni otto giorni. Andrai alla congregazione degli studenti, a S. Domenico Soriano ogni domenica. Ti confesserai a monsignor Scotti. Noi teniamo gli occhi aperti sopra di te. Sovvientene.
Don Diego, fulminato, piegò il capo e partì. Uscita finta, come al teatro. Il commissario lo richiamò.
— Don Diego, nel vostro paese si trovano degli eccellenti formaggi, cui il prefetto gradisce molto, ed io egualmente. Fate venirne un cantaro e mandatemeli. Voi ci direte poi il prezzo.
— Io mi stimo fortunatissimo, signor commissario, di rendervi servigio, rispose l’infelice taglieggiato, ritirandosi.
Nella strada, Don Diego mancò trovarsi male. L’imagine lurida della miseria, l’imagine pura di sua sorella, s’incrociarono nel suo spirito. Egli vide queste due terribili potenze, il clero e la polizia, rizzarsi come due boa innanzi a lui, per assalirlo dovunque e’ si volgesse. E’ vide le sue facoltà, la sua forza, la sua intelligenza, stritolate, annichilite: la polizia ed il clero gli rubavano tutto ciò che Dio gli aveva prodigamente largito. Gli si lasciava unicamente il diritto di mendicare e di morire.
Rientrò in casa e non disse nulla a Bambina. Delle idee sinistre gli ottenebravano la mente. Ei non poteva neppure sbarazzarsi interamente delle sue spoglie di prete e farsi cantabanco, giocoliere: doveva restare e crepare sotto la corrosiva bardatura.
La sera Don Diego cercò il viglietto di introduzione che il capitano Taffa gli aveva dato per suo fratello, capo di ripartimento, passato pocanzi dalla polizia al culto. Quest’ultima speranza però riluceva appena. Si recò, malgrado ciò, dal barone di Sanza e gli raccontò la sua conversazione col commissario.
— Ma, già! sclamò il giovane, gli è così, ed essi han ragione. Ciascuno per sè. Ebbene gli è giustamente questa rete infame di prete e di sbirro, la quale avvinghia la società, che trattasi di tagliare. Ci pensate voi sempre?
Don Diego sorrise ed uscì.