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La biblioteca era chiusa a chiave, ed alcuno non si avvisava di toccare a quelle opere così bene legate, così bene in ordine dietro i cristalli, come dei mobili appropriati al gabinetto. Il tavolo era coperto di carte, una corrispondenza di larghi dispacci, coi grandi suggelli di cera rossa stemmati. Don Domenico era l’amico ed il confidente di due potenze: il ministro degli affari ecclesiastici, il confessore del Re. Egli provvedeva di vescovi il ministro che s’intendeva col confessore, e costui li faceva approvare da S. M., nel cui nome erano proposti alla Santa Sede.

Ciò spiega l’importanza di Don Domenico e la sorgente della sua fortuna.

Uscito il domestico, chiuse le porte, il provveditore di vescovi che aveva fatto sedere il povero prete accanto a lui, credendolo un cliente, gli dimandò con voce affatto melliflua:

— Vogliate dirmi, signore, qualche parola sulla vostra persona, e che cosa posso fare per voi, perchè mio fratello vi raccomanda a me con interesse.

Don Diego raccontò la sua storia senza nulla omettere, eccetto le sue opinioni politiche e religiose.

Don Domenico cangiò portamento.

— Riconosco ben là mons. Laudisio, diss’egli. Quel diavolo di uomo ci dà più bisogna egli solo che tutto l’episcopato del Regno preso insieme. Gli è un uomo fuori classe quello lì. Doveva essere prefetto di polizia: se n’è fatto un vescovo.

— Il vescovo non ha assorbito il prefetto di polizia, osservò Don Diego.