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Don Diego traversò la corte ciottolata di quei ceffi sinistri. Essi si avanzarono e si scovrirono innanzi ad un signore che saliva le scale nel tempo stesso. Questo signore, vedendosi seguito da un uomo dai lineamenti imponenti e malinconici, si fermò sulla soglia e voltandosi l’interpellò.

— Di chi chiedete?

— Del signor commissario, rispose Don Diego.

— Sono io, disse l’altro. Chi siete?

— Don Diego Spani.

— Ah! fece Campobasso. Vieni

Al suo passar dall’anticamera zeppa di gente, tutti si alzarono. Campobasso tirò innanzi senza salutare e si diresse verso il suo gabinetto.

Un ispettore gli parlò a voce bassa.

— Fatela entrare, rispose il commissario.

Si assise e lasciò Don Diego in piedi in un angolo della camera.

Il commissario Campobasso era un uomo di una quarantina di anni, alto, snello, brunissimo, un po’ calvo, gli occhi neri fiammeggianti, i lineamenti pronunziati e duri, avendo mustacchi neri, labbra crudeli, naso aquilino, braccia lunghe, mani grasse ed uncinate, la voce forte, la parola breve. Portava un diamante per bottone di camicia, dei cornetti contro la jettatura per breloques. In una parola, una fisonomia petulante, piena di vita, di violenza, di passioni sensuali, prontissima alla collera. Egli era carnefice, tra i carnefici commissari di polizia in Napoli. È restato come una leggenda.

Conservò il suo cappello sul capo.

La camera era dipinta a verde. Sopra due plinti,