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«Uomo pericoloso, ateo, ex-carbonaro, mazziniano, capace di tutto, uno dei capi della Giovane Italia. Da sorvegliare, da comperare se può esser utile, da neutralizzare ad ogni costo. Sa cose che bisognerebbe strappargli; o ridurlo al silenzio con tutti i mezzi.»

Il ministro conservò per lui questa santa denunzia e dette qualche istruzione al Prefetto.

L’appartamento che il barone di Sanza aveva trovato al suo conterraneo, vico Canalone, all’estremità della strada di Forcella, dava sur uno sporco e scuro chiassuolo circoscritto dalle alte mura di due conventi e di una chiesa. Il fitto non era caro; ma non si poteva immaginar nulla di più lugubre di quell’alloggio.

Don Diego occupava il primo piano, il più a buon patto ed il meno ricercato degli altri cinque appartamenti di quella casa, a causa dell’aria e della luce di cui era completamente orbato. Non essendovi portinaio, la corte apparteneva, di giorno come di notte, ai lazzaroni, ai mendicanti, ai musici ambulanti, alle prostitute, agli animali perduti, ai fanciulli scostumati: era il salone del vizio e della miseria. Un materassaio vi veniva a battere il suo crine e cardar la sua lana, perchè gli accomodava così, non curandosi punto se il rumore e la polvere incomodassero gl’inquilini. Una cagnaccia vi veniva a trafficare del suo commercio di frittura all’olio, e tanto peggio se le esalazioni appestassero gli abitanti del luogo. Un ganascione vi veniva a tosare i suoi barboni, a castrare i gatti ed i porcelli. I cialtroni di tutto il