Il Quadriregio/Libro terzo/XV
Questo testo è incompleto. |
◄ | Libro terzo - XIV | Libro quarto | ► |
CAPITOLO XV
Trattasi piú in particolare delle specie
e de’ rami discendenti della lussuria.
— Di questa brutta porca di Lussuria,
bench’abbia in sé materia copiosa,
conviene ch’io ne parli con penuria.
Da che Natura e Dio la tien nascosa,
5non puote alcun giammai senza vergogna
parlar di sí nefanda e brutta cosa.
E forse el fece Dio, perché bisogna
che l’Innocenza pura non impari
la puzza occulta di questa carogna.
10Ma ora li maggiori han fatto chiari
sí li minori e dotti anco in quell’arte,
che piú che i mastri sanno gli scolari.
Di questo vizio dirò d’ogni parte
in general, ché, se tutto distinto
15volessi dire, impirei troppe carte.
Il quarto membro (e poi dirò del quinto)
è l’atto, che fe’ Pasife col toro,
madre del mostro chiuso in Laberinto.
Nel quinto pecca ciascun di coloro,
20che, losingando ovver rapendo, tolle
la vergin ’nanti al suo marital toro.
E, perché d’esto mal ardito e folle
il futur matrimonio è impedito,
però l’antica e nova Legge volle
25che quello strupador gli anelli il dito
e facciagli la dote, o che la testa
perda, se quella nol vuol per marito.
L’altro è chi stupra, losinga o molesta
le vergin sacre del santo collegio,
30che fu giá in Roma nel tempio di Vesta.
E questo male è detto «sacrilegio»;
ché quella cosa, ch’è dicata a Dio,
s’imbrutta o sforza e trattase in dispregio.
E l’altro male ancor nefando e rio
35è con parenti, ed è chiamato «incesto»,
ché macula l’amor onesto e pio.—
Quand’io diceva:— Quanto mal è questo!—
vedemmo dalla lunga Citarea;
ond’ella andò piú ratto ed io piú presto.
40Dimonio ella mi parve e none dea,
quando la vidi, e non pareva bella
com’era, quando apparve al iusto Enea.
Di fuor adorna avea la sua gonnella;
e, quando la scoprii, sí brutta fiera
45mai vista fu sí come pareva ella.
Minerva a me:— Questa puttesca cèra
nel mondo è bella solo in apparenza,
che fa la cosa falsa parer vera.
E qui rassembra la Concupiscenza;
50e però ’l nome del pianeto piglia,
che sopra quella parte ha piú influenza.
Cupido è il primo mostro, ch’ella figlia,
il qual è fanciullesco, stolto e cieco
in quella parte, che nell’uom consiglia.
55Egli è che verso Dio fece esser bieco
giá Salamone, ed Aristotil prese
sí, che fu cavalcato come pieco.
E, benché paia saggio nel palese,
Cupido nel secreto e luoghi occolti
60è come un pazzo e fa le grandi offese.
Egli esser fa li saggi matti e stolti,
e fanciulleschi quei dell’etá vecchia
negli atti turpi, lascivi e disciolti.
Quest’è che fa che l’antica si specchia
65la faccia guizza e fa le trecce bionde
del pelo altrui, che si pone all’orecchia.
L’altro è turpe parlar parole immonde.
Ahi, quanto è ragionevol che si taccia
quel che Natura occulta e che nasconde!
70Il turpe eloquio a poco a poco caccia
da sé vergogna, il qual è primo freno,
ch’è posto all’uom che peccato non faccia.
E ’l parlar brutto e turpe ovver osceno
dimostra il core; ché quel vaso versa
75sempre il liquor, del qual è dentro pieno.
L’altra figliuola iniqua e piú perversa
è l’odio di Dio, come si legge:
tanto Lussuria fa la mente avversa!
Non che quel sommo Ben, che tutto regge,
80mai odiar si possa per se stesso;
ma odiare si pò nella sua legge.
Ad ogni vizio, che ’n mal far è messo,
sempre ogni impedimento è odioso,
ma piú alla lussuria per eccesso;
85però che l’atto suo è furioso,
e quanto piú il disio corre fervente,
tanto lo ’mpedimento è piú noioso.—
Poscia nel fango vidi una gran gente
coll’arco in mano e colle dur saette;
90e ferivansi insieme crudelmente.
E, perché scudo mai niun si mette,
né arme indosso, mai non tranno in fallo,
quantunque volte l’un l’altro saette.
Ed un gridò:— Io son Sardanapallo
95lussurioso, che nel gran reame
non vissi come re, ma come stallo,
vestito come donna tra le dame,
seguendo della carne ogni talento:
or posto son tra ’l fango e tra ’l letame.
Vivo ebbi l’arra, ed ora ho ’l pagamento;
ch’ogni peccato la pena riceve
prima nel mondo e poi qui ha ’l tormento.
Vero è che su nel mondo è ratto e brieve,
e qui ogni dolor dura in eterno
105ed anco è piú intenso e vieppiú grieve,
però che ’l mal, il qual è sempiterno,
rispetto a quella doglia, ch’è finita,
nulla ha proporzion, s’io ben discerno.
E sappi ben che su la mortal vita
110ha l’uom della lussuria molte pene,
se la ragion e vertú non l’aita.
La prima è trista e furiosa spene:
quant’è maggior l’amore, il quale aspetta,
tanto, aspettando, piú pena sostiene.
115L’altra è la gelosia sempre suspetta:
ciò, che timor possiede o gelosia,
assai tormenta piú che non diletta.
Ogni amadore ed ogni signoria
vuol esser sola ed odia ed inimica
120ogni consorte ed ogni compagnia.
L’altra è il periglio, affanno e la fatica.
Mai vil gaglioffo chiese il suo bisogno,
quanto amor chiede la cosa impudica;
e poscia, avuto, passa come un sogno
125quel ch’era chiesto con tanto fervore
e con parol, di quali ancor vergogno.
E va languendo il misero amadore,
chiedendo aiuto alli suoi gran martíri,
e dice, se non l’ha, che tosto more.
130Cogli occhi lagrimosi e con sospiri
dietro alla ’manza va il misero amante,
per grazia a lei chiedendo che lui miri.
E quel, che acquista con fatiche tante
e con le spese, ratto si dilegua
135sí come un’ombra che fugge davante.
E, perché amore i duo amanti adegua,
abbassa i grandi ed, a viltá condutti,
convien che altra colpa ne consegua;
ché si fan femminili e fansi putti,
140mostrando amore; e di questo poi nasce
la bestialitá e gli atti brutti.
E, perché Venus si notríca e pasce
di Bacco e Cerer, ch’ogni virtú enerva
e fa l’infermitá con le sue ambasce,
145il corpo infermo e la mente fa serva
e fálla oscura, e quella parte toglie,
ove si posa e risplende Minerva.
In questa mota qui tra queste troglie
stan li nefandi e vili ermafroditi,
150che, essendo maschi, altrui si fecen moglie.
E i lor mariti ancor qui son puniti
e posti meco qui tra queste mote,
e tutti siam di duri archi feriti;
ché questa è iusta pena, se ben note,
155ché quel ch’è amato dall’amor lascivo
è l’arco e la saetta, che percuote
il cor del tristo amante, quando è vivo;
e l’atto consumato è ’l brutto fango,
il qual infastidisce e viene a schivo:
160ed io qui questo in sempiterno piango.—