Il Quadriregio/Libro terzo/VII

VII. Ove trattasi del vizio dell’avarizia

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VII. Ove trattasi del vizio dell’avarizia
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CAPITOLO VII

Ove trattasi del vizio dell'avarizia.

     Io stava ancora a quel dragone attento,
a cui, mangiando, fame cresce tanto,
quanto a sei cifre crescerebbe un cento,
     quando la dea mi disse:— Or mira alquanto
5a quella lupa cruda, che ha la ’nvoglia
sí preziosa e sí adorno il manto.
     Ben converrá che, quando ella si spoglia,
la sua bruttura ed i figliol dimostri,
che parturisce sua bramosa voglia.—
     10Allor mirai e vidi cinque mostri,
quand’ella si spogliò il bel mantello,
ch’avean diversi volti e vari rostri.
     Il primo avea il viso umano e bello;
e quanto piú venía verso la coda,
15tanto era serpentino e rio e fello.
     Minerva disse a me:— Quella è la Froda,
che guastò il vero amore e vera fede,
che fa temer che l’un l’altro non proda.
     Quell’altro mostro, che dietro procede,
20che ha faccia umana e lingua tripartita
e che trascina il petto e non sta in piede,
     è quella biscia maladetta ardita,
che nacque prima del drago crudele,
che diede morte, promettendo vita.
     25Il terzo mostro, che ha in bocca il mèle
e porta nella man la spada nuda
nascosa dietro, sol perché la cele,

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è quel dimon, ch’entrò nel cor di Giuda,
quando col bascio il gran Signor tradío
30per l’appetito della lupa cruda.
     Il quarto mostro, piú malvagio e rio,
è quel che ’l secol d’oro e l’etá lieta
conturbò prima con dir «tuo» e «mio».
     E ’l coltel sanguinoso e la moneta
35vedi che porta, ed è pien di veneno,
fiero e rapace senza nulla pietá.—
     Poi tanti mostri parturío del seno
e tanto brutti la bramosa lupa,
ch’a numerargli ognun ne verría meno.
     40— Ella è nel ventre tanto grande e cupa
— disse Minerva,— e mena a tanti lacci,
ch’ogni intelletto grande e legge occúpa.
     Perché nel fundamento ben lo sacci,
attendi ch’avarizia è voglia accesa
45di conservar o ch’acquistar procacci.
     Se ad acquistar questa voglia fa impresa,
sta in faticosa cura e sempre in moto
e sempre al pasto con la mente attesa;
     ché sempremai ’l voler, quand’è rimoto
50da quel ch’egli desia, si move e corre,
insin ch’è pien, se gli par esser vòto.
     E, perch’empier non puossi e fame tôrre
giammai l’avaro e bramoso appetito,
salvo al desio non voglia termin porre,
     55per questo avvien che quanto piú è ito
oltra, acquistando, tanto s’affatica:
però tal cura cresce in infinito.
     E quanto vien piú verso l’etá antica,
tanto piú cresce e per amor del pasto
60ogni altro amor disprezza ed inimica.
     Quinci escon i gran mal, che ’l mondo han guasto;
ché, quando questa brama non s’affrena,
sforzando, ruba altrui con onte ed asto

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     Questa è che al furto ed alle forche mena
65e fa l’usura e barattier ricetta;
questa è d’inganni e di menzogne piena.
     Questa fa che ’l figliol la morte aspetta
del vivo padre, e, per esser ereda,
spesse fiate a lui la morte affretta.
     70Questa è che assassina, uccide e preda,
dispregia Dio, all’uom è traditrice,
e meretrica ed in molt’atti è feda.
     Questa è ’l mal seme e questa è la radice
d’ogni altro mal; ché di lei uscir puote
75ogni altro vizio, sí come si dice.
     L’altra avarizia ancor, se tu ben note,
è voglia accesa a conservare in arca;
e questa fa cadere in molte mote.
     Questa è troppo tenace e troppo parca;
80ed è senza piatá e non sobviene,
se il bisognoso chiede o si rammarca.
     Deh, dimmi, avar, che giovan l’arche piene,
se l’Avarizia sí ti tien la mano,
che a te, né ad altri non ne puoi far bene?
     85E forse lasserai erede estrano,
che non vorresti, e forse sará alcuno,
che dir potrai:— Ho conservato invano.—
     Or non sai tu ch’ogni ben è comuno
nel gran bisogno e che nell’ampia mensa
90parte ci ha ’l nudo povero e digiuno?
     Ma ciò ch’avanza o che mal si dispensa,
il bisognoso può dir che gli è tolto
e la indigenza iniustamente offensa.—
     Quando tutto il processo ebbi raccolto,
95i’ dissi a lei:— Non ho bene compreso
un detto, che ’l pensier mi grava molto.
     Tu di’ che la Menzogna, s’io l’ho inteso,
è figlia della lupa iniqua e ria,
che dopo il pasto ha piú ’l disio acceso.

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     Or come è questo, dacché nacque in pria
del petto invidioso del serpente,
ch’è menzonaio e padre di bugia?—
     Ed ella a me:— Non è inconveniente
ch’un atto rio di piú radici nasca,
105com’io ti mostrerò apertamente.
     Tu sai che fura alcun, perché si pasca;
ed alcun fura per la voglia sola,
che ha d’esser ricco, e per mettere in tasca.
     Tu vedi ben che l’uno e l’altro imbola,
110ed un di questi da avarizia è mosso,
e l’altro el move il vizio della gola.
     Perché tal dubbio sia da te rimosso,
dirò dove virtú e ’l mal si fonda;
e chiaro tel dirò quantunque posso.
     115Non vien dal fior, né anco dalla fronda,
s’egli è amaro e vizioso il frutto,
ma da la raica e ’l ramo, onde seconda.
     E cosí l’atto, s’egli è bello o brutto;
e, s’egli ha ’n sé bontá ovver malizia,
120vien dalla volontá, ond’è produtto;
     ché ’l voler, intendendo, el fine inizia
e sa ’l perché e ’l modo, e l’ordin guida;
ed ella fa il fin buono ed anche ’l vizia.
     Onde, se alcun per bene un uomo uccida,
125servando l’ordin iusto, cotal atto
non faría lui colpevole omicida.
     Il tempo è poco: omai andiam piú ratto.—
Ond’io mi mossi; e forse eravamo iti
quant’un grosso balestro avesse tratto,
     130ch’io risguardai agli oppositi liti
e vidi il mostro opposito e distante
a la lupa rapace e suo’ appetiti.
     Le mani avea forate tutte quante,
i piedi avea di gallo e la gran cresta,
135e d’uomo il volto e tutto altro sembiante.

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     Genti eran seco, che facean gran festa;
ed egli stava in mezzo grasso e croio;
poi si spogliò e donò a lor la vesta.
     Poi, poco stando, ed ei prese un rasoio
140e scorticossi, e poi le ven si punse;
e donò a quelle genti il proprio cuoio
     e poscia il sangue, che da sé desmunse.
Alfin e’ diventò come Eco trista,
ch’ancor risponde e d’amor si consunse.
     145La dea a me:— L’immago, che hai vista,
del prodigo è, c’ha suoi atti contrari
a quella lupa, che bramando acquista.
     Egli non cura robba, né denari;
dissipa e fonde e li suoi ben ruina.
150Quest’altra aduna e tien con modi avari.
     Il liberal per mezzo a lor cammina:
cosí ogni virtú giammai non erra,
s’ella alle parti estreme non declina.
     Da un lato l’avaro a lei fa guerra,
155amando troppo l’oro e per eccesso;
dall’altro quel che mai la borsa serra:
     ché la pecunia e l’altro ben, concesso
all’uso umano, egli ama tanto poco,
che non mira ond’è e quanto e come spesso:
     160però oppositi stanno in questo loco.—