Il Quadriregio/Libro terzo/IV

IV. Ove trattasi del vizio dell’invidia e della sua natura

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
IV. Ove trattasi del vizio dell’invidia e della sua natura
Libro terzo - III Libro terzo - V
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CAPITOLO IV

Ove trattasi del vizio dell'invidia e della sua natura.

          Condutti avea giá Febo li cavalli
alla pastura sotto l’Oceáno
e giá mostrava i crin vermigli e gialli,
     quando Palla mi die’ lo scudo in mano,
5dicendo:— Questo la notte fa luce
e ’l corpo opaco fa parer diafáno.—
     Poi l’altra piaggia salse la mia duce;
e lí trovai una gran porta aperta,
che al vizio dell’Invidia ci conduce.
     10Forse tre miglia avea salita l’erta,
quando la vidi star nella sua corte
inordinata, confusa e diserta.
     Era giganta e con le guance smorte,
con molte lingue ed ognuna puntuta,
15e suoi capelli eran di serpi attorte.
     Non fu saetta mai cotanto acuta,
quant’ella in ogni lingua avea un coltello;
e tossico parea quel ch’ella sputa.
     Duo ner diavoli avea dentro al cervello;
20e, benché ’l corpo e ’l capo avesse opaco,
col bello scudo io vedea dentro ad ello.
     Nel core un vermicello e piú giú un draco
vidi, ch’aveva dentro alle ’ntestina,
e avea la coda aguzza piú ch’un aco.
     25La pelle umana avea e serpentina,
unita una con l’altra e inseme mista,
e di cigno li piè, con che cammina.

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     Sempre pallida sta e sempre trista;
ma, quando vede il male over che l’ode,
30alquanto ride e rallegra la vista.
     Di vipera è la carne ch’ella rode;
e ben è ver che mangia carne umana;
ma solo quando pute, gli fa prode.
     Però la carne, ch’è pulita e sana,
35prima la imbrutta, corrompe e disquarcia,
e, quando pute, nel ventre la ’ntana.
     E come mosca è avida alla marcia,
cosí è ella ghiotta di bruttura:
di questo il ventre e la bocca rinfarcia.
     40Quando a sí brutta cosa io ponea cura,
gli uscí un dimon di bocca quatto quatto
e tra le genti andò come chi fura.
     E del venen, che di lei avea tratto,
mise all’orecchie a quelli e parol disse;
45e poi, ov’era pria, ritornò ratto.
     Parve che quel venen al cor corrisse;
come licor che per condotto vada,
mi parve che alle man poi riuscisse.
     Nel core un drago, ed in man si fe’ spada
50puntuta quant’un ago e sí tagliente,
quanto rasoio suttilmente rada.
     Il drago, che nel cor occultamente
era rinchiuso, le man furiose
fece ad ognun de tutta quella gente.
     55Io vidi poi molt’anime ulcerose,
piene di schianze siccome il mendíco,
che alla porta del ricco invan si pose.
     In questo uscí, ’n men tempo ch’io non dico,
l’altro diavolo come un traditore,
60che nuocer vuole, mostrandosi amico.
     Trasse l’Invidia allor tre lingue fòre
sí lunghe, che un’asta all’altra posta,
al mio parer, non sarebbe maggiore.

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     Ed alla gente, che gli stava a costa,
65mostrava quelle schianze ovver la rogna,
con tre gran lingue scoprendo ogni crosta.
     E, come fa il ghiotton che si vergogna,
che mira qua e lá, perché suspetta
ch’altri a sua ghiottonia mente non pogna;
     70cosí facea la belva maladetta,
che ritirò le tre lingue nefande,
quando quel che percote se n’addetta.
     Oh, detestanda bocca, a cui vivande
son maculare il bene e farlo poco,
75e palesare il male e farlo grande!
     Poi vidi con tempesta e con gran foco
uscir di fuor di lei il gran dragone
ed assalir la gente di quel loco.
     E, come in Colco fece giá Iasone,
80cosí un dimonio a lui li denti trasse,
grandi e puntuti quanto uno spuntone.
     E ’n terra arò, perché li seminasse.
Nacqueno allor del maladetto seme,
come che pianta a poco a poco fasse,
     85uomini armati ed uccisersi inseme;
e tanto sangue fu in quel loco sparto,
ch’ancor, pensando, la mia mente teme.
     Allora il verme, ch’era il mostro quarto,
gli rose il core, ond’ella si ritorse
90come la donna, quando è presso al parto.
     E, poiché dentro al petto egli a lei morse,
diventò grande e fessi un basalisco,
e sú sin alla bocca li trascorse.
     Ancor dentro nel cor ne contremisco,
95pensando ch’egli uccide chiunque sguarda:
però vedi, lettor, s’io stetti a risco.
     Non fe’ sí gran tempesta mai bombarda,
quanto fec’egli, quando fuor uscío,
venendo a me con la crista gagliarda.

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     100Ma, quando vide sé in lo scudo mio,
perché lo sguardo suo è che uccide,
lí si specchiò e subito morío.
     Quando l’Invidia morto il figliol vide,
le man si morse con sospiri e pianto,
105con gran singolti, voci ed alte gride.
     Allor inver’ di lei mi feci alquanto,
dicendo:— O brutta e maladetta fèra,
o crudeltá, che ’l mondo guasti tanto,
     nel bel giardin di sempre primavera
110tu da primaio insidiosa intrasti
con falsitá e con bugiarda céra;
     i primi nostri, vergognosi e casti,
servi facesti di concupiscenza;
e i gran doni di Dio però fûr guasti.
     115Non ti ritenne poi l’alta innocenza
del iusto Abel, ch’era il primaio buono,
nato nel mondo d’umana semenza.
     Né che ’n quel punto egli facea il dono
d’offerta a Dio: allora piú feroce
120tu l’uccidesti senza alcun perdono;
     per che gridoe la terra ad alta voce
per lo sangue innocente; e cosí fece
per l’altro, il qual tu occidesti in croce.
     Le man fraterne armasti nella nece
125del bel Iosef, ed a ciò consentire
facesti i suoi fratelli tutti e diece.
     Non avesti piatá del gran martíre
dell’etá puerile e del lamento
del vecchio padre, che volea morire,
     130quando del figlio vide il vestimento
tinto di sangue; e tu, o fèra cruda,
stavi ridente e col volto contento.
     Ahi, belva trista e d’ogni piatá nuda!
A te Pilato, sol per saziarte,
135dimostrò il Re giá tradito da Iuda,

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     tinto di sangue e con le vene sparte.
Per recarti a piatá, disse:— Ecco l’Uomo
fragellato nel corpo e in ogni parte.—
     Ma tu, crudele, allora festi como
140cane alla preda, che l’ira il trafigge,
o come l’orso, quando vede il pomo;
     ché allor gridasti:— Tolle, crucifigge;—
e niente ti mosse, o dispiatata,
in tanta maiestá l’umile effigge.
     145Superbia è la tua madre, onde se’ nata;
e ’l timor vile è quel che ti notríca,
ed anco è ’l padre, dal qual se’ creata.
     Però d’ogni virtú tu se’ nemica,
mentre vuoi esser tu la piú eccellente
150e che di te meglio d’altri si dica.
     Odio tu porti a quel ch’è piú splendente,
s’e’ tua virtú ecclissa o falla meno
come il lume maggior il men lucente.
     Allor nel core ti nasce il veneno
155inver’ di quello, e cerchi che s’estingua
quello splendor ch’è piú del tuo sereno.
     E col rancor del core e colla lingua
giammai non posi e colli denti stracci
la carne umana marcia che t’impingua,
     160insidiando con occulti lacci.—