V. Di tre spezie d’invidia e di Cerbero, dal quale l’autore fu assalito

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
V. Di tre spezie d’invidia e di Cerbero, dal quale l’autore fu assalito
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CAPITOLO V

Di tre spezie d'Invidia e di Cerbero, dal quale l'autore fu assalito.

     Mentr’io dicea, ed ella strignea i denti
irata verso me ed era morsa
da’ suoi capelli, ch’erano serpenti.
     E giá Minerva avea la via trascorsa,
5al mio parer, un gittar di balestro,
ond’io per giunger lei mi mossi a corsa.
     Però partimmi e pel cammin alpestro
sí ratto andai, ch’io fui appresso a lei
come scolar che va dietro al maestro.
     10Ed ella a me:— Li figli, che li piei
seguitan d’esta belva e ’l suo calcagno,
se vuoi sapere, or nota i detti miei.
     Sappi che, quando alcun, sol per guadagno
o altro bene, d’invidia s’accende
15contra il vicino artista ovver compagno,
     questo ha alcuna scusa, s’egli offende;
ché sempre alla cagion, che ’l bene scema,
alcuna invidia ovver rancor si stende.
     Ma, se la volontá la gran postema
20ha dell’invidia senza essere lesa,
e senza pro e senza alcuna téma,
     cotale invidia non può aver difesa;
ché sol malizia ha quel rancor commosso
senza esser adontata ovver offesa:
     25sí come il can che non può roder l’osso,
che, quando vede ch’altro cane il rode,
con impeto, abbaiando, gli va addosso.

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     E questo non fa ei che gli sia prode;
ma sol malizia el fa esser nemico,
30talché si duol di quel ch’altri si gode.
     Cotal invidia il vizioso antico,
sí come è scritto, alli giovani porta,
in quel che senza posa egli è inico.
     La terza invidia, che chiude ogni porta
35della piatá nell’uomo e che è segno
ch’ogni luce mentale in lui sia morta,
     è quella c’ha il cor tanto malegno,
che del dono, che dá Dio ovver natura,
concepisce odio ed anche n’ha disdegno
     40ché, quando è bona alcuna creatura
e pò far pro ed offesa non reca,
nulla scusa ha colui che gli ha rancura.
     Dunque sola malizia è che l’acceca
e move a invidia; e tal colpa di rado
45riceve grazia della sua botteca.—
     Cosí Minerva a me di grado in grado
li membri dell’invidia mi descrisse
e quel ch’è piú difforme dal men lado.
     E piú detto averebbe; ma s’affisse,
50perché trovammo in terra una catena
maggior che da Vulcan giammai uscisse;
     la qual era sí grande, che appena
l’averebbon portata due cameli,
se l’avesseno avuta in su la schiena.
     55— Cerbero, che ha a serpenti tutti i peli
— disse a me Palla,— d’esta fu legato
nelle tre gole, c’ha tanto crudeli,
     quand’egli dal fort’Ercol fu menato
nel mondo su, come menar si sòle
60un fero toro a forza e suo mal grato.
     Giunto che fu presso ove luce il sole,
perché negli occhi il raggio gli percosse,
forte latrò con tutte e tre le gole.

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     E con tal forza addietro ingiú si mosse,
65che avería tratto seco il forte Alcide
inver’ l’inferno, credo, se non fosse
     ch’egli sguardò le braccia ardite e fide
del buon Teseo, ed egli li sobvenne,
quando alla ’ngiú cosí calar lo vide.
     70Cerber, tirato, su nel mondo venne,
forte latrando con tutti e tre i musi,
perché la mazza d’Ercole sostenne.
     Poi che fu su, tenne gli occhi suoi chiusi
ché sempre il raggio lucido è noioso
75agli occhi infermi ed alle tenebre usi.
     Quando morí il grand’Ercol virtuoso,
ché la camicia la vita li tolse,
tinta del sangue che era venenoso,
     quel can malvagio allora si disciolse,
80ché colli denti esta catena rose;
e libero fuggí dovunque vòlse.
     L’Invidia allor quiritta questa pose
in questo loco, ch’a lei è subietto;
ed halla qui tra l’altre infernal cose.—
     85Minerva appena a me questo avea detto,
ch’io cominciai udire il trino abbaio
di Cerber, cane orrendo e maladetto.
     E come un gran rumor, che da primaio
confuso pare e, quanto s’avvicina,
90tanto egli par piú vero ed anco maio,
     cosí facea del can la gran ruina.
E po’ el vidi venir con tre gran bocche,
correndo giú per quella piaggia china.
     — Guarda— disse la dea,— che non ti tocche;
95ché, s’e’ la bava addosso altrui attacca,
mestier non è che mai piú cibo imbocche.—
     Le fiere gole, con che ’l cibo insacca,
quando latrava, parean tre gran tane,
vermiglie come sangue e come lacca.

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     Minerva avea il mele ed avea il pane;
e fenne un misto ed al mostro gittollo:
allor tacette quel rabbioso cane
     e, per piú averne, ratto stese il collo
e ventiloe la coda ed alzò ’l mento
105come il mastin, quando non è satollo.
     Mentr’egli, per piú averne, stava attento,
la dea accennò ch’io prendessi la via;
ond’io quatto su andai a passo lento.
     Quando Cerber s’avvide ch’io fuggía,
110mi risguardò e poi scosse la testa
e con tre gole borbottò in pria.
     Poscia corse ver’ me con gran tempesta,
come alla preda affamato lione,
quando adirato sta nella foresta.
     115— Fa’, fa’ che ratto a lui lo scudo oppone
— gridò Minerva,— se non vuoi morire,
ov’è scolpito l’orribil Gorgone.—
     Il gran periglio dá maggior ardire,
se non dispera; ed io lo scudo opposi,
120quando su contra me il vidi venire.
     Egli lo morse coi denti rabbiosi;
poi li ritrasse a sé, perché s’avvide
che al cristallo non eran noiosi.
     Allor gridai:— O Palla, che mi guide,
125perché tu a questa volta m’hai lasciato?
perché tu a me medesmo sol mi fide?—
     Per questo corse e posemise a lato,
dicendo a me:— Perché ’l timor t’assale,
da che natura ed io t’abbiamo armato?
     130Per questa piaggia, per la qual tu sale,
se tu non lassi l’arme da te stesso,
nulla nuocerti può over far male.—
     Quando questo dicea, ed ivi appresso
in terra vidi guasto un corpo umano,
135mezzo corroso e con lo petto fesso.

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     Ed era senza piedi e senza mano
sí come un corpo ch’a’ lupi rimagna,
e brutto e lacerato a brano a brano.
     Di simil corpi, lí ’n quella campagna,
140cosí disfatti, n’era un grand’acervo,
il qual mi demostrò la mia compagna.
     Quel primo, ch’io trovai, disse:— Io fui servo
giá d’Atteon e fui ’l primo che ’l morsi,
quando mi parve trasmutato in cervo.
     145Ma poi, quando fui qui, ed io m’accorsi
ch’io fui il cane e ch’egli era uomo vero;
ma per la ’nvidia l’intelletto torsi.
     E noi, che stiamo in questo cimitero,
siam cosí rosi, ché rodemmo altrui
150con lingua e fatti e dentro nel pensiero.
     Quel grande invidioso è qui tra nui,
che volle a sé che un occhio si traesse,
perché al compagno sen traesson dui:
     ed anco ha doglia, quando ’l ben vedesse.—