Il Quadriregio/Libro secondo/XII
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CAPITOLO XII
Dove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona il timore.
Dietro a Minerva cento passi o quasi
su salsi un monte e pervenni alla cima
a veder quei che temon tutti i casi.
Lí era un piano, e, quando mirai prima,
5vidi una strada insino all’altra sponda
lunga due miglia, quanto alla mia stima,
ch’era diamètro nella valle tonda:
quivi saper può bene il geomètra
quanto quel piano intorno a sé circonda.
10Ne’ semicerchi della valle tetra
anime vidi di fuor della strada,
la qual lastreco avea di nera pietra.
Ed ognuna dell’alme in alto bada
un grande sasso, che cader minaccia
15tanto, che par che tosto in capo cada.
Per questo alzata insú tengon la faccia,
temendo che non cada con ruina
il sasso a lor in testa e che gli sfaccia.
Ahi, quanto punge del timor la spina!
20e quanto affligge il core il mal futuro,
che l’uomo aspetta e quasi lo indovina!
Pensa, lettor, se stessi sotto un muro,
che fosse per cadere, o sotto un tetto,
e se ’l dovervi stare fosse duro!
25Pensa se avessi un uom incontra ’l petto
coll’arco teso e fuggir non potessi,
ed ei dicesse:— Tosto ti saetto!—
Cosí han questi, di paura oppressi,
gli archi di contra e però stan tremanti
30che sassi e dardi non percuota ad essi.
Per dar lor piú timor, al volto innanti
discorrono i Mal sogni e ’l Mal presaggio,
l’upupa, il gufo e ’l corvo con lor canti.
Su per la strada era il nostro viaggio,
35e trovai Fleias ch’era qui il primaio
del gran timor con pallido visaggio.
— O Fleias,— dissi io,— che a tanto guaio
se’ posto qui e tremi vieppiú forte
che ’l vecchio can nel freddo di gennaio,
40Apollo ha posto te a cotal sorte
per tua superbia e di te fa vendetta,
che ’n sempiterno questo tremor porte.
Assai è minor pena a chi suspetta
solo in un punto ricever il duolo,
45che sempre temer l’arco e la saetta;
ché ’l timor seco mena grande stuolo
d’assalitori, ed ognuno il cor punge:
adunque è meglio aver un colpo solo.
Per darti piú timore ancor s’aggiunge
50all’arco il sasso, e temi che non caggia
e non ti fiacchi il capo, quando giunge.
— Nel mondo, ove tu sal’ di piaggia in piaggia
— rispose,— proverai simil doglienza,
se vi pervieni colla scorta saggia.
55Lí vederai tu il don di provvidenza
farsi una lima che se stessa rode,
di mille casi avversi c’ha ’n temenza.
E vedrai le ricchezze non far prode:
tanto di povertá il timore affligge,
60che ’l possessor di lor lieto non gode.
Che giova all’uom la vita, se l’effigge
dell’orribile morte ognor l’accora
e sempre di paura lo trafigge?
L’affaticato cibo, che ristora,
65mentre si mangia, infermitá e sospiri
menaccia al proprio corpo, che ’l divora.
Se suso inverso il ciel ancor tu miri,
menaccia a te il Giudice di sopra,
se gli fai cosa, per la qual s’adiri.
70La terra, che convien che ancora il copra,
e giú l’interno ancor gli fa paura,
sí come punitor di sua mal’opra.
Se a destro ed a sinistro si pon cura,
vede che ogni vizio quivi offende,
75e teme a’ suoi coniunti ogni sciagura.—
Ahi quanto di vergogna il viso accende,
quando alcun riprendente è poi ripreso
di quel medesmo, del qual e’ riprende!
Cosí io feci, quando l’ebbi inteso;
80e però dissi:— Prego mi perdoni,
se, Fleias, col mio dir t’avessi offeso.
— O tu, ch’andi la strada e che ragioni
e dietro a dea Minerva movi i passi,
vedendo d’esto inferno le magioni:
85— cosí gridò un de’ miseri lassi
e poi subiunse:— io prego che tu torche
verso me il viso, innanti che tu passi.—
Io mi voltai e vidi un su le forche
col capo chino tanto, che le guancia
90a lui toccava quasi una dell’orche.
— Morte e paura io posi in la bilancia
— subiunse,— e poi la morte col capestro
elessi a me per men pungente lancia.
Troppo temendo in me il caso sinestro,
95me stesso uccisi: io son Architofelle,
che fui nel consigliar sí gran maestro.
Meco sta qui Saúl, re d’Israelle,
e quei roman, che sol timor gli strinse
e non vertú a spogliarsi la pelle.—
100Alquanto inver’ di lui li passi pinse
sol per parlarli; ma la dea non volle
ch’io parlassi a colui, che sé estinse;
ché, se fortuna il ben temporal tolle,
non lieva però mai d’alcun la spene,
105s’egli da se medesmo non è folle.
— Tu vederai, se tu ammiri bene,
non tremar nullo, ch’abbia sé ucciso:
risguarda, ed io dirò onde ciò viene.—
Però io riguardai con l’occhio fiso;
110poi, vòlto a lei, diss’io:— Perché non trema
qualunque dalla vita ha sé diviso?—
Ed ella a me:— Quando la spen si scema
tanto in alcun, che niente rimane,
colui non ha amor, né anco téma;
115ché le paure e l’allegrezze umane
procedon da speranza e dall’amore,
che porta l’uomo a vostre cose vane.
Però, se tutto, amor e spene, more,
mor la letizia, che da lor procede,
120e la paura, e sol ha poi il dolore.
Il qual il disperato fuggir crede,
fuggendo sé, e uccide allor se stesso
con crudeltá, credendo far mercede.
E, se speranza non avesse appresso
125il fren d’alcun timor, cresceria tanto,
che faria stolto per lo troppo eccesso.
Cosí il timor, se seco non ha accanto
dolcezza di speranza, tanto teme
e tanto vien in doglia ed in gran pianto,
130che nol sostiene e sé di morte oppreme;
ch’ogni timor all’uomo è sí a noia,
che piú tosto vuol morte che lui inseme.
Nulla allegrezza e nulla cara gioia
è tanto dolce, che rispetto a quella
135non sia piú amaro all’uom temer che moia.
E tu sai ben che l’Etica favella
che ’l timor troppo nullo portar puote:
tanto la mente e l’animo flagella.
E da qui il timor van, se tu ben note,
140in mille modi il suo balestro scocca
nel mondo all’uom e l’animo percuote;
tanto che giá come presente tocca
quel che non è e forse fia niente,
e giá piangere fa la mente sciocca.
145Se a questo e a quel ch’io dissi ben pon’ mente,
nulla pena è maggior che star in forse
di quel che spiace e che pò far dolente.
Ognun ch’al van timor ben si soccorse,
spregia la morte e sol teme il Monarca,
150che ’l tempo breve e la vita ne porse:
cosí senza timor secur si varca.—