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capitolo xii 155

     L’affaticato cibo, che ristora,
65mentre si mangia, infermitá e sospiri
menaccia al proprio corpo, che ’l divora.
     Se suso inverso il ciel ancor tu miri,
menaccia a te il Giudice di sopra,
se gli fai cosa, per la qual s’adiri.
     70La terra, che convien che ancora il copra,
e giú l’interno ancor gli fa paura,
sí come punitor di sua mal’opra.
     Se a destro ed a sinistro si pon cura,
vede che ogni vizio quivi offende,
75e teme a’ suoi coniunti ogni sciagura.—
     Ahi quanto di vergogna il viso accende,
quando alcun riprendente è poi ripreso
di quel medesmo, del qual e’ riprende!
     Cosí io feci, quando l’ebbi inteso;
80e però dissi:— Prego mi perdoni,
se, Fleias, col mio dir t’avessi offeso.
     — O tu, ch’andi la strada e che ragioni
e dietro a dea Minerva movi i passi,
vedendo d’esto inferno le magioni:
     85— cosí gridò un de’ miseri lassi
e poi subiunse:— io prego che tu torche
verso me il viso, innanti che tu passi.—
     Io mi voltai e vidi un su le forche
col capo chino tanto, che le guancia
90a lui toccava quasi una dell’orche.
     — Morte e paura io posi in la bilancia
— subiunse,— e poi la morte col capestro
elessi a me per men pungente lancia.
     Troppo temendo in me il caso sinestro,
95me stesso uccisi: io son Architofelle,
che fui nel consigliar sí gran maestro.
     Meco sta qui Saúl, re d’Israelle,
e quei roman, che sol timor gli strinse
e non vertú a spogliarsi la pelle.—