Il Quadriregio/Libro quarto/XXII

XXII. La Caritá mena l’autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
XXII. La Caritá mena l’autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne
Libro quarto - XXI Nota
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CAPITOLO XXII

La Caritá mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne.

     Il grato e bel parlar, ch’ella facea,
mi fu interrotto da dolci armonie
d’un canto d’angel dentro una corea.
     Per questo ad alto alzai le luci mie,
5mosso dal cantar dolce e sí giocondo,
che mai in terra simile s’udíe.
     Veder mi parve allora un miglior mondo
e tanto bello, che questo, a rispetto,
è una stalla ed un porcile immondo;
     10ché questo è brutto, e quel polito e netto:
lassú son le cagion, qui son gli effetti:
quel signoreggia, e questo qui è subietto.
     Quando tra canti e tra tanti diletti
trovarmi vidi ed essermi concesso
15di vedere tanti angel benedetti,
     venne la mente mia quasi in eccesso
pel iubilo soave e tanti balli
di miglia’ d’angel, ch’io mi vidi appresso.
     — Fa’, fa’ che tosto le ginocchia avvalli
20— disse la scorta mia,— e riverente
va’, come a suo signor vanno i vassalli.—
     Allor m’avvidi e non tardai niente;
e, quando appresso fui, m’inginocchiai
prostrato in terra tutto umilemente.
     25Un angel bello, ch’era de’ primai,
mi die’ la mano, e, quando mosse il riso,
di luce sparse intorno mille rai.
     — Noi siam qui posti, e sempre in paradiso
vediamo Dio; e lí la nostra vista
30sempre contempla il suo eternal viso.

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     Per volontá del nostro primo Artista
agli uomini del mondo siam custodi,
che ancor combatton nella vita trista
     contra il prince mundan, che ’n mille modi
35lor dá battaglia, el drago Satanasso
con suoi satelli e con sue false frodi.
     Da noi è retto ciò che sta giú abbasso:
ciò, che consiglia il senno di Parnaso,
se noi vogliam, s’adempie o viene in casso;
     40ché ciò, che è laggiú fortuna o caso,
vien di quassú da quel primo consiglio,
che mai ebbe orto, né avrá occaso.
     E, se in terra, ch’è un granel di miglio
rispetto al ciel, son sí le cose belle,
45talché fan lieto il core ed anco il ciglio,
     che debbe esser quassú, onde son quelle?
Qui son gran regni e spiriti divoti,
rettor di questi cieli e delle stelle.
     Non fece Dio li lochi ad esser vòti,
50ma per empirli; ed adornò ciascuno,
ratto che gli ebbe fatti, se ben noti.
     Sub terra pose il fratel di Neptuno
e li metalli e l’anime nel duolo
tra lochi sulfurigni e l’aer bruno,
     55e gli animali nel terrestre suolo
e l’erbe e i frutti, acciocché nutricare
possa la madre terra ogni figliolo.
     E fece l’acque ed adunolle in mare,
e poscia l’adornò di vario pesce,
60che va notando tra quell’acque chiare.
     E fece Dio che ogni fiume n’esce,
ed anco v’entran tutti i fiumicelli;
né però manca il mar giammai, né cresce.
     E su nell’aer pose i belli uccelli,
65e, dove fa la grandine, in quel loco
parte di que’ che funno a Dio ribelli.

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     Nel quarto regno, elemento del foco,
fe’ il purgatoro, dove li fedeli
ristorano il pentir, il qual fu poco.
     70Fe’ dieci regni poi tra questi cieli
e gl’ordini degli angel quassú pose,
pien di fervore e d’amorosi zeli.
     E l’universo in tal modo dispose,
che, quanto piú si sale inver’ l’altura,
75piú grandi e piú perfette son le cose.
     Tra gli elementi il foco ha men mistura;
tra i cieli quei c’han maggiori contegni
insino al primo, il qual è forma pura.
     Di sopra a noi sono amplissimi regni
80di Troni e Principati e di Cherúbi;
e, quanto stan piú su, piú sonno degni.
     Tu li vedrai, se tanto alla ’nsú subi;
ed ogni regno n’ha mille migliaia,
ed hanno il paradiso in ciascun ubi.—
     85E poscia tutta quella turba gaia
ricominciôn lor canti e lor tripudi
con splendore, che ’l sol par ch’ognun paia.
     O uomini mundan, mortali e rudi,
perché tardate su al ciel venire
90per la via aspra e dolce di vertudi?
     La scorta mia a me cominciò a dire:
— Se altro vuoi veder qui, presto mira,
ché omai debbiamo ad altro ciel salire.—
     Allor mirai e vidi come gira
95la figlia di Latona il Zodiáco
e come giú sopra gli umori spira,
     e, come quando è ’n coda o in co’ del draco,
che per la terra il suo fratel non sguarda,
il lume suo si oscura e fassi opaco.
     100Vidi quando è veloce e quando tarda,
e come a poco a poco si raccende,
e come per vapor par pur ch’ell’arda.

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     Poscia al secondo ciel, che piú risplende,
dall’amorosa scorta io fui condotto;
105e questo l’altro circonda e comprende.
     Lí sta Mercurio, e l’animo fa dotto
nell’eloquenza ed anco signoreggia
sopra agli attivi nel mondo di sotto.
     E, perché l’epiciclo suo attorneggia
110il volto al Sole, il suo lume minore
fa Febo che nel mondo non si veggia;
     ché sempre mai la luce e lo splendore
convien ch’offuschi, manchi e che s’appochi
alla presenza del lume maggiore.
     115Angeli e santi io vidi in mille lochi
giranti su e giú ed ire a danza,
con canti dolci ed amorosi invochi:
     canto, che tanto quel di quaggiú avanza,
che, poi che io torna’ al mondo diserto,
120ogni dolce armonia m’è dissonanza.
     E, perché ben ridir non posso aperto
quello ch’io vidi, vuol però la musa
ch’io ponga fine al mio parlar coperto.
     Il suo comando a me fará la scusa,
125e che nel mondo il ben non è inteso,
dove la ’nvidia la vertude accusa.
     Dacché san Paulo, quando fu disceso
dal terzo ciel dell’amorosa stella,
di quell’arcano, il qual avea compreso,
     130a’ mortali non disse altra novella,
se non:— Io fui e vidi ed io udii
cosa, che di quaggiú non si favella;—
     chi dir potrebbe degli angeli pii
e della venustá, che ’n lor si spande,
135che, a rispetto dell’uom, paiono dii?
     O palazzo di Dio, tanto se’ grande,
che mille miglia e piú ’l Zenitte muta,
quando avvien ch’un quaggiú un sol passo ande.

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     E, poscia che ogni sfera ebbi veduta
140e l’anime salvate e i Serafini,
de’ quai narrare appien la lingua è muta,
     tra le lor vaghe rime e soavi ini,
tra l’allegrezze e modulosi canti,
tra dolci suoni e piú vari tintíni,
     145la scorta mia mi fe’ salir sí avanti,
che io pervenni a quel supremo regno,
ove piú splende Dio e li suoi santi.
     — O sommo Ben— diss’io,— a cui io vegno,
benché sia verme e vilissima polve,
150non mi scacciare e non mi aver a sdegno.
     Risguarda al peccator, ch’a te si volve;
e, s’è rimaso in lui anco alcun rio,
sola la tua piatá è che l’absolve.—
     Quando questo ebbi detto, io vidi Dio
155e chiar conobbi ch’era il sommo Bene,
il qual contentar può ogni disio;
     e che era il primo prince, da cui viene
ogni verace effetto, e sua potenza
ha fatto tutto, e solo egli el mantiene.
     160La sua grandezza e sua alta eccellenza
sol egli la comprende e tanto abonda,
che nulla mente n’ha piena scienza.
     Chi piú a contemplarlo si profonda
nel mar di Dio, e chi piú addentro beve,
165ancora si ritrova in su la sponda.
     E, perché ’l corpo l’anima fa grieve,
non molto stetti, che, pel suo comando,
in terra fui posato lieve lieve.
     Cogli occhi lacrimosi e sospirando,
170io mi ricordo di quei lochi adorni;
e ’l volto alzando al cielo, i’ dico:— Oh quando
     será, mio Dio, il dí che a te retorni!