Il Quadriregio/Libro quarto/XIII

XIII. Dove trattasi singolarmente della virtú dell’equitá e della veritá e de’ valenti canonisti e legisti

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
XIII. Dove trattasi singolarmente della virtú dell’equitá e della veritá e de’ valenti canonisti e legisti
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CAPITOLO XIII

Dove trattasi singolarmente della virtú dell'equitá e della veritá
e de' valenti canonisti e legisti.

     — Domanda— aggiunse Astrea— de’ regni miei;
omai di’ ciò che vuoi, e ben t’accerta
e delle dame mie tutte e sei.—
     Quando mi vidi far tanta proferta,
5con quella parte io la ringraziai,
che chiede Dio all’uom per prima offerta.
     E poi con riverenzia domandai:
— Perché la Veritá, la quinta sposa,
che Equitá ancor nomata l’hai,
     10la veggio singulare in una cosa,
ché porta la bilancia ed ella sola
tra la sua schiera è la piú gloriosa?—
     Rispose Astrea a questa mia parola:
— Da questo nome «_ius_», se noti bene,
15come si espone in la civile scola,
     Iustizia è detta, a cui tener pertiene
egual bilance. È ver che ’n alcun caso
ei non si puote ovver non si conviene;
     ché ’l don di Dio accolma tanto il vaso,
20e de’ parenti a’ figli, ché chi rende,
non pò render appien, ma men che a raso.
     Cosí all’uom, che di vertú risplende,
piena mesura non si rende ancora,
ché nullo ben terren tanto s’estende;

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     25ché la virtú è sí degna, sí decora
e sí eccellente, ch’ogni volta eccede
ogni ben temporal, che lei onora.
     Ed a colui che ’l benefizio diede,
render si puote egual; ma chi è grato,
30anche piú oltra al dato stende il piede.
     E cosí la vendetta del peccato
merita egual; ché quanto fu ’l delitto,
tanto ognun merta d’esser tormentato.
     Ma, com’io dissi sopra e trovi scritto,
35iustizia punitiva è crudeltá,
se la pietá non mitiga l’editto.
     Però null’altra in man le bilance ha,
se non la quinta dama di mia schiera,
chiamata Equitate e Veritá;
     40ché a lei sola appartien che la statera
tegna diritta e che in detto e ’n fatto,
in quel che tratta, sia trovata vera.
     Ogni ristoro e ciò che si fa a patto,
ella pertratta e grida che si renda
45quanto la froda o forza hanno suttratto.
     Perché tu queste cose meglio intenda,
pensa se alcun rifar dovesse diece,
ed egli a nove a ristorar si estenda.
     Costui non pienamente satisfece,
50ché convien sempre che ’l ristor sia eguale
al danno ed all’iniuria, ch’altrui fece.
     Ell’è che grida non far altru’ il male,
che non vorresti tu; e quanto hai offeso,
tanto restituisci ed altrettale.
     55D’esto nome Equitate assai ha’ inteso;
or, perché Veritá ella si chiama,
io ti dirò, ch’ancor non l’hai compreso.
     Dopo il ristoro, questa quinta dama
pertratta ciò ch’insieme si patteggia:
60questa è la sua materia e la sua trama.

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     A lei pertien che guidi e che proveggia
che ciò che si promette o mercatanta,
che sia corretto, quando si falseggia,
     e che la mercanzia sia quella e tanta,
65che è promessa, e quando, dove e come
e qual, se quella è guasta o troppo schianta.
     E però Veritá è l’altro nome;
ed ha duo nomi, perché ha duo offici,
ché usa il vero ed eguaglia le some.
     70L’altra domanda, la qual tu mi dici,
è, da che porta singular insegna,
s’ella è maggior tra le dame felici.
     Ogni vertú tanto è eccellente e degna
— rispose a questo,— quanto è di piú pregio
75il fine intento, al qual venir s’ingegna.
     Al fin piú glorioso e piú egregio
ingegnasi Latría; però l’aspetto
ha piú splendente in tutto il mio collegio.
     Ella è che sale al ciel con l’intelletto
80e, dimorando in terra sua persona,
ella sta innanzi al divino cospetto;
     e lí, orando, con Dio si ragiona;
poi si mesura e pon sé in la bilancia,
nell’altra li gran ben, che Dio ne dona.
     85E vede i don di Dio di tanta mancia,
e tanto grandi, che a rispetto a quelli
ciò che l’uom render può, è una ciancia.
     E, benché vegga Dio cogli occhi belli,
nientemen le bilance non porta,
90ancora che ella, orando, a Dio favelli;
     ché ogni gratitudo è lieve e corta,
rispetto al don di Dio; e, se si pesa,
troppo andarebbe la statera torta.
     E con questa ragion, ch’or hai intesa,
95sappi che quanto è natural l’amore,
tanto, negletto o tronco, è di piú offesa.

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     E nullo vinclo debbe esser maggiore,
e nullo amor piú stretto e piú eccellente
che dalla creatura al suo Fattore.
     100Però chi ’l tronca e chi v’è negligente,
veder si puote in quanta offesa cade,
chi nol frequenta o chi non gli è obbediente.
     Questo primaio amor prima pietade
disson gli antichi, e che ’l culto divino
105è la prima vertú, prima bontade.
     Però il re Priámo e ’l buon Quirino,
ed Alessandro in pria fenno li tempii,
e Salomone el coprío d’oro fino.
     Ed, offerendo, al vulgo dienno esempii;
110e chi non frequentava il divin còlto,
chiamavano crudeli, iniqui ed empii.
     Ma ora è sí negletto e sí rivolto
a Satanasso per diverse vie,
che, piú che a Dio, a lui si volta il volto.
     115Con superstizioni e con malie
or son fatti teatri i sacri lochi
a vagheggiarvi e farvi ruffianie.
     Quanti Iasoni e quanti re Antiòchi
lo imbruttano ora, e Dionisi e Varri
120son stupratori degli eterni fochi!
     I filistei riposono in sui carri
l’arca di Dio, per non inviziarse,
e tanto mal che di lor non si narri.
     La barbaresca man, che sangue sparse
125giá tanto in Roma, che destrusse e incese
i gran palagi e il Capitolio arse,
     fu reverente ai tempii ed alle chiese;
ché chiunque fuggí a quelli de’ romani,
fu libero da morte e dall’offese.
     130Io ho toccati questi esempli strani
degl’infideli, e questo ho posto solo
per emendar li crudeli cristiani.

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     L’altr’è l’amor, il qual debbe il figliolo
a’ genitori, la pietá seconda,
135ed alla patria del nativo suolo.
     Ed ogni amor, che la natura fonda,
«pietá» si chiama, e cosí per opposto
«crudel» è detto chiunque el confonda.—
     Tacette poi che questo ebbe risposto.
140Allor vidi venir molti col vaio
ver’ noi col lume in su la testa posto.
     — Iustinian son io— disse il primaio,
— che ’l troppo e ’l van secai fòr delle leggi,
ora subiette all’arme ed al denaio.
     145Iurisconsulti e gran dottori egreggi
vengon qui meco da stato giocondo,
perché tu gli odi e perché tu li veggi.
     Questo, che mi sta a lato, è fra’ Ramondo
predicatore, a cui papa Gregoro,
150quand’egli dimorava giú nel mondo,
     fe’ compilar il nobile lavoro
de’ Decretali, e per questo vien esso
insieme meco in questo sacro coro.
     Bartol Sassoferrato è l’altro appresso,
155con la lettura sua, la cara gioia,
come dimostra il suo chiaro processo;
     e Baldo perusin, che l’ebbe a noia;
poi ’l dottor Cino, ch’ebbe il gran concorso
nel tempo suo e l’onor di Pistoia;
     160poi Ostiense e ’l fiorentino Accorso,
che fe’ le chiose e dichiarò ’l mio testo
ed alle leggi diede gran soccorso.
     Giovanni Andrea, le Clementine e ’l Sesto
il qual chiosò, sta qui con la Novella,
165sí come il lume a te fa manifesto.
     E sempre il ciel rinfresca e rinnovella
l’opinioni e li novi dottori;
e quel che ha detto l’un, l’altro cancella.

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     Azzo e Taddeo giá funno li maggiori;
170ed ora ognun è oscuro e tal appare
qual è la luna alli febei splendori.—
     Io vidi poi color tutti levare
inverso il cielo, come fa ’l falcone,
quando la preda sua prende in su l’are.
     175In questo, Astrea mi disse esto sermone:
— Tu hai veduto appien del regno mio
quanto dir puossi in rima od in canzone.—
     Poscia colle sue dame indi sparío.