Il Quadriregio/Libro quarto/V

V. Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell’astinenza

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
V. Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell’astinenza
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CAPITOLO V

Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza.

     Cominciò Continenza il terzo canto,
quando l’onesta Parcitá si tacque;
e prima gli occhi alzò al cielo alquanto,
     dicendo:— A Dio verginitá sí piacque,
5che lei elesse sposa, in lei discese,
quando di vergin madre al mondo nacque.
     A san Ioanni l’angel fu cortese
per la verginitá, a lor sirocchia,
quando, di terra su levando, el prese,
     10dicendo:— Su, su, lieva le ginocchia:
fratelli e servi siamo in quel Signore.
che ciò, che è futur, presente adocchia.—
     Non pure il cielo a lei fa onore,
ma l’universo ed ogni creatura
15alla bellezza di tanto valore.
     Subietti stanno a lei, quando scongiura.
li maladetti piovuti da cielo,
per forza, per amore o per paura.
     La vergin sacra giá accese il velo
20nel foco estinto; e l’altra la gran nave
trasse con un capello d’un sol pelo.
     Il capricorno sí feroce e grave
da lei pigliar si lassa, ed ella el regge;
e segue lei mansueto e soave.
     25Ma, perché è scritto nell’antica Legge:
«Crescete insieme vo’ e moltiplicate»,
come in quel testo piú volte si legge,

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     per questo molti la verginitate
impugnano, perché non è feconda
30come lo stato delle coniugate.
     Convien che a questi detti si risponda
che funno a tutte spezie e fûn comuni
non a persona prima ovver seconda,
     ché vòlse Dio e vuol che sianvi alcuni,
35perché alle cose sue meglio s’attenda,
che d’ogni atto venereo sian digiuni.
     Benché verde grillanda o sacra benda
adorni quella c’ha la mente negra,
non però vergin esser si comprenda;
     40ché la verginitá pura ed allegra
è la mente incorrotta a Dio divota,
cogli atti onesti e colla carne intègra.
     E, se l’integritá fusse rimota
contra ’l voler, non però si sospetti
45perder corona e la celeste dota.
     La castitá è poi de’ men perfetti;
ma, se si parte dalle cose sozze,
il frutto di sessanta in cielo aspetti,
     se non trapassa alle seconde nozze,
50se lassa ciò in che Marta s’affanna,
se piú non vuol marito che rimbrozze,
     e se con Michelina e con sant’Anna
abita sola e dimora in quel templo,
ove si gusta la celeste manna;
     55se dalla tortora anche piglia esemplo,
che beve turbo e sola sempre è ’n lutto,
quasi dicendo:— Io castitá rassemplo.—
     Il matrimonio è poi di minor frutto;
perché convien che la famiglia rega,
60non può inverso Dio attender tutto;
     ché quanto piú col mondo alcun si lega
ed alla cura bassa sta piú attento,
tanto dal contemplar di Dio si piega.

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     Allora è santo e vero sacramento,
65se in una vera fede egli è fundato,
in santa pace e in un consentimento;
     se solo a quel buon fine egli è usato,
pel quale al primaio uom, quando fu fatto,
la sposa Dio gli trasse del costato.
     70Se bestiale ovver meretricio atto
fra lor non si usa, allor è continenza,
ché fuor de’ miei confini e’ non è tratto.—
     Poi, come donna che fa reverenza,
lassando il ballo, tal atto fe’ ella,
75e prese il quarto canto l’Abstinenza.
     Alzando gli occhi al ciel, quella donzella
disse:— La mente mia libera e lieta
sublimo al mio Signor, che mi favella.
     Egli è che spira e che mi fa profeta:
80Egli è che ciba me, lui contemplando:
Egli è che di vertú mi fa repleta.
     Di me all’uomo fe’ il primo comando;
e, quando el ruppe, a morte ed a fatiga
e tra mille timori el pose in bando.
     85L’offizio mio quella parte castiga,
dov’è ’l desio e quel voler ribello,
che alla legge mental dá sí gran briga.
     Li tre fanciulli ed anche Daniello
profeti fei, perché funno abstinenti
90e parlavan con Dio, com’io favello.
     Avventurate giá l’antiche genti,
a cui il pasto delle giande ed erbe
fe’ ’l viver lungo e san senza tormenti!
     Ora li cibi e le mense superbe
95son sí cresciuti, che la vita brieve
è inferma e poca e pien di doglie acerbe.
     Ora, se innanzi al pranzo non si beve,
pare altrui pena; e troppa dilicanza
fa che ’l cibo comune al corpo è grieve.

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     100Il corpo, che del poco ha sua bastanza,
se non ha buono assai e spesso e presto,
mormora guasto dalla mal usanza.
     Or pochi fanno quel digiun richiesto
per decima da Dio, che gli sia offerta,
105del tempo, che a ben far n’ha dato in presto.
     E non val ch’è precetto e che si accerta
ch’estirpa i vizi e le virtú acquista,
e che lieva la mente a Dio sú erta.—
     Qui lasciò ’l canto come ’l citarista;
110poi come fa’l falcon, quando si move,
cosí Umiltá al cielo alzò la vista,
     dicendo:— O alto Dio, o sommo Iove,
nulla umiltá che pretenda bassezza,
possibil è che mai in te si trove.
     115Ma, permanendo in sé la tua altezza,
il tuo Figliuol l’umanitá si unío
non con difetti, ma con l’altra asprezza,
     sí ch’egli, essendo insieme e uomo e Dio,
in quanto Dio che satisfar potesse,
120e in quanto uom patisse ove morío,
     per colui che, produtto allora in esse,
ruppe la sbarra del comando primo
ed attentò che, quanto Dio, sapesse.
     Però convenne che ’l superbo limo
125s’umiliasse quanto insú era ito,
ed egli non potea piú ire ad imo.
     Ed anco ’l suo peccato era infinito,
pensando quel Signore, in cui presunse
e che a non obbedirlo fu ardito.
     130Per questo, Dio umanitá assunse
ed un si fece seco e fu quell’Agno,
che pei peccati altrui s’offerse e punse.
     O alto mio Signor, tu se’ sí magno,
che tutti quanti i ciel son la tua sede,
135e la terra è scabello al tuo calcagno.

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     Alla grandezza tua, che tanto eccede,
l’umiltá sola gli fece la casa,
quando umanò ’l tuo eterno Erede
     nel petto di Maria, qual è rimasa
140speranza a’ peccatori e sempre advoca
che Piatá tenga a lor la porta pasa.
     Quella Umiltá, che ’n croce si fe’ poca,
fu esaltata e, posta al lato destro
appresso a Dio, in alto si collòca.
     145E, quando al mondo stette per maestro,
con umiltá conversò tra la gente
non come prince, ma come minestro;
     ove li gradi mostra, a chi pon mente,
dell’umiltá, e prima che subietta
150sie a’ maggiori e presta ed obbediente.
     L’altra è che a’ suoi egual si sottometta;
l’umiltá terza alli minor subiace:
questa è suprema ed è la piú perfetta.
     Di un’altra umiltá, che nel cor giace,
155il primo grado non dispregia altroi;
l’altro, s’è dispregiato, non gli spiace.
     Il terzo grado è dopo questi doi;
che, s’egli è dispregiato, se ne goda
e non si turbi, perché altri el nòi;
     160e che avvilisce sé, quando altri el loda,
e sol risponde, quando altri el domanda,
e non si cura, benché opprobrio oda;
     e come il buon corsier, che cosí anda
come altri mena il fren, cosí la voglia
165pon nell’arbitrio di chi ben comanda;
     e, benché alcuno a lui la vesta toglia,
o se la sua mascella li percuote,
non contendendo, lo mantel si spoglia
     e paragli anco l’altra delle gote.—