Il Quadriregio/Libro quarto/IV

IV. Delle spezie e rami della temperanza

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
IV. Delle spezie e rami della temperanza
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CAPITOLO IV

Delle spezie e rami della temperanza.

     Io stava ad ascoltar come scolaio,
che dal maestro prende la dottrina,
mentre narrò dell’impeto primaio.
     E poi continuò quella regina:
5— Sappi che rifrenar io debbo ogni atto,
al qual la parte sensual inclina.
     Il diletto del gusto e quel del tatto
vuole Dio ch’io rifreni e ch’io m’oppogna:
questa è la mia materia, ch’io pertratto.
     10E ciò ch’è inonesto e fa vergogna
al nobil uomo, e ciò ch’el fa brutale,
ho io a regolar quanto bisogna.
     Vero è ch’io anco reggo in generale
i vizi tutti e la lor circumstanza,
15e rifren ciò che la ragione assale.
     E questo suona el nome «Temperanza»,
cioè ch’ella rifreni, regga e tempre
ogni inonesto e ciò che in troppo avanza.
     E questo tu per regola tien’ sempre,
20ch’a ciascuna virtude s’appartiene
corregger ciò, che la ragion distempre.
     Iusto e prudente è l’uom, se noti bene,
e temperato, ed anche ha in sé fortezza
e tutte le vertú insieme tiene;
     25ché dal peccato ovver dalla dolcezza,
che gli è opprobriosa, si disparte,
o che, vincendo, sofferisce asprezza.

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     Ogni virtú, ogni scienza ed arte
ha sua materia propria, che pertratta;
30ma ’n general l’una all’altra comparte.
     La sensualitá brutale e matta
reggo io con queste dame a me propinque,
e ciò che all’uom opprobrio e biasmo accatta.
     E questi vizi in radice son cinque,
35e prima l’ira, della quale ho detto
ch’è opposta alla clemenzia, delinque.
     Poscia è superbia, il vizio maladetto
dell’avarizia ed anco della gola
e di lussuria il bestial diletto.
     40Omai contempla la mia bella scòla:
la bella donna, che ti scorse il passo,
che mi sta a piè umil senza parola,
     vince superbia e vince Satanasso
(mirabil cosa!), che ’nsú monta tanto,
45quanto nel suo pensier si pone a basso.
     L’altra donzella, che mi siede accanto,
la moderata Parcitá si chiama:
ell’è la quarta in questo regno santo.
     Ella lega la lupa sempre grama
50e pon mesura alla voglia bramosa,
che mai non s’empie e che, mangiando, affama.
     L’altra, ch’è tanto adorna e gloriosa,
è Continenza, agli angioli sorella
e del sommo Fattor celeste sposa.
     55Ella Cupido e Venere fragella,
ogni turpe atto fugge ed hallo a sdegno,
e sdegna chi ne tratta o ne favella.
     La sesta donna in questo nostro regno
a Cerere ed a Bacco pone il freno,
60ché del bisogno non passino il segno.
     E, perché tutto sappi ben appieno,
dirò dell’altre mie compagne ancora,
che stanno meco nel regno sereno.

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     Io suadisco ciò che l’uomo onora,
65e vieto ciò che a lui è turpe e lado,
perché sua dignitá sia piú decora.
     Però la donna del settimo grado
è chiamata Onestá ed ha la vesta
tutta inorata sopra il bel zendado.
     70Vedi che tutte l’altre gli fan festa;
vedi che adorna tutte di splendore
della corona, ch’ella porta in testa.
     Com’io li desidèri di furore,
i quali rifrenar all’uomo è forte,
75tempro col freno dello mio valore;
     cosí è altra donna in questa corte,
Modestia chiamata, e tiene il loco,
che qui gli è dato nell’ottava sorte.
     Ella è che ’l modo pon tra ’l troppo e ’l poco
80negli atti esteriori, in fatti e in dire,
nel rider, nell’andar, nel prender gioco,
     in suntuositá e nel vestire;
e dove e quando, innanzi a cui e come,
oltra i termini suoi, non lassa ire.
     85Tra noi coronat’ha le bionde chiome;
Modestia è detta, perché serva il modo,
sicché ’l suo uffizio è consequente al nome.
     In questo regno, nel qual io mi godo,
sta la Vergogna ovver l’Erubescenza;
90la qual non per virtú però la lodo,
     ma perché è freno e perché ha temenza
di fare il lado; e questo è atto buono
e che mena a virtú, se ha permanenza.
     Ma ’n quei che saggi o che antichi sono,
95perché debbono il capo aver esperto,
il vergognarsi trova men perdono.
     Però Vergogna in testa non ha ’l serto
perché non è virtú, come siam noi,
che ’l capo di corona abbiam coperto.

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     100Dell’altre cose, che qui saper vuoi,
elle diranno co’ lor dolci canti,
una cantando pria e l’altra poi.—
     Clemenzia, al cielo alzando gli occhi santi,
un canto cominciò tanto soave,
105piú che mai musa, che cantar si vanti.
     — Non ha peccato— disse— tanto grave,
che dell’intrar a te, Signor e Dio,
chiunque si pente non trovi la chiave;
     ché se’ sí mansueto e tanto pio,
110che tua clemenzia il peccator soccorre,
pur ch’e’ si penta e non voglia esser rio.
     La tua piatá, che a vendicar non corre,
a quel che volle a te assomigliarse
e la sua sede a lato alla tua porre,
     115pur ch’e’ volesse ancora umiliarse
alle tue braccia, dicendo:— Peccai,—
ad abbracciarlo non faríale scarse.
     Per questo, o Signor mio, saper mi fai,
che sempre si perdoni a chi si pente;
120al superbo non si perdona mai.
     Quando al ciel venne il grido della gente
di Sodoma e Gomorra e di lor setta,
tu descendisti a vederlo presente;
     ove m’insegni ch’io non creda in fretta,
125quando la fama il peccator condanna,
e tardo e con piatá faccia vendetta.
     Per questo tu ponesti, o santo Osanna,
l’asprezza della verga dentro all’arca
colla dolcezza insieme della manna.
     130La Maddalena, o sommo Patriarca,
tu ricevisti pio e mansueto,
quando a te venne di peccati carca,
     e del suo cor compunto e del suo fleto
piú ti pascesti che su nella mensa
135del fariseo, e piú staesti lieto.

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     La donna, ch’era allor allor comprensa
nell’adulterio e menata nel tempio,
benignamente da te fu defensa;
     dove, alto mio Signor, mi désti esempio
140che sol del peccator voglia l’emenda,
e chi altro ne vuol, è crudo ed empio,
     e quel, che egli fa, nullo riprenda;
ch’altru’ accusando, quel se stesso pugne,
quand’egli avvien che ’n quel medesmo offenda.
     145Tu giá facesti e fai che ancor si ugne
il core a’ regi, perch’e’ sien benegni,
e ’l re dell’api fai che non trapugne;
     in questo esempio, mio Signor, m’insegni
che sieno i grandi grati e mansueti,
150e che non sian superbi in li lor regni.—
     E poscia, al cielo alzando gli occhi lieti,
Parcitá cominciò sua cantilena,
poiché Clemenzia ebbe i suoi detti quieti.
     — Beato— disse— è l’uom che si raffrena
155e pone a quella voglia la mesura,
che sempre brama e mai diventa piena.
     Beato quello che non sforza o fura
per piú avere e non prende l’affanno,
sempre sudante d’infinita cura;
     160ma, com’ Fabrizio nel povero scanno,
del poco e con vertú piú si contenta
che di piú posseder con froda e inganno.
     Ma piú felice è l’uomo, il qual diventa
perfetto sí, che tutto il disio taglia,
165e di ricchezza ha ogni voglia spenta,
     e che ’l piú e ’l meno non cura una paglia,
e che niente alla Fortuna chiede,
quando losinga e quando dá battaglia.
     Colui di tutto il mondo è ricco erede,
170che, avendo o non avendo, piú non vuole;
ché, quanto uom non desia, tanto possede.—
     Qui finí ’l canto ed anco le parole.