Il Quadriregio/Libro quarto/IV
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CAPITOLO IV
Delle spezie e rami della temperanza.
Io stava ad ascoltar come scolaio,
che dal maestro prende la dottrina,
mentre narrò dell’impeto primaio.
E poi continuò quella regina:
5— Sappi che rifrenar io debbo ogni atto,
al qual la parte sensual inclina.
Il diletto del gusto e quel del tatto
vuole Dio ch’io rifreni e ch’io m’oppogna:
questa è la mia materia, ch’io pertratto.
10E ciò ch’è inonesto e fa vergogna
al nobil uomo, e ciò ch’el fa brutale,
ho io a regolar quanto bisogna.
Vero è ch’io anco reggo in generale
i vizi tutti e la lor circumstanza,
15e rifren ciò che la ragione assale.
E questo suona el nome «Temperanza»,
cioè ch’ella rifreni, regga e tempre
ogni inonesto e ciò che in troppo avanza.
E questo tu per regola tien’ sempre,
20ch’a ciascuna virtude s’appartiene
corregger ciò, che la ragion distempre.
Iusto e prudente è l’uom, se noti bene,
e temperato, ed anche ha in sé fortezza
e tutte le vertú insieme tiene;
25ché dal peccato ovver dalla dolcezza,
che gli è opprobriosa, si disparte,
o che, vincendo, sofferisce asprezza.
Ogni virtú, ogni scienza ed arte
ha sua materia propria, che pertratta;
30ma ’n general l’una all’altra comparte.
La sensualitá brutale e matta
reggo io con queste dame a me propinque,
e ciò che all’uom opprobrio e biasmo accatta.
E questi vizi in radice son cinque,
35e prima l’ira, della quale ho detto
ch’è opposta alla clemenzia, delinque.
Poscia è superbia, il vizio maladetto
dell’avarizia ed anco della gola
e di lussuria il bestial diletto.
40Omai contempla la mia bella scòla:
la bella donna, che ti scorse il passo,
che mi sta a piè umil senza parola,
vince superbia e vince Satanasso
(mirabil cosa!), che ’nsú monta tanto,
45quanto nel suo pensier si pone a basso.
L’altra donzella, che mi siede accanto,
la moderata Parcitá si chiama:
ell’è la quarta in questo regno santo.
Ella lega la lupa sempre grama
50e pon mesura alla voglia bramosa,
che mai non s’empie e che, mangiando, affama.
L’altra, ch’è tanto adorna e gloriosa,
è Continenza, agli angioli sorella
e del sommo Fattor celeste sposa.
55Ella Cupido e Venere fragella,
ogni turpe atto fugge ed hallo a sdegno,
e sdegna chi ne tratta o ne favella.
La sesta donna in questo nostro regno
a Cerere ed a Bacco pone il freno,
60ché del bisogno non passino il segno.
E, perché tutto sappi ben appieno,
dirò dell’altre mie compagne ancora,
che stanno meco nel regno sereno.
Io suadisco ciò che l’uomo onora,
65e vieto ciò che a lui è turpe e lado,
perché sua dignitá sia piú decora.
Però la donna del settimo grado
è chiamata Onestá ed ha la vesta
tutta inorata sopra il bel zendado.
70Vedi che tutte l’altre gli fan festa;
vedi che adorna tutte di splendore
della corona, ch’ella porta in testa.
Com’io li desidèri di furore,
i quali rifrenar all’uomo è forte,
75tempro col freno dello mio valore;
cosí è altra donna in questa corte,
Modestia chiamata, e tiene il loco,
che qui gli è dato nell’ottava sorte.
Ella è che ’l modo pon tra ’l troppo e ’l poco
80negli atti esteriori, in fatti e in dire,
nel rider, nell’andar, nel prender gioco,
in suntuositá e nel vestire;
e dove e quando, innanzi a cui e come,
oltra i termini suoi, non lassa ire.
85Tra noi coronat’ha le bionde chiome;
Modestia è detta, perché serva il modo,
sicché ’l suo uffizio è consequente al nome.
In questo regno, nel qual io mi godo,
sta la Vergogna ovver l’Erubescenza;
90la qual non per virtú però la lodo,
ma perché è freno e perché ha temenza
di fare il lado; e questo è atto buono
e che mena a virtú, se ha permanenza.
Ma ’n quei che saggi o che antichi sono,
95perché debbono il capo aver esperto,
il vergognarsi trova men perdono.
Però Vergogna in testa non ha ’l serto
perché non è virtú, come siam noi,
che ’l capo di corona abbiam coperto.
100Dell’altre cose, che qui saper vuoi,
elle diranno co’ lor dolci canti,
una cantando pria e l’altra poi.—
Clemenzia, al cielo alzando gli occhi santi,
un canto cominciò tanto soave,
105piú che mai musa, che cantar si vanti.
— Non ha peccato— disse— tanto grave,
che dell’intrar a te, Signor e Dio,
chiunque si pente non trovi la chiave;
ché se’ sí mansueto e tanto pio,
110che tua clemenzia il peccator soccorre,
pur ch’e’ si penta e non voglia esser rio.
La tua piatá, che a vendicar non corre,
a quel che volle a te assomigliarse
e la sua sede a lato alla tua porre,
115pur ch’e’ volesse ancora umiliarse
alle tue braccia, dicendo:— Peccai,—
ad abbracciarlo non faríale scarse.
Per questo, o Signor mio, saper mi fai,
che sempre si perdoni a chi si pente;
120al superbo non si perdona mai.
Quando al ciel venne il grido della gente
di Sodoma e Gomorra e di lor setta,
tu descendisti a vederlo presente;
ove m’insegni ch’io non creda in fretta,
125quando la fama il peccator condanna,
e tardo e con piatá faccia vendetta.
Per questo tu ponesti, o santo Osanna,
l’asprezza della verga dentro all’arca
colla dolcezza insieme della manna.
130La Maddalena, o sommo Patriarca,
tu ricevisti pio e mansueto,
quando a te venne di peccati carca,
e del suo cor compunto e del suo fleto
piú ti pascesti che su nella mensa
135del fariseo, e piú staesti lieto.
La donna, ch’era allor allor comprensa
nell’adulterio e menata nel tempio,
benignamente da te fu defensa;
dove, alto mio Signor, mi désti esempio
140che sol del peccator voglia l’emenda,
e chi altro ne vuol, è crudo ed empio,
e quel, che egli fa, nullo riprenda;
ch’altru’ accusando, quel se stesso pugne,
quand’egli avvien che ’n quel medesmo offenda.
145Tu giá facesti e fai che ancor si ugne
il core a’ regi, perch’e’ sien benegni,
e ’l re dell’api fai che non trapugne;
in questo esempio, mio Signor, m’insegni
che sieno i grandi grati e mansueti,
150e che non sian superbi in li lor regni.—
E poscia, al cielo alzando gli occhi lieti,
Parcitá cominciò sua cantilena,
poiché Clemenzia ebbe i suoi detti quieti.
— Beato— disse— è l’uom che si raffrena
155e pone a quella voglia la mesura,
che sempre brama e mai diventa piena.
Beato quello che non sforza o fura
per piú avere e non prende l’affanno,
sempre sudante d’infinita cura;
160ma, com’ Fabrizio nel povero scanno,
del poco e con vertú piú si contenta
che di piú posseder con froda e inganno.
Ma piú felice è l’uomo, il qual diventa
perfetto sí, che tutto il disio taglia,
165e di ricchezza ha ogni voglia spenta,
e che ’l piú e ’l meno non cura una paglia,
e che niente alla Fortuna chiede,
quando losinga e quando dá battaglia.
Colui di tutto il mondo è ricco erede,
170che, avendo o non avendo, piú non vuole;
ché, quanto uom non desia, tanto possede.—
Qui finí ’l canto ed anco le parole.