Il Quadriregio/Libro quarto/III
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CAPITOLO III
Della vertú della temperanza e sue laudi.
Perché l’intrare a me fusse concesso
nel bel reame della Temperanza,
mi feci a quella porta alquanto appresso.
E, poiché fui in debita distanza,
5mi postrai ’n terra, dicendo:— Peccavi,—
sí come per intrare lí è usanza.
Ed allora una donna con due chiavi
aprío la porta, e poi la mia persona
levò di terra con parol soavi.
10— Questa gran donna, che l’intrata dona,
è quella, senza cui— mi disse Elia—
né Dio né uomo al peccator perdona.
Ella è che al ciel t’insegnerá la via:
dietro alli passi suoi ti guida omai;
15con lei noi ti lasciamo in compagnia.—
Quei patriarchi pria ringraziai;
poscia mi volsi alla scorta novella
e ch’ella mi guidasse io la pregai.
Dentro alla porta intrai insiem con ella;
20e, poiché dentro fummo ed ella ed io,
allor mi fece don di sua favella.
— Se saper— disse— vuoi il nome mio,
io sono l’Umiltá, il primo grado
d’ogni virtú, che vuol salir a Dio.
25Come Superbia è prima in ogni lado,
ardita a romper la legge divina,
cosí alle vertú io ’nanti vado.
Chi senza me su per andar cammina,
ritorna addietro intra li luoghi bassi
30e non s’accorge quando egli rovina.
— Io prego, o donna, che tu non mi lassi
— a lei risposi riverente e piano,—
ché sempre seguirò dietro a’ tuoi passi.—
Benignamente a me porse la mano;
35e, poiché ’n alto luogo giunto fui,
che d’ogni amenitá era sovrano,
la Temperanza con belli atti sui
io trovai quivi e con tanta maiésta,
quant’hanno i santi, dov’è il dolce frui.
40Se ogni cosa è bella in quanto onesta,
e tutta l’onestá da lei procede,
quindi si sa quanto era bella questa.
Ella stava a sedere in una sede.
La nova scorta appresso a lei si pose,
45non però in alto, ma giú basso al piede.
E sette donne, adorne come spose,
stavan con lei, e d’oro le corone
aveano in testa e di fiori e di rose.
E una un orso e l’altra avea un leone,
50legato ed ammansito con un freno;
la terza similmente un gran dragone.
E come fa ’l cagnol che dorme in seno,
cosí le fère si stavan con loro
ed anche il drago senza alcun veneno.
55Intorno intorno a tanto concistoro
eran tranquilli giuochi e dolce canto
di diverse persone a coro a coro.
Perché da loro er’io distante alquanto,
cenno fatto mi fu che m’appressasse
60alla regina del collegio santo.
Io m’appressai e le ginocchia lasse
in terra posi, ed ella anco fe’ segno
che confidentemente a lei parlasse.
— Alta regina, a questo loco vegno
65— diss’io a lei— dal mondo con fatiga,
per contemplar di te e del tuo regno.
Minerva fu a me primiera auriga;
ella è che m’ha scampato e sú condotto
per mezzo delli vizi e di lor briga.
70E ch’io venisse a te mi fece dotto,
che m’insegnassi questo tuo reame
e delle tue donzelle tutte e otto.
— Dacché di me sapere hai sí gran brame,
— rispose quella,— ascolta, e dirò pria
75del mio uffizio e poi dell’otto dame.
Dio fatto ha l’uomo per sua cortesia
e posto in mezzo lui tra ’l bene e ’l male,
ché lá e qua ei combattuto sia.
E diede a lui la parte sensuale,
80la qual al male impetuosa corre
come sfrenato e indomito animale.
E però Dio mi volle con lui porre,
ché ’nverso il mal egli precipitára,
se con miei freni a lui non si soccorre.
85Per farti ben la mia risposta chiara,
com’egli verso il mal si move ratto,
cosí va tardo alla parte contrara;
ché, come infermo debil e disfatto,
si move col disio inverso il bene,
90se con forti speroni ei non è tratto.
Perciò altra virtú esser conviene
cioè Fortezza, e questa i sproni mova,
quando uom come infingardo si ritiene.
Ella è che fa che l’uom, il qual si trova
95nella battaglia, vince e non s’ammorza,
sí come il cavalier di buona prova,
o come il buon nocchier, che allor si sforza
che ha la gran tempesta in mezzo all’onda,
quando el combatte da poppa e da orza.
Ed io ’l mantengo, quando va a seconda,
ché ’l fo attento che ’l timon non lassa,
senza lo qual la nave si profonda,
e che non dia de’ calci a chi lo ’ngrassa;
e, quando esalta la fortuna destra,
105io fo che tiene il freno e che si abbassa.
Cosí armato a dritta ed a sinestra,
da un de’ lati Fortezza el defende,
dall’altro lato son io sua maestra.
Donna è che con mill’occhi su risplende,
110che ’l guida dietro e innanti, e ’l fine sguarda,
tanto che chi lo segue non l’offende.
Piú suso sta dell’uom la quarta guarda,
Astrea dico, che resse la gente
’nanti che fosse fallace e bugiarda.
115Alle otto dame omai tu porrai mente;
dirò de’ loro uffizi, se m’ascolti,
che reggono il reame qui presente.
In prima sappi che impeti molti
son rei nell’uomo contra bona legge;
120ma tre son li peggiori e li piú stolti.
Il primo è l’ira in cui governa e regge;
e questa fa il cor di pietá nudo
contra li suoi subietti e la sua gregge.
Clemenza è detta ovver Mansuetudo
125la prima dama, che dalle radici
stirpa l’ira del core troppo crudo.
E, secondo duo nomi, ell’ha duo uffici:
l’uno è che li superbi e troppo altèri
inchina a’ servi, quasi a dolci amici;
130l’altro è che quei, che son crudeli e fèri
e c’hanno alla vendetta accesi i cori,
li fa al perdonar dolci e leggeri.
Però è detta donna de’ signori,
ché li reami e Stati senza lei
135non saríen signorie, ma gran furori.
Ed anco è detta sposa delli dèi,
che son propizi e non corron mai tosto,
ma tardi alla vendetta contr’a’ rei.
Ell’è che esser fe’ Cesare Agosto
140contra ’l nemico suo giá mansueto,
il qual a tradir lui s’era disposto.
Ed egli el chiamò seco nel secreto
dentro alla cambra sua cogli usci chiusi,
ove gli disse con parlar quieto:
145— Non è bisogno, amico, che ti scusi,
ch’è manifesto e non ne puoi far niego
del tradimento, che contra me usi.
Ma una cosa a te chiedendo prego,
che della tua amistá mi facci dono;
150ed io similemente a te mi lego.
E ciò c’hai detto o fatto ti perdono.—
E, per piú fede, a lui la destra porse:
cosí ’l fe’ amico a sé verace e buono.
Questa è, che fe’ ch’Alessandro soccorse
155con gran benignitá al suo vassallo,
quando del suo bisogno egli s’accorse,
e desmontò de su del suo cavallo,
e del suo manto le membra gli avvolse,
ché uopo non avea d’altro metallo.
160Traian l’insegne al suo gran carro folse
solo alla voce d’una vedovetta,
al cui parlar mansueto si volse,
dicendo:— Imperador, fammi vendetta,
ché ’l tuo figliolo il mio figliol m’ha tolto,
165ond’io a lamentarmi son costretta.—
Ed ei rispose con benigno volto:
— Il mio figliolo, o donna che ti lagni,
ti dono in cambio di quel c’hai sepolto.—
Cesare primo, il maggior tra li magni,
170li suo’ famigli ovver li suoi subietti
non li chiamava «servi», ma «compagni»,
facendo a loro onore in fatti e in detti.—