Il Messia (Klopstock)/Discorso preliminare

Francesco Cusani

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Il Messia Canto primo

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DISCORSO PRELIMINARE






I


La poesia alemanna, che a’ dì nostri rivaleggia con quella delle più colte nazioni d’Europa, era rimasta fino alla metà del XVIII secolo pressochè bambina. Causa principale di questo ritardato sviluppo fu la lentezza con cui la lingua tedesca raggiunse la perfezione di cui era suscettibile in grado eminente. Fu soltanto a mezzo il XVI secolo che il troppo noto Martino Lutero nella sua versione della Bibbia contemperò il natio linguaggio a tutti gli stili. E benchè molti scrittori, dietro l’esempio suo, si dessero a scrivere i loro versi non più in latino, ma in tedesco, niuno però era ancor riuscito a dare un modello che tutta quanta mostrasse la forza e la bellezza di quello stupendo idioma; giacchè possedevano bensì i Tedeschi molti verseggiatori, incominciando dai poemi dei Nibelungen e de’ Minnesänger, inni religiosi, tavole e informi tentativi drammatici; ma niun poeta aveva ancora levato tal grido di sè, che i diversi popoli della intera Germania potessero vantarlo come una gloria nazionale. E allora soltanto il poterono sperare allorchè Klopslock pubblicò i primi canti della Messiade dalla quale, dice la Staël, bisogna fissare l'epoca della poesia alemanna.

Federigo Amedeo Klopstock nacque a Quedlinburgo 1 il 2 luglio 1724. Suo padre, che aveva colà un piccolo impiego, era uomo originale, che dava fede ai presentimenti ed alle apparizioni del diavolo; ma di retti principj, ed amoroso della prole, non trascurò, quantunque di scarse fortune, l’educazione di Amedeo. Il quale venne posto a fare i suoi primi studj nel collegio di Pforta presso Naumburgo, dove imparò le lingue antiche, prese a conoscere ed apprezzare gli scrittori classici, e diede saggi precoci del suo genio poetico, che lo fecero salutare dai condiscepoli come il bardo della scuola. E già bolliva nella giova[p. VI modifica]nile fantasia del Klopstock l’idea di scrivere un poema epico, del quale l’imperador Enrico, dello l’Uccellatore, esser doveva il protagonista. Ma la lettura del Paradiso perduto di Milton infiammandolo di religioso entusiasmo, gli suggerì il pensiero d’una grande epopea cristiana. Avvi chi sostiene che il Klopstock già la meditasse, e che il poema del Cieco d’Albione gli desse soltanto l’ultima spinta a porsi all’opera. Comunque sia, d’animo sinceramente religioso, fu scosso dal sublime e tenero mistero della Redenzione, accompagnalo nel suo compimento da tante meraviglie; e ispiratosi col Nuovo Testamento, trovò una fonte di poetiche bellezze prima di lui sconosciuta.

Passato il Klopstock nel 1745 dal collegio di Pforta all’università di Jena, si recò l’anno seguente a Lipsia, ove vivendo in perfetta solitudine, lontano dal rumore e dal fasto accademico, compì i primi tre canti della Messiade. I quali pubblicò nel Foglio Letterario di Brema per l’amicizia che aveva contratta con Cramer, Schlegel, Rabener e Zaccaria, distinti letterati di quell’epoca, e collaboratori del medesimo. L’entusiasmo che suscitarono i canti del Klopstock in Germania fu immenso: uomini chiarissimi fecero a gara per illustrarli: il dotto Meyer, professore di filosofia all’università di Halla, pubblicò sovr’essi un commento di due volumi.

Mentre un grido concorde d’ammirazione innalzavasi da tutte le parti della Germania, e paragonava ad un ispirato profeta il cantor del Messia, e il suo poema ad un codice religioso, Klopstock non era appieno felice.

Amava egli con lutto l’impeto d’un primo amore la sorella del suo amico e parente Schmid, giovanetta bellissima e virtuosa, che tanto esaltò nelle sue Odi sotto il nome di Fanny. Ma questa, estimatrice dell’ingegno anzichè della persona dell’amante, non gli corrispose di pari affetto, sicchè il poeta, melanconico e infiacchito per l’affanno del cuore, viaggiò in Isvizzera, dove lo invitava Bodmer, il quale con altri ragguardevoli scrittori aveva riunita in Zurigo una società all’oggetto di migliorare la letteratura alemanna.

L’ospitale accoglienza del Bodmer, che lo accolse come figlio, le visite degli uomini più distinti, che accorrevano a visitarlo, le pittoresche bellezze de’ laghi e dei monti della Svizzera che il poeta trascorse quasi per intero peregrinando, valsero a mitigare il suo cordoglio. Dopo un soggiorno di nove mesi, il Klopstock stava per recarsi a Brunsvick, dove per opera de’ suoi amici aveva ottenuta una cattedra, allorquando un impensato accidente lo trasse altrove.

Il conte di Bernstorff, ambasciatore di Federico V re di Danimarca presso la Corte di Francia, udì parlare dell’entusiasmo che suscitavano in tutta la Germania i primi tre canti della Messiade, li lesse, e fu preso da vivissima ammirazione pel nostro poeta. Reduce a Copenaghen, ne parlò al suo monarca, il quale fece invitare Klopstock a stabilirsi ne’ suoi Stati, assegnandogli una pensione annua di quattrocento talleri (1200 franchi), onde nella quiete d’una vita indipendente attendesse a continuare la Messiade. Federigo Amedeo accettò con riconoscenza, e giunto nel 1751 a Copenaghen, si diede a lavorare assiduamente intorno al suo poema, vivendo solitario e poco frequentando la Corte, malgrado che vi fosse accolto dal re e dai grandi nel modo più lusinghiero.

Dopo cinque anni, compì i primi dieci canti della Messiade, che vennero pubblicati nel 1756 a Copenaghen in due volumi a spese del re.

Durante questo periodo il Klopstock in uno de’ suoi viaggi ad Amburgo, ove recavasi di tempo in tempo, vi conobbe una giovane di vivace ingegno e di nobili sentimenti per nome Meta2 Moller, e nel 1754 la fece sua moglie. Per tre soli anni gustò la domestica felicità a fianco d’una sposa virtuosa, e che per lui nutriva la più profonda stima e l’amore il più puro. Un morbo crudele gliela rapì nel 1758, ed egli le diede sepoltura in Oltensen, villaggio poco discosto da Amburgo, dove fin d’allora scelse anche per sè la tomba.

Morto Federico V, e succedutogli Cri[p. VII modifica]stierno VII, il conte di Bernstorff, balzato dal suo ministero per opera dell’intrigante medico di Corte Struensee, si ritirò a vivere privatamente in Amburgo, ed ivi condusse seco anche il suo protetto Klopslock. Il quale non si allontanò più che una volta da quella città pel rimanente della sua vita. Nel 1768 pubblicò altri cinque canti, e nel 1773 gli ultimi cinque del poema, che così fu ridotto a venti.

Scrisse il Klopstock molte odi, nelle quali sostituì all’antica mitologia greca e romana, la scandinava, arricchendo colle immagini tratte dall’austera religione dì Odino di nuove bellezze la lirica tedesca. La più celebre tra le odi di Klopstock è l’Arte di Tialf, ossia lo sdrucciolare sul ghiaccio, passatempo favorito nelle contrade settentrionali, e che le tradizioni narrano fosse inventato dal gigante Tialf. Scrisse inoltre due tragedie, che non piacquero gran fatto, e varj cantici spirituali tenuti in gran conto dai Protestanti, molte comunità dei quali anche in oggi se ne servono nelle loro solennità.

Ecco il giudizio che fa di essi cantici la Staël: «Sarebbe difficile estrarre dalle odi religiose del Klopstock alcun verso che si possa citare come una sentenza staccata: la loro bellezza emerge dall’impressione generale ch’esse producono».

Nel 1764 ottenne gran successo una composizione drammatica di genere tutto nuovo, divisa in tre parti, che il Klopstock chiamò Barditi, dai Bardi che in essa introduce. Codesta trilogia, da cui per avventura trasse Schiller l’idea delle sue Tre Giornate del Wallenstein, racconta le gesta di Arminio o Hermann, come lo chiamano i Tedeschi, eroe esaltato negli antichi canti qual difensore della libertà nazionale, per la terribil sconfitta delle legioni romane, comandate da Varo luogotenente d’Augusto. La Battaglia d’Arminio; Arminio e i Principi; la Morte d’Arminio sono i titoli de’ tre Barditi, i quali risplendono di molte bellezze negli squarci lirici, che fingonsi cantati sull’arpa dai bardi. Però è duopo confessare che mal riuscì il Klopslock a quanto mirava, di risvegliare cioè, colla narrativa delle gesta d’Arminio, lo spirito di nazionalità in Germania. A que’ giorni Federico il Grande re di Prussia andava perduto dietro l’imitazione de’ Francesi, poichè avrebbe voluto introdurre nel suo paese non solo gli usi, la filosofia e la letteratura, ma finanche la lingua di Francia. L’influenza del gran re era somma in tutte le parti dell’Alemagna, e i più illustri Tedeschi paventavano gli effetti di quel pernicioso innovamento. Il Klopstock, uno dei più appassionati per la gloria, la poesia e la lingua nazionale, volle coi Barditi suscitare una santa indignazione nel popolo, eccitandolo a mantenere lo splendore e l’indipendenza della sua letteratura. Ma egli, come dicemmo, non raggiunse il lodevole scopo, perocchè le gesta d’Arminio risalivano ad un’epoca troppo remota e semi-favolosa per operare potentemente sull’animo della moltitudine.

Ma per tornare ai casi del nostro poeta, egli nel 1791, già compito il sessantesimo anno, sposò in seconde nozze Giovanna Dinfel, ottima donna, la quale confortò d’ogni più affettuosa cura gli ultimi suoi giorni. Nè l’estro veniva meno in Klopstock, benchè toccasse ormai alla vecchiaja; infatti, scoppiata allora la rivoluzione francese, egli, credendo nella lealtà del suo animo alla buona fede dell’Assemblea Costituente, celebrò in un’ode diretta all’ombra di La Rochefoucault, e calda di generosi sentimenti, il decreto famoso con cui l’Assemblea ripudiava in faccia all’universo il principio di conquista. Ma cadde tosto l’illusione, poichè le falangi republicane si precipitarono come un torrente in Olanda, in Italia e nella sua Germania, rovesciando dovunque gli antichi Governi, e recandovi la loro turbolenta e anarchica libertà. Allora caduto il velo dell’illusione, il buon Klopstock rimandò il diploma di cittadino francese che gli avevano procurato le sue odi patriottiche, dolente di veder contaminata da stragi e delitti la causa per la quale egli erasi acceso d’innocente entusiasmo.

Divenuto ormai vecchio, Klopstock si occupò di grammatica e di filologia, mirando a far progredire la sua lingua per la quale era appassionato. Ma l’aridezza [p. VIII modifica]di simili studj mal conveniva all’immaginosa fantasia ed al caldo sentire d’un animo come il suo, e que’ lavori, insieme alle sue prose, caddero presto in dimenticanza. Colpito nel 1802 da un colpo di apoplessia, strascinò la vita in mezzo ai dolori e alla melanconia che in lui destavano le calamità in cui le politiche circostanze avevano involta l’Alemagna. Però serbando intatto il vigor della mente, e pieno di religiosa rassegnazione, il 14 marzo 1803 trapassò, recitando i sublimi versi con cui nel canto XII della Messiade aveva descritta la morte del giusto, raffigurata nella morte di Maria sorella di Lazzaro.

Tutta la Germania pianse la morte del suo poeta come una calamità nazionale, e la pompa con cui vennero celebrati i suoi funerali, è prova che in tutte le classi nutrivasi per esso una venerazione quasi religiosa. La repubblica d’Amburgo, città dove Klopstock morì, e il Governo Danese della vicina Altona gareggiarono di zelo. Magistrati, nobili, commercianti, artisti, ed un’immensa folla accompagnarono il feretro, cui faceva ala una guardia d’onore di cento soldati a piedi e a cavallo, fino al villaggio di Oltensen, nel cui cimitero il 22 marzo venne deposta la spoglia del poeta vicino alla tomba della sua Meta, luogo da lui scelto, come dicemmo, fin da quando l’aveva molt’anni prima perduta.

«Federigo Amedeo Klopstock congiunse alle più alte facoltà dell’ingegno le più care e amabili doti del cuore. Egli conservò sempre intatta l’indipendenza e la franchezza del carattere, sempre costante la sincerità dell’affetto, nè mai bruciò l’incenso dell’adulazione innanzi a verun potente, nè mai corse dietro all’aura di verun favore. Sinceramente pio, e benevolo, affabile a tutti, candido, ingenuo, ei si compiacque sino agli ultimi suoi dì ne’ piaceri più semplici, e unì sempre una schietta soavità di modi alla più viva sensibilità. Pur ebbe anch’egli i suoi difetti, ma furono i difetti dei buoni, quei difetti, vogliam dire, che rivelano la fralezza umana, ma non annunziano un’indole superba nè un cuore corrotto».3

II

Che Klopstock, come pretendono alcuni critici, annoverar si debba, come lirico, fra i più grandi poeti d’ogni epoca, chiamandolo il Pindaro della poesia moderna, anzi superiore a questi per la profondità dell’invenzione e la spiritualità dei concetti, è lode troppo evidentemente esagerata perchè abbiasi a confutarla. Ma non è esagerata sentenza il collocare la Messiade fra i più grandiosi e sublimi concepimenti dell’ingegno umano, sì per l’altezza del soggetto, sì pel modo con cui venne poetizzato.

A dare un’idea della medesima, noi crediamo opportuno di qui riportare il retto e imparziale esame che ne fece anni sono un giovane ed elegante scrittore che meritamente gode di una bella fama letteraria, perchè ne’ suoi scritti traluce non solo ingegno ed erudizione, ma rettitudine dì sentimenti e coscienziosità letteraria.

«Consta la Messiade di venti canti dettati in quella specie di verso che i Tedeschi chiamano esametro, e che è pieno dì nobiltà e di grave armonia. Esordisce il poema dall’istante in che i nemici dell’Uomo Dio, quei superbi ed ipocriti Sacerdoti e Dottori del Sinedrio di Gerusalemme, congiurano la morte dì lui, e fanno briga per condensargli sul capo innocente i flutti dell’ira popolare e il sospetto del dominatore straniero. I primi dieci canti descrivono i patimenti e la morte di Cristo: gli altri la discesa al Limbo, un giudizio delle anime, la risurrezione e gli altri misteri con che sì consumò l’opera del gran Riscatto. Madama di Staël, che bisogna sempre citare quando trattasi della letteratura alemanna, dice, in tuono di censura, che il Klopstock, non avrebbe dovuto aggiungere dieci canti a quello che rappresenta l’azione principale, cioè la morte del Salvatore, e parla di essi come dì un’appendice inutile, o per lo meno inopportuna. Noi consentiamo a Madama che quegli ultimi canti non inspirino quel[p. IX modifica]l’interesse così pieno ed intiero che svegliano i primi dieci; ma non possiamo ammettere che l’azione principale del poema sia la morte di Cristo; e che questa consumata, debba anco il poema aver fine. Il Klopstock s’era proposto di cantare il mirabile nascimento della religione cristiana, e quindi ei doveva esporre tutti que’ misteri con cui sì compiè il grande evento, non restringendosi al sanguinoso sagrificio dell’Uomo Dio, ma allargandosi ad abbracciare lutti quanti i prodigi della Redenzione. In tale grandioso argomento l’unità dell’azione è segnata, non dal corso degli avvenimenti, ma, per dir così, dalla verificazione delle profezie, e a questa intese il poeta senza darsi pensiero di veruna scolastica distinzione.

«Ma una ben altra accusa noi crediamo che si possa movere al Klopstock, accusa onde pur devesi aggravare il Milton coi più fra’ poeti che trattarono argomenti cristiani; ed è ch’egli abbia coi trovati della fantasia e cogli artificj dell’arte, se non alterata intieramente, svisata almeno e infarcita di circostanze arbitrarie e fantastiche la verità di que’ fatti augusti che ei tolse a rappresentare nel suo poema. Tramutare l’esposizione di avvenimenti consacrati dalla fede e dalle tradizioni più rispettate in una narrazione romanzesca, fare de’ racconti biblici ed evangelici una specie di romanzo storico, è cosa che noi non crediamo lecita, è cosa che ripugna e al sentimento religioso e alle norme più rette del gusto. A falli simili non si estende il dominio della fantasia, che ad ogni istante è soffermata nell’errabondo suo corso intorno ad essi dalla voce imperiosa della Fede, che le grida: Adora e taci.

«E qui noi dovremmo forse parlare di un altro carico che un lettore cattolico potrebbe fare alla Messiade, che, cioè, molte dottrine evangeliche vi siano frantese ed allontanate dalla loro vera significazione; ma questo è tal proposito da non trattarsi in brevi parole, e che condurrebbe a riflessioni affatto estranee all’indole del nostro discorso; onde noi stiamo paghi all’accennare che nella lettura di questo poema giova ricordarsi che il Klopstock usò ed abusò anche della licenza che i Protestanti si usurparono d’interpretare a lor senno il codice delle Sante Scritture.

«Ma prescindendo da codeste considerazioni, e dimenticando la santità del soggetto per non vedere che il poema, egli è certo che la Messiade non teme l’invidia del confronto con veruno de’ più celebrati poemi epici moderni. L’argomento soverchia, senza dubbio, tutte le invenzioni del genio: ma tuttavia volevasi un gran vigore di mente a rappresentare con evidenza e dignità l’umanità nell’essere divino, e la divinità nell’essere umano: volevasi pure una grand’arte per risvegliare e mantenere la sospensione dell’ansietà e dell’affetto nella rappresentazione di un avvenimento già deciso nei consigli di una volontà onnipotente ed eterna. Federigo Amedeo non fu minore dell’ardua prova, e seppe inspirare ad un tempo tanta riverenza e tanta pietà pel Figliuolo dell’uomo e per l’Unigenito di Dìo, che non v’ha certamente commozione più tenera di quella che provasi alla lettura della Messiade. Oh quanta passione v’è in quel tratto del canto III, in cui è rappresentato Cristo là negli orti del Getsemani, supplicante al Padre che gli allontani il calice amaro, quel calice che poi bebbe sino alla feccia!

«Infiniti sono i personaggi introdotti nella Messiade, e tutti sono delineati con magistrale evidenza: angeli, apostoli, donne amorose, semplici fedeli, sacerdoti venali ed ipocriti, agitatori della plebe, codardi politici, giudici venduti. Madama Staël ha liberato con molto ingegno il gran poeta dal carico che gli si fa di avere dipinti i suoi angeli un po’ troppo uniformi, dicendo che nello stato di perfezione le differenze riescono difficili a cogliersi, e che dai difetti è pel consueto stabilito il divario che corre fra uomo ed uomo. Se non che per quanto sia soddisfacente questa arguta osservazione, essa non vale a dimostrare che sarebbe stato impossibile a Klopstock d’introdurre nel suo magnifico quadro una maggiore varietà.

«Il carattere più singolare della Messiade è quello di Abbadona, creazione veramente originale e produttrice di un [p. X modifica]affetto così vivo da togliere quasi il diritto alla critica di notarne la stranezza. Egli è un demonio pentito, che anela di far del bene agli uomini, roso nella sua natura immortale da un assiduo rimorso, sempre rivolto co’ suoi voti al cielo, ch’egli ha conosciuto, alle sfere brillanti, che furono la sua prima dimora. Un ente siffatto, che soggiace alla punizione de’ colpevoli, serbando l’amore della virtù, e colle doti di un angelo, soffre i tormenti dell’inferno, eccita una viva simpatia, un senso nuovo di pietà, di raccapriccio e di amore. “La nostra religione, dice in questo proposito la Staël, non ci è famigliare nelle sue ricchezze poetiche, e Klopstock è uno dei poeti moderni che seppe meglio personificare la spiritualità del cristianesimo con situazioni e descrizioni analoghe alla natura di esso„. Però noi non sapremmo trovare quale dogma cristiano sia manifestato o personificato nel carattere di Abbadona, in cui ci restringiamo ad ammirare una stupenda creazione poetica, non parendoci possibile di giustificarlo coll’ajuto di verun sistema teologico.

«Nella Messiade, ricca di episodj di ogni genere, non v’ha che un episodio di amore, ed è un amore fra due risorti. Cidli e Semida sono stati insieme restituiti alla vita dal Redentore, essi s’amano di un amor puro e celeste come la loro novella esistenza, e non credono di dover soggiacere alla morte, e sperano di trasvolare insieme dalla terra al cielo, senza che un di loro provi l’orribile dolore di un’apparente separazione. Solo un amor così puro poteva essere introdotto in un poema come la Messiade; e questo episodio sarebbe intieramente delizioso, se Cidli e Semida non divagassero troppo spesso in astruse contemplazioni, e se parlassero meno, e talvolta meno oscuramente. Questo difetto de’ discorsi lunghi e meno che limpidi nel concetto e nell’espressione, è generale a tutto il poema; e davvero s’amerebbe a quando a quando che fosse sostituita ad essi qualche situazione drammatica, o per lo meno ch’essi lasciassero al lettore qualche cosa da indovinare.

«Ma ciò che nella Messiade eccita la maggiore meraviglia, è la varietà e la ricchezza del colorito poetico, specialmente quando si pensi che il Klopstock scriveva in una lingua ancor vergine, e non ancora temperata all’artificio di quel verso. V’ha in essa un lusso di poesia, di cui è impossibile formarsi un adeguato concetto. Il Klopstock richiama alla mente quegli eroi delle Novelle Orientali, che, ad ogni schiuder di bocca, lasciavano cadere diamanti e rubini. Nessun altro poeta della sua nazione non trovò mai immagini più ridenti, più deliziose fantasie. La è un’anima quella del Klopstock che non vede che le bellezze della natura animata dal sentimento religioso, e che s’abbandona deliziosamente nell’arbitrio delle impressioni ch’ella produce. Egli toglie, per così dire, agli astri i lor raggi, ai fiori la loro fragranza e la pompa dei loro colori, a’ boschi il loro mistero, alle acque le lor frescura e il blando lor mormorío, e tutto raccoglie in una armonia meravigliosa. Or quando s’aggiunga a tutto ciò, che la versificazione di Federigo Amedeo è sempre nobile, or maestosa, or leggiadra, e sempre accordata a tutte le espressioni e a tutti i suoni, si comprenderà di leggieri la ragione di quell’ossequio e di quell’entusiasmo con che i Tedeschi parlano di questo stupendo poema4».

III

Sogliono i più degli uomini trapassare d’una in altra cura la vita senza tendere ad una meta fissa, poichè questa mutasi di continuo per mutarsi d’età e di circostanze. Ma v’hanno alcuni i quali, dotati di sentire profondo e di energica costanza, una se ne prefiggono, e ad essa, per lontana che sia, indirizzano senza tregua tutti i pensieri e i desiderj. Lucubrazioni, veglie, fatiche intellettuali e fisiche sostenute per lungo correre di anni non gli scoraggiano, perchè la loro vita, se così lice esprimersi, s’immedesima collo scopo cui anelano, ed ogni speranza, ogni gioja sta per essi nel poterlo, quando che sia, raggiungere. [p. XI modifica]

Tali uomini dir si ponno al certo avventurati, e perchè l’attività continua dello spirito li rende men soggetti alla noja e a quella vaga irrequietudine che sì spesso fanno tormentosa la vita, e perchè se riescono alfine alla meta, hanno un compenso tanto più grande, quanto più questa era nobile e vantaggiosa.

Uno di questi uomini fu il sacerdote Giuseppe Pensa, il quale datosi a tradurre il Klopstock, per quasi trent’anni vi lavorò indefessamente.

Molti, senza dubbio, in leggendo come uno abbia consumato gran parte della vita nel tradurre la Messiade, sorrideranno compassionandolo, o peggio. Ma non san essi forse esservi uomini laboriosi e pazienti pei quali lo studio è l’unica occupazione e l’unico piacere della vita, e che datisi una volta a scrivere, a tradurre od a compilare, più non abbandonano l’opera loro, divenuta sì necessaria, che senza di essa sarebbero infelici?

Giuseppe Pensa, nato in Milano nel 1760 da civile ed agiata famiglia, abbracciò lo stato ecclesiastico, e giovane entrò ne’ Chierici Regolari Somaschi nel collegio di Santa Maria Segreta. Destinato all’istruzione, scopo principale di quel religioso istituto, fu professore di belle lettere nell’orfanotrofio di San Pietro in Gessate a Milano, poi nel collegio Gallio in Como, e da ultimo a Lodi, e adempì il santo e difficile incarico d’insegnare ai giovanetti con uno zelo ed una diligenza meritevole d’ogni elogio. I molti pregevoli manoscritti che lasciò intorno la Storia Ecclesiastica, la Dogmatica e varj rami di letteratura, fanno prova quant’egli fosse diligente ed esatto indagatore del vero e del bello.

Disciolto per le vicende dei tempi nel 1810 l’istituto dei Chierici Somaschi, il Pensa visse da privato, e schivo com’era del trambusto del mondo, tutto si diede allo studio nella quiete e nel silenzio della sua casa. Fu allora che progredendo nella cognizione della lingua tedesca, della quale in gioventù aveva appresi gli elementi, s’innamorò di questo idioma, sì bello e sì ricco, e leggendone i poeti, fermò l’attenzione sul Klopstock, perchè ì fervidi e religiosi sentimenti di esso trovavano un eco nel suo cuore.

Gli Italiani, che hanno nella loro lingua tante versioni dei più stimati poemi antichi e moderni, non ne possedevano alcuna del Klopstock, mentre già era tradotto nelle primarie lingue viventi, finanche in latino ed in greco5. Solo Giacomo Zigno, capitano al servizio austriaco, e amico intimo del poeta, tradusse i primi dieci canti della Messiade, e li pubblicò in Vicenza nel 1782. Ma questa traduzione, oltre all’essere incompleta, non era gran fatto elegante e fedele all’originale. Concepì adunque il Pensa l’idea d’imprendere un’esattissima versione, la quale facesse conoscere agli Italiani in tutta la sua integrità codesto meraviglioso poema. Lo tradusse e lo ritradusse, continuando sempre ad adoperare la lima per raggiungere in italiano il vero senso, e sto per dire l’identità della frase originale. E in tal guisa ritoccando senza posa la traduzione già da parecchi anni compiuta, egli continuò a fare della Messiade la sua delizia e il tema continuo dei suoi discorsi famigliari. In codesta geniale occupazione, amatissimo dai parenti e dagli amici pel sapere e la bontà dell’animo, il padre Pensa scorse la virilità e la vecchiaja, finchè, compianto dai buoni, nel febbrajo i838, in età di settantasette anni, trapassò. Negli ultimi istanti, parlando sempre della sua Messiade, la legò, come il più caro pegno dell’amor suo, agli amati nipoti. I quali volendo onorare la memoria di lui, che, modestissimo, non volle mai consentire che si pubblicasse la sua traduzione, pensarono, con lodevole divisamento, di dare alle stampe il manoscritto tal quale egli, morendo, lo lasciò.

E noi lasciando ad altri il giudicare di questo lavoro, esporremo francamente alcune nostre opinioni sul medesimo. Il padre Pensa per l’erroneo principio di volere spingere l’esattezza fino allo scrupolo, dimenticò che diversissima è l’indole delle due lingue tedesca e italiana, diversissimo il modo con cui entrambe [p. XII modifica]danno poetiche forme al pensiero. Laonde nella sua traduzione egli ritenne ripetizioni di vocaboli, inversioni di frasi, e maniere di dire, che, naturali alla lingua tedesca, ripugnano alla nostra. Così pure, o non la sentisse o la trascurasse, sagrificò troppo sovente alla fedeltà l’armonia del verso, sicchè forzandolo a seguire la giacitura e i tronchi periodi dell’esametro tedesco, gli riuscì ad ora ad ora aspro, contorto e oscuro. A fronte di tali mende, non lievi al certo, il lavoro del sacerdote Pensa ha il pregio di dare agli Italiani la Messiade tradotta nella loro lingua con tale scrupolosa fedeltà, ch’egli è come la leggessero nell’originale. Utilissima riuscirà quindi a chi per avventura applicar si volesse a darne una novella traduzione poetica, perocchè agevolerà oltremodo l’intelligenza del testo, ardua non poco ai Tedeschi medesimi. Così le versioni letterali che gli Italiani fecero ne’ secoli scorsi dei poeti greci e latini, agevolarono i lavori di sommi uomini. Nè altrimenti che sovr’esse eseguì la meravigliosa sua versione dell’Iliade quel grande ingegno di Vincenzo Monti.


Milano, il 20 Dicembre 1839.

Note

  1. Città dell’alta Germania, appartenente in allora alla Sassonia, e posta vicino alla frontiera orientale del regno d’Annover.
  2. Abbreviazione famigliare di Margherita.
  3. Così Achille Mauri in un bell’articolo intorno al Klopstock ed alle sue opere inserito nell’Indicatore del febbrajo 1832.
  4. Achille Mauri nell’articolo citato più sopra.
  5. Vedi le note alla vita del Klopstock scritte dallo Zigno mentre ancora viveva il poeta. In esse sono annoverate le traduzioni in varie lingue a quell’epoca uscite.