Il Lago Maggiore, Stresa e le Isole Borromee - Vol. 1/Libro I. Capo XXV

Libro I. Capo XXV. Fine del regno de' Longobardi e memorie lasciateci sulle sponde del nostro Lago

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Libro I. Capo XXV. Fine del regno de' Longobardi e memorie lasciateci sulle sponde del nostro Lago
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CAPO XXV.


Fine del regno de'Longobardi e memorie lasciateci sulle sponde del nostro Lago.


Venuto a vacare il trono de'Longobardi per la morte di re Astolfo l'anno 756 senza prole maschile, due furono i principali pretendenti, cioè Rachis, il quale era già stato re, ed [p. 166 modifica]aveva poi abbracciata la regola di S. Benedetto nel monastero di Monte Cassino, e pentito allora di questa sua risoluzione agognava di risalire sul trono, e Desiderio duca probabilmente dell'Istria. Questi per riuscire meglio al proprio intento ricorse al sommo pontefice, Stefano II, promettendogli di restituire alla Chiesa di Roma quanto era stato indebitamente occupato dai suoi predecessori, se lo avesse aiutato a conseguir la corona.

Il Pontefice di fatto s'impegnò a suo favore, ma salito che fu Desiderio sul trono, ricusò di mantenere la data fede al successore di lui, Paolo I, il quale perciò ricorse a Pipino, re de'Franchi, perchè volesse obbligare il Longobardo alla promessa restituzione. Rinnovò simili istanze anche Stefano III papa l'anno 768 al medesimo Pipino, ma giunti in Francia i messi di lui trovarono che questi era morto, ed eragli succeduto Carlo, chiamato poi il Magno. A questo si volse allora il Pontefice, ma con poco profitto; poichè Carlo Magno prese anzi in moglie l'anno 770 la figlia dello stesso re Desiderio. È vero che egli poscia, non si sa precisamente il motivo, l'anno appresso la ripudiò: ma in onta alle replicate istanze di papa Stefano, nulla fu peranco deciso contro di Desiderio. Intanto venne a morte il pontefice, e montò sulla cattedra di S. Pietro papa Adriano (a. 772). Questi pure rinnovò le sue istanze per avere da re Desiderio l'adempimento della sua promessa, ma persistendo esso ostinato nel suo rifiuto, egli alla fine ricorse a Carlo, il quale allora si mosse e con poderoso esercito l'anno 773 in Italia. Desiderio e Adalgisio suo figlio si erano fortificati alle Chiuse per impedirgli l'ingresso, ma sbaragliati e posti in fuga da lui furono obbligati di rinchiudersi colle loro forze l'uno in Pavia e l'altro in Verona. Caro Magno strinse tosto d'assedio queste città, le quali non potendo opporre una valida resistenza, finirono coll'arrendersi al vincitore. Primo fu Desiderio che chiuso in Pavia l'anno appresso (774) fu forzato a darsi in mano di Carlo, il quale, avutolo in suo potere, lo mandò a finire i suoi giorni in Francia, non si sa bene in qual modo, se libero o sotto custodia, se monaco od anche acciecato. Così finì il regno de'Longobardi dopo oltre due secoli di esistenza. [p. 167 modifica]Arrestandoci a questo punto, gioverà volgere alquanto lo sguardo e sul passato e sulle conseguenze lasciate in Italia dai Longobardi, tuttochè privi ora di regno, ai secoli successivi. Le precedenti invasioni de'Barbari erano state seguite da altre invasioni, e sì la prima che la seconda erano state vinte coll'intera liberazione d'Italia dai nuovi venuti. Al contrario i Longobardi rimasero, benchè vinti sul suolo Italico, e lo stesso lor vincitore prese il titolo di re della soggiogata nazione1; sicchè può dirsi, ch'essi fossero ancora lo stato, il quale non avea fatto perciò che mutar di padrone. Del resto per essi le stesse leggi, le medesime consuetudini e, che più monta, infatti i privati loro possedimenti. Era una gente conquistata, ma intera, ma capace ancora di azione. E azione in vero ci fu, lenta sì, ma progressiva. I limiti, entro i quali devo rimanere, non mi consentono un lungo discorso sopra tutte le conseguenze di questi fatti; restringerò quindi le mie osservazioni particolari rispetto ai luoghi del nostro Lago intorno ai nomi rimasti di alcuni di essi, e alla legislazione, Longobarda, durata ancora per lungo tempo tra noi, e sopra tutto al dialetto lombardo tuttora vivo, sebbene di molto modificato dall'antico, sulla bocca delle nostre popolazioni e lungo il Lago e nelle valli ad esso limitrofe.

Racconta Paolo Diacono, che sopravvisse ancora molti anni alla catastrofe di sua nazione, e fu già a suo luogo avvertito che Alboino deliberato di conquistare l'Italia condusse seco molte genti, soggiogato da lui o da altri re suoi predecessori, cioè Bulgari, Sarmati, Gepidi, Pannonii, Suavi, Norici ed altrettanti, e che da questi presero il loro nome non pochi vici, ne'quali ebbero stanza: nome, scrive, che oggigiorno ancora rimane2. Questa notizia è confermata pienamente da più [p. 168 modifica]luoghi, i cui nomi ci rimasero nelle antiche memorie e tuttavia, benchè in parte alterati, ci rimangono ancora: tra i quali, rispetto ai nostri, basterà ricordare Olegio Castello, detto nelle vecchie carte Olegium Longobardorum3. Ma quelli tra i popoli, che misti ai Longobardi più si diffusero nelle nostre e nelle vicine contrade, furono i Bulgari; giacchè troviamo che da essi Burgaria o Bulgaria era detto un contado del Milanese lungo il Ticino, e Bulgaro la terra di Borgovercelli, di cui lambe un'acqua oggidì pure chiamata la Bulgara, e Bulgaro Grasso ugualmente un'altra terra oltre Varese sulla via che mette a Fino. Per la qual cosa si rende oltremodo probabile, che il nostro Belgirate, chiamato nelle antiche carte terra de Bugirate, ricevesse il suo nome dai Bulgari, trovandosi in altre da me vedute, e che più ora non ricordo dove e presso da chi, col nome di Bulgarate4.

Che se alcuni nomi locali ci attestano la presenza de'Longobardi e d'altre genti seco loro venute nelle nostre contrade, molto più ci comprovano questo la stessa legislazione [p. 169 modifica]Longobarda in vigore tra noi, al paro della romana e di altre che col processo del tempo furono in uso, a noi importate dai Franchi, come vedremo a suo luogo.

I Longobardi per 75 anni non ebbero leggi scritte: il primo a pubblicare un corpo di leggi col consenso della nazione fu Rotari nel 643, alle quali fece qualche modificazione Grimoaldo nel 668. Altre quattro aggiunte furono fatte da Liutprando nel 713, 717, 720 e 721, la quinta non ha data, sebbene sia assegnata nell'edizione dell'Eroldo all'anno 723. L'epoca della sesta, che è la più copiosa è del 724. In appresso altre aggiunte furono fatte da Rachis l'anno 746, secondo del suo regno, come anco da Carlo Magno e dai suoi successori. Queste leggi, tuttochè di popoli detti barbari, hanno il loro merito, nè si devono, come fecero alcuni, disprezzare senza ragione5.

Ho già avvertito di sopra, che i Longobardi lasciarono il libero uso delle leggi romane agli Italiani, e ciò rilevasi anche da quelle stesse di Liutprando (V. lib. VI, c. 37); ma molto più ce ne dimostrano l'uso le non poche carte, che abbiamo ancora, relative a persone ed a fondi sulle sponde del nostro [p. 170 modifica]Lago6. Questa distinzione di leggi ci manifesta eziando, e giova ora notarlo, non la sola diversità, ma e la divisione, che allora vigeva tra le due nazioni dei vinti e dei vincitori. Però allorquando anche i secondi caddero alla loro volta sotto il dominio di un re straniero, gli interessi e i bisogni di amendue i vinti e vecchi e nuovi divennero a poco a poco comuni, la divisione disparve e sola si mantenne la distinzione. Tutta la differenza quindi che li separava non era, si può dire, che legale, ma anche questa col tempo venne a sparire, sicchè i due popoli vennero da ultimo a fondersi in uno, legato da poi dalle stesse leggi, e dai vincoli sacri di una medesima fede; e ciò che più importa per l'unità di nazione, dallo stesso linguaggio, il dialetto lombardo.

Alla stessa guisa, che gli antichi abitatori delle nostre contrade di razza celtica e gallica, perduta la propria autonomia, divennero, qual che si fosse la loro schiatta, sotto il dominio dei Romani, dapprima nazione gallica e poscia colla ottenuta cittadinanza Romana, anche Romani e per l'attribuzione del proprio territorio a limitrofi municipii ad un medesimo tempo anche Italiani parlanti una medesima lingua; i Longobardi egualmente finirono, nè più nè meno dei primi, col divenire Italiani al paro degli altri popoli tutti della penisola, pur sussistendo nell'unità di una sola e medesima lingua, ch'è patrimonio comune, la distinzione del dialetto.

In aspettazione che queste mie osservazioni ricevano il pieno loro sviluppo nei libri, che seguono, mi sia concesso di [p. 171 modifica]notare sin d’ora un qualche cosa appunto relativo al dialetto, che pure nelle nostre contrade è il lombardo colle solite non sostanziali differenze che in generale si ravvisano dunque a seconda dei varii centri, ai quali usa una popolazione, e delle peculiari circostanze de’ luoghi, ne’ quali hanno soggiorno.

Lo studio de’ dialetti ai dì nostri fece larghi progressi ed ogni angolo d’Italia, dove sia notevole distinzione, fu ricercato e frugato e l’attenzione dei dotti vi fu sopra pei dovuti confronti. Basterà citare a questo proposito il Vocabolario Milanese-Italiano di Fr. Cherubini (Milano, 1839-56, Vol. 5) e il Vocabolario dei Dialetti della città e diocesi di Como di Pietro Monti (Milano, 1845, con appendice del 1856) e il Saggio sui Dialetti Gallo-Italici del Biondelli (Milano, 1853). Ma per venire al particolare delle nostre contrade, un saggio del dialetto del Lago Maggiore e della Valle d’Intragna si può cavare dagli Statuti della Società de’ Facchini, che esistono tuttora manoscritti nella Biblioteca Ambrosiana col titolo: Stetut dla gran bedie antighe di fechin dol lagh meiò, fondò in Milan, amplificò in tol ann present MDCCXV, vale a dire: Statuti della grande società antica dei facchini del Lago Maggiore, fondata in Milano e amplificata nel presente anno 17157.

Ma assai più famosa di questa e per la sua antichità e per la sua rinomanza era stata la Società, che si fingeva costituita in Milano dagli abitanti della Vale di Blegno, che solevano colà emigrare in gran numero per esercitarvi l’arte del facchino e del vinaio e parlanti ciascuno il proprio dialetto, col titolo di Academia della Valle di Bregno. Il precipuo ornamento di essa fu il pittore e poeta Giampaolo Lomazzo (1530-1601), che ne fu a voti comuni eletto principe8. A questo valentuomo [p. 172 modifica]appartengono per la maggior parte gli scherzi pubblicati nel 1589 sotto il titolo di Rabisch dra Academiglia dor compà Zauargna, nabad dra Vall d'Bregn ad tucch i su fidigl soghitt (cioè Scherzi dell'Accademia del compare Zavargna abate della Valle di Bregno e di tutti i suoi fedeli soggetti). Vi ha di questo lavoro una ristampa del 1627. Tuttavia non è a dire che il dialetto siasi conservato in questi scritti nella sua purezza e naturalezza e scevro da quelle esagerazioni, che ognuno ben comprende doversi supporre.

Più utile sotto questo rispetto sarebbe il Vocabolario che del dialetto della Valle Anzasca, limitrofa al nostro Lago, compilò il valente professor Belli, nativo di quella Valle9 e che rimase inedito. Si trova esso pure nella Biblioteca Ambrosiana, donde un saggio ne trasse il lodato Cherubini, che sta nelle sue Collezioni Dialettologiche MSS., come ne attesta il Prof. Ascoli nel suo Archivio Glottologico Italiano, Torino, 1873 (Vol. 1, p. 253).

Contemporaneamente al Prof. Belli lavorava anche un altro distinto professore nativo di queste sponde, Luigi Cobianchi, del quale si conservano manoscritti presso il Sig. Giacomo Cobianchi d'Intra gli Studii sui dialetti delle Valli Anzasca ed Intrasca con una serie di vocaboli di queste Valli in ordine alfabetico. A questi quasi appendice si aggiungono del medesimo le parole del gergo usate dai peltrai della Valle Anzasca, ed in fine i vocaboli particolari del dialetto di Trobaso e di Cossogno, raccolti dal Sig. Francesco de Notaris, zio, che fu, del Prof. Giuseppe de Notaris, del quale abbiamo fatto cenno sopra.

Tali sono le più importanti memorie lasciateci dai Longobardi. Io mi sono alquanto diffuso nella loro esposizione, perchè le reputo altresì necessarie al proseguimento del mio lavoro.

  1. Si hanno carte, scrive il Fumagalli (l. c. p. 91), nelle quali Carlo Magno s'intitola Re de'Longobardi, e dalle quali anche appare che egli incominciò a numerare gli anni di questo suo nuovo regno sino dagli ultimi mesi del 773, dacchè il suo esercito entrò in Italia: mentre altri lo datano dalla presa di Pavia nel giugno del seguente.
  2. Certum est tunc Alboin multos secum ex diversis, quas vel alii reges vel ipse ceperat, gentibus ad Italiam adduxisse, unde usque hodie carum, in quibus habitant, vicos, Gepidos, Bulgares, Sarmantas, Pannonios, Suavos, Novicos, sive aliis huiusmodi nominibus appellamus (II, 26).
  3. Fu questo Olegio per tal modo distinto da un altro Olegio presso Bellinzago, detto Olegio de'Scanulfi o de'Scariulfi, e poi de'Galulfi. Il nostro di presente è chiamato Olegio Castello, da una rocca ivi edificata posteriormente.
  4. Il Prof. Giovanni Flecchia nella sua Dissertazione linguistica di nomi locali dell'alta Italia, Torino, 1870, scrive alla p. 78 «Belgirate e Belvignate probabilmente composti di bello e girato e vignato. Nel secondo di questi nomi avremmo un equivalente di bel vignetto; ma nell'altro il senso non risulta abbastanza chiaro.» Così egli prudentemente; ma se avesse saputo, che Belgirate è corruzione alquanto recente di altra forma più antica Bulgarate, o Bugirate, come si voglia, sono persuaso che si sarebbe studiato di darne altra spiegazione. E questo esempio serva per tanti altri, che il lettore potrà trovare da sè scorrendo meco le antiche carte e paragonando i nomi di quelle coi presenti loro corrispondenti. A me pare che il primo studio in questo caso sia quello di accertare la forma antica dei nomi tenendo dietro anche alle successive loro modificazioni. Ciò del resto sia detto senza nulla detrarre al merito e ai lodevoli intendimenti del ch. Autore in una ricerca irta ancora di scogli e piena di difficoltà.
  5. Non s'intende con ciò di dire, che quelle leggi sieno tutte lodevoli. Per giudicarle rettamente converrebbe essere pienamente al fatto delle condizioni di quei tempi e dell'indole e genio della nazione. «Esser ne può, scrive il Fumagalli (l. c. p. 110), un esempio il duello nelle cause dubbie tra due contendenti o tra i due campioni scelti dalle parti. Per confessione dello stesso re Liutprando questo esperimento chiamato giudizio di Dio, spesse volte si è trovato fallace, e pure, come egli soggiunge, propter consuetudinem gentis nostrae Longobardorum legem impiam (altri e migliori Codici, due modenesi ed uno milanese, come nota il Muratori ad h. l., c'è la 65 del lib. VI, hanno ipsam, che sembra la tenzone genuina) vetare non possumus.» — il duello dunque è l'infausta eredità che abbiamo fatta dai Longobardi, e che dura in onta alle leggi, anche a dì nostri, nei quali siamo soliti di chiamar barbari i Longobardi, mentre assai più barbari in questo siamo noi, che lo tolleriamo e in mezzo a tanta pompa di civiltà! — Notevole è anche un'altra legge di Rotari relativa alle Streghe, delle quali altra volta era grande abbondanza. Nel §. 376 si legge: Nullus praesumat aldiam alienam aut ancillam quasi Strigam, quam dicunt mascam, occidere, quod Christianis montibus nullatinus credendum est, nec possivilem, ut mulier hominem vivum intrinsecus comedere.
  6. In esse è abbastanza frequente la formula qui professus sum lege vicere Longobardorum, e lege vicere Romanorum, od altre consimili. Opina il sullodato Savigny (T. p. 108 e seg.), che venuto alcuno all'età maggiore facesse innanzi alla competente autorità una dichiarazione di seguire questa o quella legge secondo la propria nazione, o quella propria di un altro, come del marito, se si trattasse della moglie. In questo modo si spiegherebbe un atto presente con una formula, che si riferisce al passato. Nota similmente che questa formula non si trova che in Italia e dall'epoca dei Carolingi in poi, essendo spurii quei documenti che da taluni si citano anteriori a quell'epoca. Diviene poi rara nel duodecimo secolo secolo e rarissima nel XIII e XIV, prova anche questa dell'unificazione, che si veniva operando dei due popoli in una sola nazione.
  7. Simili lavori in quei tempi erano alquanto frequenti. Tale sarebbe pur questo che ha per titolo: Badia di Meneghitt, stampata in Milano nel 1760.
  8. L’Argelati nella sua Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium, così parla di essa e del Lomazzo: Iohannes Paulus Lomatius in doctissima Academia Vallis Brenii ad Verbanum lacum, in que plures viri docti floruerunt, princeps omnium votis electus est.
  9. Il Dialetto della Valle Anzasca è in sostanza il medesimo delle nostre vallate Comasche, scrive il Monti nel suo Vocabolario cit. p. 478.