Il Dio dei viventi/XXVI
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Prima di uscire andò a lavarsi i piedi nel catino di pietra accanto al pozzo, perchè voleva tuffarli già mondi nel lavacro religioso del fiume; poi salutò tutti come per un lungo viaggio e si avvolse la testa nel fazzoletto nero che si tirò sugli occhi.
Bellia uscì sul portone per spiarla, e vide ch’ella camminava rasente al muro dove c’era l’ombra e non si mischiava ai gruppi delle altre donne che andavano al fiume. Un desiderio di andare anche lui coi fanciulli che correvano scalzi e le ragazze che ridevano d’amore lo prese alla gola, lo fece singhiozzare. Perchè non andava? Se andava, se immergeva la mano nell’acqua del fiume forse guariva. Chi gli proibiva di andare? Il lutto? Il male? La volontà del padre e quella della madre? Egli confondeva tutte queste cose in una sola, con rancore profondo. Ed ebbe voglia di ribellarsi, di uscire dalla prigione della sua casa e della sua tristezza, di fuggire, fuggire.
Si riavvicinò all’uscio di cucina, ma non entrò. Vide il padre che fumava la pipa; fumava con rabbia stringendo forte fra i denti il cannello e cercando di velarsi il viso col fumo: vide la madre che sbrigava silenziosa e furtiva le faccende che avrebbe dovuto far Rosa; vide zia Annia che filava, distante dagli altri, grave e assente come una parca: nessuno badava a lui. Lo tenevano dentro di loro, e quindi lo credevano al sicuro; ed egli tornò al portone, lo chiuse piano piano dal di fuori e se ne andò anche lui nella notte luminosa.
Il lume della luna era così chiaro che le cose si delineavano più nettamente che alla luce del sole, più compatte, con solo un contrasto fra il bianco e il nero ove non si sapeva quale dei due vincesse.
Anche dentro di sè Bellia sentiva questo contrasto: ombra e luce, dolore e gioia.
Lo stesso pensiero del suo male e quello di essere destinato a morire presto accrescevano questo suo senso di felicità dolorosa. Perchè vivere a lungo? Per soffrire di più? Era già annoiato di tutto: ma perchè? ma perchè? Il perchè lo sapeva bene anche lui, in fondo: sapeva che la vita oramai per lui aveva una piaga come la sua, misteriosa e inguaribile, aveva la mano destra morsicata dall’iniquità del castigo, e non valeva la pena di viverla.
Intanto camminava, nascondendo bene la mano entro il fazzoletto scuro perchè gli sembrava che la fasciatura bianca splendesse alla luce; e anche lui rasentava i muri cercando l’ombra sulle tracce di Rosa.
Coi passi delle sue gambe lunghe fu per raggiungere la serva; ma vide ch’ella si volgeva indietro sospettosa e anche lui per non essere riconosciuto si tirò indietro, scantonò: si fermò all’angolo della strada, poi tornò in avanti. Rosa era sparita. La luna illuminava la casetta bianca, la porta verniciata, la loggia della casa di Lia; e anche quella facciata, fra le casette scure, aveva un chiarore strano come di luce propria.
Egli ebbe subito il sospetto che Rosa fosse entrata lì: a far che non sapeva: si sa mai quello che fanno gli altri? E d’un tratto fu preso dalla necessità di sapere se Rosa era là dentro, e dal desiderio di picchiare, entrare, assicurarsene.
Giunto alla porta non osò. In fondo aveva paura di Lia perchè come Zebedeo per Salvatore per lui quella donna rappresentava il male.
Non picchiò, ma si divertì a urlare: un urlo usato dai pastori per spaventare i ladri nelle notti di tempesta, gutturale e fischiante, con una nota diabolica che pareva scaturisse di sotterra.
Poi corse di nuovo a nascondersi dietro un muricciuolo un po’ più avanti della casa di Lia.
Di là vide Rosa uscire guardinga; la strada era deserta e la ragazza stette un attimo incerta se andare avanti o tornare indietro; andò avanti; arrivata al muricciuolo aprì il pugno, e dal pugno parve sbocciare un grande flore bianco: un fazzoletto che ella aveva rubato a Lia.
Bellia saltò sul muricciuolo e ripetè il suo urlo, e parve il diavolo balzato fuori da una scatola.