Il Catilinario ed il Giugurtino/Vita di F. Bartolommeo
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Traduzione dal latino di Bartolomeo da San Concordio (1843)
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VITA
DI
FRATE BARTOLOMMEO
DA SAN CONCORDIO
SCRITTA
Frate Bartolommeo nacque nel 1262 in San Concordio, castello del contado di Pisa, della famiglia de’ Granchi, per chiarità di sangue e per gentilezza molto pregiata. Gli fu larga la natura di tutti i suoi doni: e robusta persona e più robusto animo gli diede; e l’ornò di sottilissimo ingegno e di mirabile memoria. I quali doni essendosi per tempo egli deliberato di crescere e mantenersi; il corpo con la temperanza rendeva tollerante della fatica, e la mente nutriva di utili e sane discipline. Anzi certa cosa è ch’ei visse mai sempre contento a una sola vivanda, e tutte le sue ore diè allo studio; in tanto che, giunto all’età di quindici anni, accesosi viemaggiormente del desiderio di sapere, e volendo fuggire i pericoli del mondo, fermò nell’animo di rendersi religioso. Nè lo ritennero o lo splendore del suo stato, o la tenerezza della sua famiglia, dal mandare ad effetto il suo santo disegno: sicchè fu ricevuto all’ordine dei Domenicani, fiorente allora per la santità e dottrina de’ suoi Frati. Tra i quali avendo avuto in sorte di trovar maestri, eccellenti secondo la condizione di quei tempi, compiè i suoi studii, e venne conventato non meno in divinità che in giurisprudenza. Ma, intendendo egli che le lettere non possono stare disgiunte dalla filosofia, ch’è la fiaccola d’ogni maniera di discipline, e che la filosofia senza l’ajuto delle lettere non saprebbe esprimere con proprietà ed eleganza i suoi trovati e le sublimi teoriche; con uguale zelo sì in quelle e sì in questa studiò. E, bramoso, com’egli era, di sempre apparare, grande ostacolo era a questo suo onesto desiderio la rarità de’ libri; non essendo ancora a que’ giorni inventata la preziosa ed utilissima arte della stampa. Il perchè molto fu lieto e confortato quando, per comandamento de’ Prelati del suo ordine, dovette andare a Parigi; dappoichè, così viaggiando per l’Italia e per la Francia, molti libri gli avvenne di potersi procacciare, e studiarli. Ritornato quindi di Francia, dove, per alcune sue opere, che si conservano scritte in penna, scorgesi che insegnasse lettere latine ed eloquenza; in più generazioni di studii esercitò l’ingegno. Conciossiachè compose una eccellente Teologia Morale, che fu avuta allora e dipoi in gran pregio, e che dagli scrittori ecclesiastici molto è commendata: e chi la Maestruzza, e chi la Pisanella l’addimanda. La quale l’Oudino spezialmente dice essere di tanta eccellenza, ch’ei la crede opera necessaria a chiunque voglia o la sua, o l’altrui coscienza dirittamente regolare; e forte si maraviglia che il P. Auximano osasse di prendere ad ampliarla. Nè deesi tacere a sua singolare commendazione che da questa egregia opera, come da prima scaturigine, rampollarono molti nobili trattati di Teologia di chiari autori, i quali, come eglino medesimi affermano, molto trassero da essa nel comporre quei loro libri; ed in ispezialtà molto si pregia di essersene giovato il p. Angelo da Calavria nel condurre la sua Somma Angelica, così detta dal suo nome, e per errore da alcuni creduta di s. Tommaso. Ei vacò altresì alle scienze profane; e il suo compendio della Morale Filosofia, il trattato delle Virtù e de’ Vizii, e la sposizione della Logica e della Metafisica di Aristotele, lo fecero venir in voce di sommo filosofo. E tra si fatte opere vuoisi annoverare pur quella sua celebratissima, che porta il titolo di Ammaestramenti degli Antichi: perocchè anche in questo libro le virtù e i vizii discorre, e, ordinatili in quattro diversi trattati, va come ape cogliendo dagli scrittori sacri e profani le sentenze ed i luoghi più accomodati a mostrare la laidezza e le funeste conseguenze del vizio, e la sincera bellezza della virtù, e il soave frutto che da essa s’ingenera. A’ quali luoghi e sentenze di antichi scrittori, va egli a quando a quando frammettendo degl’insegnamenti suoi proprii, che non meno de’ primi fan prova. Il qual libro egli compilò in latino: e di poi, richiestone da un messer Geri degli Spini, valente uomo ed onorevol cittadino di Firenze, traslatò in volgare; ed in tal guisa, che il Salviati ebbe a dire che in esso si vede sparsa per tutto maravigliosamente la brevità, la chiarezza, la vaghezza e la purità della lingua del trecento: ed inoltre si duole che sia piccolo volume, chè altramente sarebbe gran ventura del nostro idioma. Ma non si appagò di questa parte solo della filosofia: chè fu anche molto intendente di matematica e di astronomia, come ne fanno fede varii suoi trattati, che si conservano scritti a mano, e infra gli altri una Tabula ad inveniendum Pascha. E, perchè di niuna mancasse delle scienze, comechè grandemente occupato negli studii più severi, e già uomo di tempo, volle eziandio apparar musica; donde alcune volte, stanco delle profonde meditazioni, traeva conforto ed innocente diletto. Chè egli ben sapeva che questo nobilissimo trovato della mente umana era stato sempre avuto in grande stima da’ savii uomini di tutte le età; che i Greci, maestri di ogni maniera di sapere e di gentilezza, molto la musica coltivarono; e che Socrate, il savissimo degli uomini, fatto già vecchio, pur volle impararla. Nella storia studiò ancora con grande diligenza ed amore, avvisando di doverne trarre utili documenti. Dappoichè, narrando essa gli avvenimenti di tutt’i tempi, e così i fatti de’ grandi principi e famosi capitani, come le opere egregie e le scelleratezze e gli errori de’ privati uomini, ci sprona a virtù, ci fa abborrire il vizio, e c’insegna saviezza e prudenza: onde Cicerone la chiamò fiaccola di verità e maestra della vita; e Dionigi d’Alicarnasso disse, la storia essere la filosofia per esempli. Però tanto egli s’internò in questo studio, e ne divenne sì pratico, che senza soccorso d’altrui molto discretamente ordinò i Glossatori della Divina Scrittura: e di poi dettò le Croniche del Monastero di Santa Caterina di Pisa, che ivi si conservano tutt’ora. Le quali due opere sono lodate a cielo da tutti gli scrittori che parlano di questo valente uomo; e la seconda spezialmente ci ha conservato molte importanti notizie di quel tempo, ed è stata ed è sommamente utile agli antiquarii e agli studiosi delle memorie della nostra Italia. E, se Aristotele, Platone, Quintiliano, Cicerone, e lo stesso Cesare, non credettero spregevol cosa il comporre opere intorno la grammatica, o il trattar quistioni grammaticali in alcun luogo delle loro scritture, non dee certamente recar maraviglia che frate Bartolommeo anche in quest’arte volesse molto internarsi, e che scrivesse trattati sopra questo argomento. I quali, scritti in penna, si conservano in Parigi nella Biblioteca del Re; e sono De pronuntiatione vocum latinorum, e De ortographia latina: ed il Manni nella prefazione agli Ammaestramenti degli Antichi avvisa che del primo di questi si debba intendere che parli il Cinelli, là dove fa menzione dell’Arte Poetica del nostro autore. Ma, o che sia come pensa il Manni, o che veramente ei componesse questa Poetica, non avendo noi argomenti abili a rifermar questo fatto, ci rimarremo dal disputarne; e diremo solamente che le sue Annotazioni alle opere di Seneca, e il Commento a Virgilio, riferito con lode da tutti coloro che han ragionato di lui, non meno che le altre sue opere di sopra mentovate, sono un saldo testimonio della grande perizia e dottrina ch’egli ebbe nelle lettere latine. Laonde mostreremo più avanti come fosse tratto in errore un solenne e finissimo critico, che il giudicò poco intendente, anzi ignorante della latina favella. Con la grammatica congiunse anche la rettorica; e dettò un libro della Memoria artificiale, e traslatò in volgare il trattatello di Tullio della Memoria, il quale fu, non ha molti anni, pubblicato per le stampe. Scrisse inoltre latinamente de’ Sermoni quaresimali, rammentati dal Labbé nella Dissertazione istorica che va innanzi alle opere del Bellarmino, e che il Cave dice essere stati messi a stampa in Lione l’anno 1519. Di queste Orazioni non possiamo dar giudizio, perocchè non abbiamo potuto in alcun modo procacciarcele: ma, vedendo che i mentovati autori non sono con esse punto scarsi di lode, e, ch’è più, che furono mandate in luce in un tempo in cui fiorivano i buoni studii, non possiamo dubitare che sieno adorne di molti pregi: anzi noi crediamo che per questi Sermoni tanto crescesse la sua fama, e tutti il tenessero dottissimo in rettorica, e facondo oratore. Ma non abbiamo punto a dolerci che le surriferite opere, note solo a pochi letterati, restino ancora sepolte nella polvere: dappoichè intorno a que’ medesimi subjetti va per le mani di tutti gran copia di nobilissime scritture. Molto dobbiamo per contrario essere lieti di possedere e gli aurei Ammaestramenti degli Antichi, e l’egregia versione di Sallustio, che ora diamo nuovamente in luce. Della quale prima che ragioniamo, sarà pregio dell’opera recare il giudizio del Salviati, e brevemente dichiararlo. Egli dice: «Il Volgarizzamento di Sallustio in genere è tutta pura e buona favella, ma affogato nella pedanteria e nella ignoranza del volgarizzatore, il quale, non intendendo il latino, per non si disagiare, l’andava secondando, e così faceva quasi una nuova lingua tra fiorentina e gramaticale, sì nelle parole e sì nella loro forma.» Innanzi tratto è mestieri che ricordiamo come il Salviati non sapeva dell’autore di questo Volgarizzamento. Imperocchè il primo, che ciò fece aperto, fu l’Accademico fiorentino, che lo diè fuori la prima volta; il quale ebbe la ventura di rinvenire nella Laurenziana un codice scritto nella metà del secolo XIV, nel cui principio leggesi il seguente ricordo = Qui comincia il Sallustio recato in volgare per Frate Bartolommeo da Pisa dell’ordine dei Predicatori, a petizione del Nero Cambi di Firenze. = E questo dir volemmo a significare che, quantunque il Salviati fosse uomo di finissimo giudizio e avvisato critico, pur nondimeno, ignorando che quel Volgarizzamento fosse di frate Barlolommeo da San Concordio, che egli tanto aveva in pregio, dovette prendere ad esaminarlo con minor diligenza che fatto non avrebbe sapendo dell’autore. Inoltre i codici Strozzi e Rinuccini, ch’egli ebbe a mano, sono, come pur egli afferma, sì disformati e guasti da’ copiatori, che vi si cercherebbe invano la vera forma di questo Volgarizzamento. In quanto poi alla pedanteria, in cui si dice affogato, non sapremmo in tutto accordarci alla sentenza del mentovato Accademico: il quale si fa a credere che il Salviati stimasse pedanteria l’adattarsi alcuna volta troppo alla desinenza delle voci latine, e l’adoperare de’ pretti latinismi. Le desinenze delle parole, troppo conformi alle latine, non ci sembra che movessero quel valente uomo ad accusar di pedanteria questo forbito lavoro; ma sì bene le voci, le frasi e i modi latini introdotti, secondo lui, con troppa libertà nel suo dettato. Perocchè quella mischianza di grammaticale e fiorentino, appostagli, a questo senza più è a riferire: sendo risaputa cosa che il Salviati, ed altri ancora chiarissimi ingegni di quel tempo, sdegnavano tutto ciò che non fosse pretto fiorentino; e credevano (tanto erano in questo severi, e dirci quasi superstiziosi ) che per fino l’uso de’ più vivaci e spiritosi modi e favellari tolti al latino ed al greco, e renduti toscani con bell’artifizio, fosse un violar la purezza e la nativa semplicità del loro volgare. Ma, per quanto sia grande il rispetto che abbiamo a questo insigne letterato, non possiamo rimanerci dal dire che non sembraci secondo ragione questo suo avviso. Chè altramente saremmo costretti a trovare pedanteria in molti de’ primi padri del nostro idioma, ne’ più nominati volgarizzatori del trecento e del cinquecento, ed in ispezialtà nell’aurea versione di Livio, e nello stesso Dante, nelle opere immortali del Poliziano, dell’Ariosto, del Casa, del Firenzuola e del Caro, i quali arricchirono maravigliosamente la nostra favella di tante nobili locuzioni greche e latine, e d’innumerevoli frasi e leggiadre. E dell’ignoranza del latino di frate Bartolommco non accade far molte parole, avendo mostrato avanti ch’egli era molto dotto di questa lingua, e potendosi anche agevolmente ciò inferire dalla sua stessa versione degli Ammaestramenti degli Antichi. Nella quale, oltre a tutti gli altri pregi che la rendono uno dei principali esempii di stile nobile, efficace e vigoroso, si scorge eziandio quanta dimestichezza egli avesse co’ latini scrittori, sì per lo squisito magistero col quale ne traslata le sentenze in volgare, e sì perchè non meno di quasi duemila ne raccolse, tratte da centoventi diverse opere, a comporre quel suo preziosissimo libro. Laonde, avendo fatto aperto le ragioni che ebbe il Salviati per non dar le stesse lodi al Volgarizzamento di Sallustio che diede agli Ammaestramenti degli Antichi, non dubiteremo di affermare essere questo una delle più limpide fonti di nostra favella, nel quale si vede congiunta all’aurea semplicità e purezza la brevità, la forza, la maestà e lo splendore. Anzi noi crediamo che questo sol libro basterebbe a provare che la nostra lingua non solo ceder non dee alla latina, ma sì bene che in alcune cose le entra pure innanzi. Conciossiachè Sallustio, principe degli storici latini, e che il Gravina disse scrittor maestro e proporzionato alla grandezza romana, non solo non perde in questo Volgarizzamento nulla delle principali doti della sua locuzione rapida e dignitosa, ma ci sono de’ luoghi, dove il volgarizzatore, se non vogliam dire che avanzi, pareggia almeno il suo autore. E, per toccarne alcuno de’ molti, il maraviglioso ritratto di Sempronia, femmina, com’egli dice, che sapea bene di lettera in greco ed in latino, e d’ardimento d’uomo reo, serba nella versione tutta la vivezza e il maschio vigore che ammiriamo nell’originale. La laida dipintura de’ sozzi e malvagi costumi di Catilina, la diceria a’ suoi compagni, il giuramento suggellato con libazioni di sangue d’uomo mescolato con vino, e in fine la sua morte, se c’infondono spavento in Sallustio, in frate Bartolommeo ci fanno abbrividire e tremare. Laonde ci si conceda di metter sotto gli occhi a’ lettori questo eloquentissimo luogo della morte di quel ferocissimo, con a lato il latino, perchè si possa conoscere apertamente l’arte maravigliosa di così impareggiabile maestro. Sallustio dice: Catilina vero, longe a suis, inter hostium cadavera repertus est paullulum etiam spirans, ferociamque animi, quam habuerat virus, in vultu retinens. Il Volgarizzamento ha così: Catilina di lungi dagli suoi fu trovato alquanto sospirando; la ferocia dell’animo, che avea avuto vivo, anche in faccia mostrava. Con maggior puntualità e con istile più riciso non crediamo che potrebbesi traslatare questa vivissima descrizione: e cento altri luoghi sarebbero da arrecare più vaghi ed eleganti, ne’ quali si ritrovano congiunti questi stessi pregi, ed anche maggiori; come, nel Giugurtino, dove si descrivono le antiche discordie di Roma, l’aringa di Micipsa vicino a morire, il ritratto di Giugurta e di Siila, e sopra tutto quella caldissima orazione di C. Mario, che tralasciamo per amore di brevità. Onde noi avvisiamo che, se molto commendato fu mai sempre il libro degli Ammaestramenti degli Antichi, in egual pregio, ed anche maggiore, dovrà aversi questo Volgarizzamento. Avvegnachè in quell’opera, tutta tessuta di brevi sentenze, non poteva questo valente uomo dispiegare la grande maestria, ch’egli avea, di traslatare con libera e franca maniera; e mantenendo altresì l’indole e la dignità dello scrittore, e l’arte maravigliosa dello stile, sia nel collocare convenevolmente le parole, sia nell’ordinare con veemenza ed efficacia gl’incisi e i periodi, ed annodarli insieme con bel garbo e naturalezza. Ed ora, ai particolari ritornando di questo glorioso, diremo: ch’egli fu di robusta persona e aspetto venerando; ebbe animo mite e temperato, santissimi costumi, ingegno maraviglioso ed acconcio ad ogni generazione di studii, vigorosa e casta eloquenza; seppe molto avanti in grammatica; meditò profondamente le antiche istorie; fu solenne teologo e filosofo insigne. Passò di questa vita a’ 2 di luglio dell’anno 1347 nell’età di 85 anni, de’ quali spese la più gran parte in ammaestrare gli uomini sì con l’esempio e sì con le opere: e però non dobbiamo essere maravigliati se riposata e serena sia stata la sua vita, rimpianta da’ buoni la morte, e cara sempre ed onorata la sua memoria.