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prefazione xli

di quel tempo, ed è stata ed è sommamente utile agli antiquarii e agli studiosi delle memorie della nostra Italia. E, se Aristotele, Platone, Quintiliano, Cicerone, e lo stesso Cesare, non credettero spregevol cosa il comporre opere intorno la grammatica, o il trattar quistioni grammaticali in alcun luogo delle loro scritture, non dee certamente recar maraviglia che frate Bartolommeo anche in quest’arte volesse molto internarsi, e che scrivesse trattati sopra questo argomento. I quali, scritti in penna, si conservano in Parigi nella Biblioteca del Re; e sono De pronuntiatione vocum latinorum, e De ortographia latina: ed il Manni nella prefazione agli Ammaestramenti degli Antichi avvisa che del primo di questi si debba intendere che parli il Cinelli, là dove fa menzione dell’Arte Poetica del nostro autore. Ma, o che sia come pensa il Manni, o che veramente ei componesse questa Poetica, non avendo noi argomenti abili a rifermar questo fatto, ci rimarremo dal disputarne; e diremo solamente che le sue Annotazioni alle opere di Seneca, e il Commento a Virgilio, riferito con lode da tutti coloro che han ragionato di lui, non meno che le altre sue opere di sopra mentovate, sono un saldo testimonio della grande perizia e dottrina ch’egli ebbe nelle lettere latine. Laonde mostreremo più avanti come fosse tratto in errore un solenne e finissimo critico, che il giudicò poco intendente, anzi ignorante della latina favella. Con la grammatica congiunse anche la rettorica; e dettò un libro della Memoria artificiale, e traslatò in volgare il trattatello di Tullio della Memoria, il quale fu, non ha molti anni, pubblicato per le stampe. Scrisse inoltre latinamente de’ Sermoni quaresimali, rammentati dal Labbé nella Dissertazione istorica che va innanzi alle opere del Bellarmino, e che il Cave dice essere stati messi a stampa in Lione l’anno 1519. Di queste Orazioni non possiamo dar giudizio, perocchè non abbiamo potuto in alcun modo procacciarcele: ma, vedendo che i mentovati autori non sono con esse punto scarsi di lode, e, ch’è più, che furono mandate in luce in un tempo in cui fiorivano i buoni studii, non possiamo dubitare che sieno adorne di molti pregi: anzi noi crediamo che per questi Sermoni tanto crescesse la sua fama, e tutti il tenessero dottissimo in rettorica, e facondo oratore. Ma non abbiamo punto a dolerci che le surriferite opere, note solo a pochi letterati, restino ancora sepolte nella polvere: dappoichè intorno a que’ medesimi subjetti va per le mani di tutti gran copia di nobilissime scritture. Molto dobbiamo per contrario essere lieti di possedere e gli aurei Ammaestramenti degli Antichi, e l’egregia versione di Sallustio, che ora diamo nuovamente in luce. Della quale prima che ragioniamo, sarà pregio dell’opera recare il giudizio del Salviati, e brevemente dichiararlo. Egli dice: «Il Volgarizzamento di Sallustio in genere è tutta pura e buona favella, ma affogato nella pedanteria e nella ignoranza del volgarizzatore, il quale, non intendendo il latino, per non si disagiare, l’andava secondando, e così faceva quasi una nuova lingua tra fiorentina e gramaticale, sì nelle parole e sì nella loro forma.» Innanzi tratto è mestieri che ricordiamo come il Salviati non sapeva dell’autore di questo Volgarizzamento. Imperocchè il primo, che ciò fece aperto, fu l’Accademico fiorentino, che lo diè fuori la prima volta; il quale ebbe la ventura di rinvenire nella Laurenziana un codice scritto nella metà del secolo XIV, nel cui principio leggesi il seguente ricordo = Qui comincia il Sallustio recato in volgare per Frate Bartolommeo da Pisa dell’ordine dei Predicatori, a petizione del Nero Cambi di Firenze. = E questo dir volemmo a significare che, quantun-

Bart. da S. C., Sallustio. f