que il Salviati fosse uomo di finissimo giudizio e avvisato critico, pur nondimeno, ignorando che quel Volgarizzamento fosse di frate Barlolommeo da San Concordio, che egli tanto aveva in pregio, dovette prendere ad esaminarlo con minor diligenza che fatto non avrebbe sapendo dell’autore. Inoltre i codici Strozzi e Rinuccini, ch’egli ebbe a mano, sono, come pur egli afferma, sì disformati e guasti da’ copiatori, che vi si cercherebbe invano la vera forma di questo Volgarizzamento. In quanto poi alla pedanteria, in cui si dice affogato, non sapremmo in tutto accordarci alla sentenza del mentovato Accademico: il quale si fa a credere che il Salviati stimasse pedanteria l’adattarsi alcuna volta troppo alla desinenza delle voci latine, e l’adoperare de’ pretti latinismi. Le desinenze delle parole, troppo conformi alle latine, non ci sembra che movessero quel valente uomo ad accusar di pedanteria questo forbito lavoro; ma sì bene le voci, le frasi e i modi latini introdotti, secondo lui, con troppa libertà nel suo dettato. Perocchè quella mischianza di grammaticale e fiorentino, appostagli, a questo senza più è a riferire: sendo risaputa cosa che il Salviati, ed altri ancora chiarissimi ingegni di quel tempo, sdegnavano tutto ciò che non fosse pretto fiorentino; e credevano (tanto erano in questo severi, e dirci quasi superstiziosi ) che per fino l’uso de’ più vivaci e spiritosi modi e favellari tolti al latino ed al greco, e renduti toscani con bell’artifizio, fosse un violar la purezza e la nativa semplicità del loro volgare. Ma, per quanto sia grande il rispetto che abbiamo a questo insigne letterato, non possiamo rimanerci dal dire che non sembraci secondo ragione questo suo avviso. Chè altramente saremmo costretti a trovare pedanteria in molti de’ primi padri del nostro idioma, ne’ più nominati volgarizzatori del trecento e del cinquecento, ed in ispezialtà nell’aurea versione di Livio, e nello stesso Dante, nelle opere immortali del Poliziano, dell’Ariosto, del Casa, del Firenzuola e del Caro, i quali arricchirono maravigliosamente la nostra favella di tante nobili locuzioni greche e latine, e d’innumerevoli frasi e leggiadre. E dell’ignoranza del latino di frate Bartolommco non accade far molte parole, avendo mostrato avanti ch’egli era molto dotto di questa lingua, e potendosi anche agevolmente ciò inferire dalla sua stessa versione degli Ammaestramenti degli Antichi. Nella quale, oltre a tutti gli altri pregi che la rendono uno dei principali esempii di stile nobile, efficace e vigoroso, si scorge eziandio quanta dimestichezza egli avesse co’ latini scrittori, sì per lo squisito magistero col quale ne traslata le sentenze in volgare, e sì perchè non meno di quasi duemila ne raccolse, tratte da centoventi diverse opere, a comporre quel suo preziosissimo libro. Laonde, avendo fatto aperto le ragioni che ebbe il Salviati per non dar le stesse lodi al Volgarizzamento di Sallustio che diede agli Ammaestramenti degli Antichi, non dubiteremo di affermare essere questo una delle più limpide fonti di nostra favella, nel quale si vede congiunta all’aurea semplicità e purezza la brevità, la forza, la maestà e lo splendore. Anzi noi crediamo che questo sol libro basterebbe a provare che la nostra lingua non solo ceder non dee alla latina, ma sì bene che in alcune cose le entra pure innanzi. Conciossiachè Sallustio, principe degli storici latini, e che il Gravina disse scrittor maestro e proporzionato alla grandezza romana, non solo non perde in questo Volgarizzamento nulla delle principali doti della sua locuzione rapida e dignitosa, ma ci sono de’ luoghi, dove il volgarizzatore, se non vogliam dire che avanzi, pareggia almeno il suo autore. E, per toccarne alcuno de’ molti, il maraviglioso ritratto di