Capitolo XXXIX

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Gaio Sallustio Crispo - Il Catilinario (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Bartolomeo da San Concordio (XIV secolo)
Capitolo XXXIX
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CAPITOLO XXXIX.


Diceria di Catone in senato per condannare li presi.


Poichè Cesare ebbe fatto fine di suo dire, molti s’accordavano a suo detto1, altri al detto altrui isriatamente. Ma M. Porzio Catone, addomandato di sua sentenzia, fece cotal diceria: Molto è in tutto isvariata la mia mente, Padri conscritti, quando considero il fatto e li pericoli nostri, e ripenso meco medesimo le sentenzie d’alcuni dicitori. Egli mi pare ch’abbino solamente parlato della pena di coloro che alla patria e agli padri e agli altari e a’ fuochi loro2 aveano battaglia disposta e ordinata; ma la natura del fatto ci ammonisce maggiormente di guardarci da loro, che consigliare e considerare che di loro debba essere stabilito e ordinato. Perocchè tutti gli altri malfatti allora si deono punire quando fatti sono; questo, se non provvedi in tale modo che non avvegna, poichè avvenuto sarà, per niente andrai cercando e domandando giudizio contra di coloro: chè, presa e vinta la città, non rimane niente a questi che vinti sono. Ora io v’appello, per Dio, voi li quali sempre le case e le ville, gl’intagli e le tavole vostre avete più in pregio3 che la [p. 58 modifica]repubblica: se queste cose, qualunque sieno, le quali così abbracciate e strignete, volete e desiderate ritenere, e se a vostra volentà disiderate riposo; isvegliatevi alcun tempo, e prendete cura della repubblica. Chi ora non si ragiona delli tributi del popolo romano, nè dell’ingiurie de’ vostri compagni; la libertà e la vita nostra è in dubbio. Ispessamente. Padri conscritti, io ho fatte molte parole nel senato; spessamente della lussuria e della avarizia de’ nostri cittadini io ho fatto lamenti; per la qual ragione molti mi son contrarii: chè io, il quale a me e al mio animo non concedei giammai grazia nè perdorianza di niuno peccato, non di leggieri perdonava gli altrui. Le quali cose avvegnachè voi poco curaste, ma allora la repubblica era ferma4, e per sue ricchezze e potenzia sosteneasi la negligenzia ch’era. Ora non si parla egli se noi meniamo male o bene nostra vita, nè quanto o quale sia lo imperio romano; ma si parla di queste cose ch’avemo, quali o quante sieno, se elle debbeno essere tutte con noi, o se tutte insieme debbano essere de’ nostri nemici. Qui mi nomina alcuno uomo mansuetudine o misericordia. Già certamente avemo perduto lo verace nominare delle cose: chè donare gli beni altrui chiamiamo larghezza, e ardire di malvage cose fortezza: e però la repubblica è in sullo stremo e in sulla fine venuta. Sieno baldamente5 li Romani, da che questo è l’usato, liberali e larghi di quello che tolgono a’ loro nimici6; sieno misericordiosi contra coloro che furano7 l’avere del comune: ma non donino il nostro sangue medesimo, e, perdonando a pochi malvagi, tutti li buoni mettano a pericolo. Bene e ornatamente G. Cesare in suo dire parlò della vita e della morte, secondo ch’io credo reputando egli non fosse vero quello che dello inferno si dice: che ad altra via dopo la morte vadano gli rei che gli buoni8, e ch’egli abbiano luoghi villani, sozzi e molto spaventevoli. Disse e giudicò che lor beni fossono pubblicati9, e eglino fossono tenuti per le castella in prigione e in guardia: quasi temendo che, se forse fossono in Roma, non fossono tolti per forza, e liberati, o dalla gente de’ congiurati, o da altra moltitudine che producessono: siccome se gli rei e gli malvagi uomini solamente sieno in Roma e non per tutta Italia; o come l’ardimento de’ rei non abbia maggior potenzia la dove è meno vigore da contrastare loro. Onde vano è certamente questo cotale consiglio, se egli teme di loro; e, se in cotanta dottanza10 e dubbio di tutti solo egli non teme, per tanto bisogna a me e a voi di più temere. Per la qual cosa abbiate per certo che, quando voi di P. [p. 59 modifica]Lentulo e degli altri giudicherete come si converrà, che voi giudicate insieme con loro dell’oste di Catilina e di tutti i suoi congiurati: perocchè quanta voi più attesamente farete queste cose, tanto ne sarà più debole il loro animo; e s’elli vedranno che voi in ciò solo un poco rallentiate, sì tosto saranno eglino tutti più feroci. Non crediate voi che li nostri maggiori per forza d’arme facessono la repubblica di piccola grande, chè, se così fosse, noi l’avremmo molto più, e via maggiore, perciocchè d’amici e di cittadini e anche d’arme e di cavalli maggiore abbondanza avemo noi che non ebbono eglino. Ma altre cose furono quelle che grande la feciono, delle quali noi non avemo niente; cioè: in casa studiare a bene; di fuori giustamente signoreggiare; e l’animo negli consigli aver libero, non sottomesso per peccato nè per altra voglia. In luogo di queste cose avemo noi lussuria e avarizia; nel comune la povertà, in privato la ricchezza; lodiamo la pecunia, seguitiamo la pigrizia; tra’ buoni e rei non c’è differenza; tutti onori e tutti meriti di virtude si tengono e si posseggono solo dall’ambizione. E ciò non è maraviglia, da che ciascuno di voi singularmente spartito11 prende suo consiglio. E, poichè a casa vostra avete servito a vostre volontadi, qui servite alla pecunia, o a grazia di vostri amici; e però addiviene che si fa impeto e assalimento contra l’abbandonata repubblica. Ma lascio questo stare. Hanno ora congiurato li nobilissimi cittadini d’incendere nostra terra; hanno indotta contra di noi la gente francesca, molestissima al nome romano; e il duca de’ nemici coll’oste c’è sopraccapo12: e voi indugiate, e ancora sete in dubbio de’ nimici, dentro della città compresi, che sia da fare. Io giudico che voi abbiate misericordia di loro: chè questi malfattori sono uomini giovani, e peccarono per loro grande desiderio d’onore. Lasciategli andar via, eziandio armati; ma guardatevi che questa mansuetudine e questa misericordia non vi torni in miseria. Il liberargli è cosa dura, ma voi non la temete: certo sì fate, e molto13; ma la pigrizia e la mollezza dell’animo vi fa indugiare, aspettando l’uno l’altro: quasi confidandovi degli Dii immortali, i quali sempre ne’ grandi pericoli la nostra repubblica hanno conservata. Non per voti nè per orazione di femmine vengono tali ajutorii14: vegghiando, operando, e ben consigliando, tutte cose vengono prospere: là dove ti darai a miseria di cuore e pigrizia di corpo, per niente pregherai. [p. 60 modifica]gli Dii, che irati e contrarii ti sono. Appresso li nostri maggiori T. Manlio Torquato nella battaglia francesca, imperciocchè il figliuolo, contra il comandamento fatto, combattè col nimico, comandò, e fecelo uccidere; e quello gentil giovine per la sua troppa vigoria sostenne pena di morte. E voi de’ crudelissimi patricidi dubitate che si debbia fare? Questo è perchè l’altra lor vita contraddice a queste lor malgità. Veramente perdonate alla dignità di Lentulo, s’egli perdonò, o sì riguardò mai alla sua onestà o agli Dii o a uomo niuno; perdonate alla giovinezza di Cetego, s’egli non mosse un’altra volta guerra e battaglia a questa città. Ma perch’io parlerei di Gabinio, Statilio, e Cepario? i quali, se unque avessono avuto niente di pensamento della repubblica, cotali consigli non avrebbono avuti15. All’ultimo, o Padri conscritti, per l’alto Iddio vi giuro che, se il peccato loro potesse aver luogo a perdonare16, di leggieri sosterrei io che voi foste corretti per quest’opera, perocchè dispregiate le mie parole. Ma noi semo da ogni parte circondati da’ nemici. Catilina con l’oste nell’entrata di Toscana si sforza contra di noi; e dentro le mura, nel seno della città, sono gli nimici; e non possiamo nè ordinare, nè consigliare niuna cosa occultamente; e tanto abbiamo più tosto a sbrigare. Onde io così dico: conciossiacosachè per lo malvagissimo consiglio e ordinamento degli scellerati cittadini la repubblica sia venuta in grandissimi pericoli, e conciossiacosachè eglino per li manifestamenti di Tito Vulturzio e degli ambasciadori franceschi sieno convinti e confessi di ciò che gl’incendii e altri malvagi e crudeli fatti aveano ordinati contra gli cittadini, contra ]a patria; che gli confessi17 per loro, siccome gli manifestati per altrui, di cose capitali e di morte degne, eglino debbiano essere condannati a morte, secondo che usato fu da’ nostri maggiori.

Note

  1. a suo detto) Il Belli vorrebbe si leggesse: al suo detto.
  2. agli altari e a’ fuochi loro ec.) Fuoco sta qui adoperato alla latina, e vale casa; potrebbe questo esempio essere aggiunto al Vocabolario, che non ne ha di prosa.
  3. gl’intagli e le tavole vostre avete più in pregio ec.) Qui tavola sta per quadro, come a pag. 17.
  4. ma allora la repubblica era ferma) La particella ma è qui adoperata per nondimeno, pure; ma oggi non si vorrebbero in ciò imitare gli antichi che l’usarono.
  5. baldamente è voce non molto adoperata, tuttochè l’adjettivo baldo sia tuttora in uso: e vale prontamente, con sicurtà d’animo; alquanto meno che baldanzosamente.
  6. Il testo lat. ha: ex sociorum fortunis.
  7. furare è lo stesso che rubare, ma oggi si adopererebbe meglio in poesia che in prosa.
  8. ad altra via... vadano gli rei che gli buoni: cioè ad altra via vadano gli rei che non vanno gli buoni. Non s’imiti però questo costrutto da’ giovani.
  9. Vedi la nota 2 alla pag. prec.
  10. dottanza è voce vieta ed antica; ed oggi in iscambio hassi a dire timore.
  11. singularmente spartito) Spartito, participio del verbo spartire, qui vale separato, divilo, disgiunto da altri, che anche si dice partito, dal verbo partire.
  12. e il duca de’ nimici coll’oste c’è sopraccapo) Duca qui sta per capitano; ma oggi questa voce è rimasa solo a significar titolo di principato. — Sopraccapo o sopra capo si adopera avverbialmente co’ verbi essere, stare, ec, e vale essere, stare ec. addosso, essere vicinissimo, alle spalle, esser nel punto di assalire.
  13. certo sì fate, e molto, cioè coi così temete questa cosa, come è da temere, e molto la temete. Il verbo fare qui è adoperato in sentimento di temere; e questo verbo fare per proprietà di nostra lingua si adopera in iscambio di quasi tutti gli altri verbi, pigliando ii significato del verbo che lo precede. E però nel Boccaccio leggiamo, Nov. 33: Niuna cosa è al mondo, che a lei dispiaccia come fai tu ( cioè come dispiaci tu). E nella Vita di S. Giov. Battista: Non è da tenere ancora altro modo che quel che tu fai (cioè tieni).
  14. ajutorio, voce antica, per ajuto.
  15. i quali se ec., cotali consigli non avrebbono avuti) Qui il buon frate non ha bene inteso il latino, che ha: quibus si quidquam pensi fuisset, non ea consilia de republica habuissent.
  16. se il peccato loro ec.) Il testo lat. legge: si mehercule peccato locus esset, facile paterer ec.: alle quali parole non ben rispondono le italiane.
  17. Il volgarizzamento a stampa avea che eglino confessino, e non se ne cavava costrutto. De’ nostri due codici l’un ha che elli: dalle quali lezioni, come si scorge, errate per poco, abbiam derivata la nostra. Ma non vogliamo tacere che questo periodo è molto intralciato a confuso.