Il Caso/Il Caso e la visione deterministica del mondo

Il Caso e la visione deterministica del mondo

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Il Caso e la visione deterministica del mondo
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II.

Il Caso e la visione deterministica del mondo.


Si dice: — Tutto ciò che accadde è effetto di una (o più) cause determinate, poste le quali l’effetto non poteva in nessun modo essere diverso da quello che fu. — Per accertare la consistenza di quest’affermazione, è necessario esaminare il vero significato del principio di causa e d’effetto.

Che cosa è la causa? La definizione comune è che A è causa di B quando esso è l’antecedente cui B costantemente segue. E che questa definizione possa essere sufficiente per gli usi comuni della vita è possibile. Ma l’intelletto non è soddisfatto quando si limita a constatare che A precede costantemente B.

Esso avverte che questa è una mera constatazione di cui assolutamente nulla vieta di pensare il contrario: niente proibisce di pensare che ad A potrebbe seguire, invece di B, C o D. In quel «costantemente» non c’è necessità alcuna, esso non ha valore che di generalizzazione empirica che non garantisce il futuro: finora è stato così; finora — fin dove si estende il giro della nostra esperienza — B ha seguito costantemente ad A, ma nulla ci assicura che domani non sarà diversamente.

L’intelletto domanda tra B ed A un legame più profondo, e lo trova solo quando riesce a dimostrare a sè stesso che B è nient’altro che A stesso sotto altra forma: sì che mentre, passando da A a B, l’apparenza è quella d’un cambiamento, in realtà nulla è cambiato. Col porre tra A e B un nesso di causa e di effetto l’intelletto, in fondo, non fa che nient’altro che affermare oltre la loro superficiale diversità la loro sostanziale identità. Il principio di causa si riduce, in fondo, al principio d’identità: è il principio d’identità applicato a una sequenza temporale.

Ma se A e B fossero in tutto e per tutto identici non si porrebbe l’apparenza della loro diversità e con essa il bisogno [p. 4 modifica]per l’intelletto di affermare di contro a quell’apparenza la loro sostanziale identità. A e B hanno un bell’essere per l’intelletto sostanzialmente identici: restano sempre almeno in apparenza distinti. Ma l’apparenza della loro distinzione negando la realtà della loro identità è qualcosa che l’intelletto non può non sforzarsi di dissolvere. E per dissolverla deve risalire ad una causa che la spieghi: causa che non può essere A, ma dev’essere diversa da A, appunto perchè è la causa per la quale A e B malgrado la loro sostanziale identità appaiono come distinti. Chiamiamo C questa causa che deve spiegare l’apparenza della distinzione di A e B malgrado la loro sostanziale identità. A sua volta C non può essere interamente o incondizionatamente identico nè con A nè con B, dev’essere almeno in apparenza distinto da A e da B, donde necessità di una nuova causa D che spieghi il perchè della almeno apparente differenza di C da A e da B, e così via all’infinito.

Esempio. Noi diciamo che la pioggia è effetto (B) della causa vapor d’acqua diffuso in una certa quantità nell’atmosfera (A), ossia è nient’altro che questo vapor d’acqua. Ma poichè tra il vapor d’acqua diffuso in una certa quantità nella atmosfera e la pioggia c’è, sì, identità ma anche diversità, una diversità per cui la causa antecede nel tempo l’effetto, noi spieghiamo questa diversità facendo intervenire un cambiamento nella temperatura atmosferica (C), cambiamento che ha per effetto il condensarsi e il precipitare del vapor d’acqua diffuso nell’atmosfera, nel qual condensarsi e precipitare consiste propriamente ciò che differenzia la pioggia dal vapor d’acqua diffuso nell’atmosfera.

La causa della pioggia B ora non è più solo A (vapor d’acqua diffuso in una certa quantità nell’atmosfera), è A + C (cioè vapor d’acqua diffuso in una certa quantità nell’atmosfera più un dato cambiamento della temperatura). Nondimeno tra la causa così modificata e l’effetto deve ancora esistere una certa distinzione, se no causa od effetto sarebbero temporalmente tutt’uno: la causa della pioggia non può essere la pioggia; tra la causa della pioggia e la pioggia deve correre sempre ancora un intervallo temporale per quanto minore di prima; [p. 5 modifica]la causa della pioggia è il vapore nell’atmosfera più un certo abbassarsi della temperatura fino all’istante prima di quello in cui la pioggia comincia a cadere. Ma tra la pioggia che comincia a cadere e il vapor d’acqua diffuso nell’atmosfera a una temperatura che s’abbassa, non v’è perfetta e compiuta identità, c’è ancora un intervallo temporale per quanto infinitesimo. Ed eccoci di nuovo a domandare la causa per cui a un certo punto il vapor d’acqua che sta lì lì per cadere ma non è caduto ancora diventa finalmente pioggia che cade dal cielo. L’intelletto vuole in pari tempo due cose contraddittorie: vuole la distinzione di causa e di effetto e l’adeguazione perfetta dei due: vuole l’adeguazione perfetta di causa e di effetto, perchè solo allora il suo bisogno d’identità è pienamente soddisfatto, solo allora è abolita la molteplicità, solo allora la distinzione e la varietà sono ridotte a mera apparenza, ma vuole la distinzione di causa e d’effetto perchè è l’effetto che deve esser abolito nella causa, è il susseguente che dev’essere abolito nell’antecedente, è il futuro e il presente che dev’essere abolito nel passato e non viceversa, e per ciò stesso distingue tra antecedente e susseguente. Risolvendo l’effetto nella causa, l’intelletto tende a negare la realtà della sequenza temporale, a svalutarla come mera apparenza, a persuadersi che dove l’apparenza è di un cambiamento, in realtà nulla è cambiato e tutto è rimasto come prima. Ma d’altra parte egli non può negare la sequenza temporale almeno a titolo di mera apparenza e illusione. Così l’intelletto è obbligato a mantenere la distinzione tra antecedente e susseguente nell’atto stesso in cui si sforza di annullarla. Perciò tra l’effetto pioggia e la causa vapor d’acqua più cambiamento di temperatura continua a mettere un intervallo, che per quanto sempre minore non diventa mai rigorosamente uguale a zero.

Ora, solo ciò che si risolve interamente nella sua causa è interamente necessario: solo se B si risolve interamente nella causa A, posto A è necessario che B sia, perchè allora dire B e dire A è tutto uno, e dire che posto A è posto B, val quanto dire che posto A è posto A. Necessario è l’identico, e soltanto l’identico. Ma nessun effetto si risolve mai interamente nella sua causa, perchè se si risolvesse interamente in essa, nulla lo distinguerebbe, [p. 6 modifica]nemmeno in apparenza, da essa, e allora il problema di ricondurlo come effetto alla sua causa non si porrebbe nemmeno: dunque nessun effetto è mai nè può esser mai interamente necessario; sempre in ogni effetto c’è qualcosa per cui esso ci appare tale che c’è e poteva anche non essere, per cui cioè ci appare come non necessario, contingente, casuale.

Tutto ha causa, ma poichè nulla si risolve nè si può mai risolvere interamente nella sua causa, tutto è casuale. Tutto è per noi causato e casuale insieme. L’ombra immensa del caso si stende su tutto l’universo, e nessun angolo per quanto piccolo ne va esente. Non v’è conoscere per cause da cui sia mai eliminabile un momento o elemento di contingenza, di caso, d’accidentalità pura. Nessun conoscere per cause si muove interamente nell’etere della necessità pura e assoluta.

Risalendo di causa in causa, riallacciando un effetto alla sua causa e questa, alla sua volta, come effetto alla sua causa e via all’infinito, noi creiamo lunghe catene di cause e d’effetti. Ma poichè nessun effetto si riduce mai interamente alla sua causa, poichè resta sempre almeno l’apparenza della distinzione fra causa ed effetto, noi per spiegare quest’apparenza della distinzione dobbiamo risalire a una nuova causa, e via all’infinito, come si è detto. Per quanto allunghiamo ed estendiamo la catena delle cause, non si riesce mai e non si può mai riuscire a unificare la totalità dei fenomeni in una sola catena causale. La catena delle cause si rompe in un numero indefinito di catene causali che non riusciamo mai a unire in una catena unica e sola. Appunto per questo tutti i fenomeni ci si presentano per un certo lato sotto l’aspetto del caso.

Una tegola cade dal tetto: effetto dovuto alle sue cause (vento che rimuove la tegola dal posto, e la spinge nel vuoto; si è mossa quella tegola piuttosto che un’altra perchè essa era mal connessa con le compagne; era mal connessa perchè un operaio camminando sul tetto l’aveva sollevata e non si era curato di rimetterla a posto ecc.). Un Tizio passa pel marciapiede a un dato momento: effetto che ha le sue cause (Tizio esce la mattina di casa a quell’ora per andare all’ufficio, e se occupa quell’ufficio è per queste e queste vicende della sua [p. 7 modifica]vita, ecc.). Ma che la tegola caschi proprio nel momento in cui Tizio passa su quel punto del marciapiede e uccida Tizio, a noi sembra un caso, perchè nella catena delle cause che sbocca nella caduta della tegola e nella catena che sbocca nel passaggio di Tizio non vediamo nessuna necessità che comandi l’incontro di quelle due catene in quel punto dello spazio e del tempo. L’evento «caduta della tegola sul capo di Tizio» ci sembra un caso perchè ci sembra irreducibile a ciascuna delle due catene causali per sè presa. Qui la casualità dell’evento balza a prima vista.

Ma basta riflettere che per le ragioni anzidetto noi non riusciamo e non possiamo riuscire mai a stringere in una sola catena causale il molteplice dell’universo e che ogni evento ci appare e ci deve apparire come il punto d’incrocio d’indefinite catene causali al plurale, che l’intelletto non riesce e non può mai riuscire a stringere nell’unità di una sola catena causale, perchè risulti chiaro che in ogni nostra conoscenza per cause v’è un momento di contingenza. Tra causa ed effetto lo iato rimane incolmabile, e per quanto si moltiplichi il numero delle catene causali che dovrebbero abolire quello iato, ad abolirlo interamente non si riesce mai. Mai il nostro spirito potrà cogliere altro che un certo numero di catene causali al plurale: appunto perciò gli eventi dell’universo gli appariranno sempre tutti, senza eccezione alcuna, come incroci, urti, interferenze di catene causali in numero indefinito; e cioè sotto l’aspetto di eventi che furono e potevano benissimo non essere o essere altrimenti, cioè come caso. Di fronte a ognuno di quei punti d’incrocio, di quei nodi, noi sentiamo irresistibile, prepotente irrompere dal profondo della nostra anima il se: Se non fosse accaduto, se fosse accaduto altrimenti.

Il pensiero non va mai e non può andare mai di volta in volta oltre un particolare e limitato nesso di cause e di effetti. Ma esso aspira al determinismo universale, al pandeterminismo, all’unica catena causale che abbraccia gli eventi tutti del mondo, nessuno eccettuato. Ciò spiega perchè esso rimanga deluso quando si trova dinanzi a più catene causali non ridotte a unità. L’evento che risulta dai loro urti e incroci gli sembra, e con ragione, non-necessitato, contingente, casuale. L’intelletto vuole [p. 8 modifica]che gli si mostri l’evento precontenuto, prelatente nella causa, e non è affatto contento quando l’evento gli appare un incrocio di più serie causali, perchè se è un incrocio vuol dire che non è precontenuto e prelatente in nessuna delle serie causali singolarmente presa, e dunque in quanto incrocio è dato puro, caso puro, contingenza pura. Ma poiché ogni evento senza eccezione alcuna non può non apparire un incrocio di più catene causali, in nessuna delle quali uti singula esso è precontenuto e prelatente, ogni evento appare e deve apparire all’intelletto con un lato o aspetto o momento di contingenza, di accidentalità, di caso puro. In ciò il lato giusto della teoria di coloro che fanno del caso l'incontro di due o più o infinite serie causali indipendenti (Stuart Mill, Cournot, Ardigò). Solo che bisogna aggiungere:

1) che ogni evento, e non solo alcuni, appare e non può non apparire, sol che ci si rifletta a fondo, come incontro di serie causali indipendenti di numero indefinito;

2) che le serie causali non sono qualcosa che esiste obbiettivamente in rerum natura, nè obbiettivamente esistono i loro urti, incroci e incontri. Quelle serie e i loro urti e i loro incroci sono la parvenza sotto la quale ci si presenta il mondo quando, per rendercene conto, imbrocchiamo la via della spiegazione per cause, cioè tentiamo di dissolvere il divenire nell’indivenuto, il moto nell’immobile, il cangiante nel permanente, il tempo nell’intemporale.

Ma ammettiamo per assurda ipotesi che un giorno riuscissimo a ridurre l’immensità del molteplice a un’unica catena causale e a venire in possesso del primo e sommo anello della universale catena causale, guardando dal quale tutto l’immenso oceano degli eventi ci sembrasse seguirne con la necessità con cui un corollario segue a un teorema. Non avremmo guadagnato niente. Perchè o quel primo principio avrebbe causa, e allora non sarebbe più primo principio, o non avrebbe causa, e sarebbe per noi uguale al caso puro. E noi avremmo eliminato il caso dalle singole catene causali per ritrovarne le tenebre ammassate tutte in una volta al principio. Rimarrebbe inesplicato perchè la causa universale è proprio A (p. e: la nebulosa di Laplace) [p. 9 modifica]e non B o C o D. Rimarrebbe inesplicato perché c’è una causa universale anzichè più cause o infinite cause. Rimarrebbe inesplicato, infine, perchè c’è qualcosa anziché il Nulla. Una volta messa in movimento la macchina della spiegazione causale, essa non si ferma più. L’intelletto non è soddisfatto se non riduce interamente il molto all’Uno, il vario all’identico. Ma se per ipotesi riuscisse a ridurre interamente il molto all’Uno (cosa impossibile), rimarrebbe insoddisfatto ugualmente, perchè sarebbe forzato a domandarsi perchè c’è l’Uno piuttosto che il Nulla. Nuova prova che il caso è nel nostro conoscere una quantità fissa che si può o spicciolare in frammenti nelle singole catene causali o ammassare in un sol colpo, ma che in nessun modo si riesce a eliminare.

In conclusione, dal punto di vista del pensiero che pensa per cause ogni evento appare e deve apparire come contingente, perchè ogni evento appare e deve apparire come un effetto che non si riduce interamente alle sue cause ma le deborda. Ci sono però eventi in cui questo debordare dell’effetto (di ogni effetto) dalle sue cause è più visibile che in altri: e tali sono gli eventi che, mentre si ha coscienza che sono prodotti da un mero determinismo causale, hanno l’aria di essere stati voluti per un fine. Esempio: scendendo di casa per andare in cerca del medico che abita lontano m’imbatto in lui mentre contro ogni sua abitudine passa dinanzi a casa mia. L’evento ha l’apparenza di essere stato voluto da qualcuno, mentre io ho coscienza che esso è un puro effetto di una cieca concatenazione delle cause, senza che questa mirasse a nessun fine. È dinanzi a tali eventi che lo spirito ha la prima impressione del caso. Qui è il lato giusto della teoria che definisce il caso come un determinismo che ha l’aria di essere una teleologia (Aristotele, Bergson).

Bisogna dire, invece, che se un evento del genere sembra casuale non è perchè sembri voluto mentre non lo è, ma perchè la sua apparente teleologia rende immediatamente visibile che in esso in quanto effetto c’è qualcosa che deborda dalle sue cause, e questo qualcosa qui è la sua apparenza finalistica. Che questi eventi siano i primi a contatto dei quali si genera nello spirito [p. 10 modifica]l’impressione del caso, non lo neghiamo. Ma se essi esaurissero l’ambito del caso, se casuali fossero solo gli eventi in cui un determinismo ha l’aria di essere una teleologia, non si spiegherebbe che alla considerazione critica ogni evento finisca per apparire contingente, abbia o non abbia l’aria di essere teleologico.