Il Battista/Canto secondo

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Canto primo Canto terzo
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CANTO SECONDO


Cinta di vivo fonte, onde discende
     Onda mormoratrice in suo viaggio,
     S’erge foresta, che del Sol contende
     Nell’anno ardente ivi l’entrata al raggio:
     Doppio sentier che s’interseca fende
     In quattro parti il bell’orror selvaggio,
     E di bell’acque cristalline e chiare
     8Ha ciascuna nel grembo un picciol mare.

Di più candide piume era vestita
     Turba di cigni per quei campi ondosi,
     E co’ musici colli al canto invita
     Fra l’elci nere i rusignuoli ascosi;
     Ma quei larghi sentieri, end’è partita
     La fresca selva, se ne vanno ombrosi,
     E ricchi d’acque con bollor gelato
     16A terminarsi in spazioso prato.

Nell’ampio sen di verdeggiante piano,
     Che lascia in prova gli smeraldi oscuri,
     Siede palagio, e fiammeggiar lontano
     Porfidi il fanno, onde ha coperti i muri:
     Son le cornici sue marmo africano;
     L’ampie finestre d’alabastri puri,
     La porta fra colonne, alto lavoro,
     24Fuse di bronzo, ed illustrate d’oro.

Su salda base dalla destra ha l’empio
     Già parte di gran monte, ivi gigante,
     Ch’erse la mole, condannato esempio,
     Con mente si superba al ciel stellante;
     Dalla sinistra il non minor, che scempio
     Già minacciava ad Israel tremante,
     E steso in Terebinto empieo la valle
     32Colle gran braccia, e coll’immense spalle.

Per sì gran varco in lastricata corte
     Di durissima selce altri sen viene,
     Che su colonne di diaspro forte
     Grandissimi di logge archi sostiene;
     E quindi tra fulgor d’aurate porte
     Entrasi a passeggiar sale terrene,
     Sale, che ognor le peregrine ciglia
     40Empiono in rimirar di meraviglia.

Di sublime pennel dedalea cura
     Sparse intorno alle volte alto ornamento,
     E d’alabastro, e d’ôr nuova pittura
     D’alteri fregi adorna il pavimento:
     Era quivi a mirar, come s’indura
     Per tante prove nell’ebreo tormento,
     E come in grembo all’Eritreo spumoso
     48Suoi regni affonda Faraon ritroso.

Intrepido Mosè la destra stende,
     Ed orribile il Nil sangue funesta;
     Stende la destra, e giù dall’alto scende
     Micidial d’ogni animal tempesta:
     Mirasi il Sol, che all’Universo splende,
     E che all’Egitto pur raggio non presta,
     Ma con fier nembi su quell’aria siede
     56Cimmeria notte, e ’l Canopeo non crede.

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Ed ecco orrendo il ripercote allora
     Il gran monarca de’ guerrier stellanti,
     E per quegli ampi regni in picciol ora
     Ogni magion fassi magion di pianti:
     Ivi non scorge al ritornar l’Aurora,
     Se non mestizia, e di pietà sembianti;
     Non scorge un occhio sol, ch’alto non pianga,
     64Nè man, che di dolor chioma non franga.

Lieto Israel per solitaria sponda
     Co’ duci intanto a libertà sen giva;
     Armato l’orme Faraon seconda,
     E dell’arabo golfo il giunge in riva:
     Entravi il seme d’Abraamo, e l’onda
     Asciutto varco a lor vestigie apriva:
     Persegue Egitto le fuggenti spalle,
     72E procella il sommerge a mezzo il calle.

Il rege, i duci, le falangi spente
     Son de’ turbini preda, onda crudele
     Armi, destrieri, e rote; onda fremente
     Assorbe alti lamenti, alte querele:
     Ma voi sul braccio del Signor possente,
     Ma voi greggia di Dio, gente fedele,
     Alzando canti in sulla turba oppressa,
     80Gite a fruir la regïon promessa.

Così la pena del tiranno acerba
     Il mare, i monti, la foresta, i fiumi
     Per modo il colmo della stanza serba,
     Che sembrano spirar tra l’ombra e i lumi;
     Nè men ricchezza, oltra il pensier superba
     Racchiusi in fila d’or sabei profumi,
     Con bel trapunto di meonie sete,
     88Pomposamente adombra ogni parete.

Nel mezzo cinta di bei seggi aurati
     Mensa è di cedro, che soave spira,
     E su serici drappi ha lin spiegati,
     Testi per man di tessitrice Sira:
     Sopra lei risplendean vasi gemmati,
     Dilettoso stupor di chi li mira,
     Pien d’amabili cibi in più maniere,
     96Ne’ conviti reali esche primiere.

Son cento a riversar d’erbe più care
     Sull’altrui mani distillati umori,
     E cento a rasciugar quell’onde chiare
     Con bianche tele, e peregrini odori:
     Ed ecco allor, che ivi chiamato appare
     Erode in ostri risplendenti, ed ori,
     Con lungo manto di lavori egregi,
     104E con corona in testa, uso de’ regi.

Seconda il tergo suo schiera infinita,
     Illustre fior di cavalier, giojosa
     Negli atti e ne’ sembianti, e sì vestita,
     Che non men che gioconda, era pomposa:
     Primo e soletto il re terge le dita
     Dell’odorifer’onda, indi si posa
     Eccelsamente in solitaria sede,
     112Da lui remoto alquanto ogni altro siede.

Allor nobile gente, ognuno adorno
     I regii cuochi a ritrovar s’affretta,
     E fan con vario cibo indi ritorno,
     Condito sì, che ogni appetito alletta;
     E non men porta nobil gente attorno
     In lucido cristal vendemmia eletta,
     Che le sembianze altrui renda serene,
     120E di viva allegrezza empia le vene,

Odonsi pronti a raddolcir le menti
     Con soave armonia suoni diversi,
     E spargono fra lor musici accenti
     Scelti cantor di celebrati versi;
     Ma tenne alle sue note i cori intenti
     Più vivamente un, che di pel cospersi
     Non avea i labbri giovinetti ancora,
     128E di fulgide rose il volto infiora.

Alle corde gentil d’eburnea lira
     Comanda con bell’arco, e con tal’arte
     Dal petto giovenil la voce spira,
     Che dolcezza di cielo altrui comparte:
     Non così Filomena, ove sospira,
     Iti iterando infra le fronde sparte,
     Lusinga il ciel con gli ammirabil pianti,
     136Com’egli ivi ogni cor con questi canti.

Quando per fiera invidia alto furore
     A spegner valse natural pietate,
     Sicchè a tanti fratei sofferse il core
     Vender Gioseffo in sulla fresca etate;
     Allor dal suo bel volto uscia splendore,
     Sì celeste di grazia e di beltate,
     Che seco in paragon furo men degni,
     144Quanti ne avea ne’ paretonii regni,

Quinci in mirarlo d’amorosa pena
     Ogni donzella scolori l’aspetto,
     E raccogliendo ardor per ogni vena,
     Sentía nuovo martir, nuovo diletto:
     Ma più dura, ch’ogni altra, ebbe catena
     Al collo intorno, e trapassò nel petto
     Invisibilemente un stral più forte
     152Alla gentil del suo signor consorte.

O come atroce conturbò sua mente!
     O come l’agitò l’egro pensiero!
     O come venne inferma, e come ardente
     Al primo incontro, ed al guardar primiero!
     Non è l’afflitta a sofferir possente,
     Che si volga nell’alto un giorno intero,
     E ch’ella intenta in bell’Ebreo non miri,
     160Nè lassa il può mirar, che non sospiri.

Poi quando per lo ciel notte distende
     L’ombra nemica a’ sfortunati amanti,
     Pur un punto di sonno ella non prende,
     Sì versa da’ begli occhi un mar di pianti:
     Allor da lunge i cari detti intende,
     E da lunge vagheggia i bei sembianti,
     E per guise infinite il si figura,
     168E cresce fiamme all’amorosa arsura,

Così predata da pensier, che cieco
     A lei va per le vene al core intorno,
     Tu pena sua, tu suo piacer l’hai teco,
     Tu sul venir, tu sul partir del giorno;
     Volge in petto sovente allor, che seco
     Suol far dimora il Giovinetto adorno,
     Gli incendj palesargli, onde s’affanna,
     176Indi i consigli suoi mesta condanna.

Struggesi intanto, e de’ begli occhi i rai
     Rider non san, nè le serene ciglia,
     E son le rose dileguate omai,
     Onde la guancia rilucea vermiglia;
     Pure alcun scampo ricercando a’ guai,
     Con amoroso ardir si riconsiglia,
     E chiusa in luogo solitario chiama
     184Soletta la beltà, che cotant’ama.

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Ivi pensosa, e di suo stato incerta,
     Abbassa il volto ora infocato or bianco,
     E vuol pregar, ma nella bocca aperta
     Langue la voce, e sull’uscir vien manco;
     Gran segno al fin di passïon sofferta,
     Rompe un sospir dal travagliato fianco,
     E per l’orme di quello alza infelice
     192La fredda lingua palpitando, e dice:

Non più t’affligga di Giudea pensiero,
     O rimembranza di Sïon molesta,
     Poich’alta sorte nell’Egizio impero
     Somma per te felicitate appresta:
     Quanto tesor, quanto di pregio altero
     Non gode altrove coronata testa,
     Tutto ne’ nostri alberghi a ciascun’ora,
     200Negar nol puoi, tua giovinezza onora.

Or perchè lieta e tra’ mortali appieno
     Passi l’etate in sul fiorir contenta,
     Corri fra queste braccia in questo seno,
     E di mia vita possessor diventa.
     Nè tiensi ardente in quel parlare a freno,
     Che verso il collo amato ella s’avventa;
     Ma Giuseppe di marmo il cor mantenne,
     208E per indi fuggir mise le penne.

Così la gloria con soavi note
     Del buono Ebreo rinnovellava eterna;
     E secondo la man, che la percuote,
     La cetra or alto ed ora basso alterna:
     Nè cessò di cantar, come si scuote
     La donna a colpi di sua furia interna;
     E come d’ira e di dolor confusa,
     216Fatta nemica, il già diletto accusa.

In su quel punto per gli alberghi aurati
     Dei gran rege al cospetto, ecco apparía
     Per mani industri, e per industri fiati,
     A di nuovo allegrarlo, alma armonia:
     Quattro musici in pria bossi forati
     Di spirto empiean, che ubbidïente uscía,
     E quattro diffondean dolce diletto,
     224Parto dell’arpe, ch’essi avean sul petto.

Quattro seguían, le cui sinistre dita
     Van sulle corde a vïoloni d’oro,
     E d’arco eburno l’altra man fornita
     I canti tempra, ed i silenzj loro;
     Schiera, che d’oro insino a’ piè guarnita,
     E pur succinta d’ôr l’aureo lavoro,
     Tarda movea le riverenti piante
     232Innanzi a donna di real sembiante.

E costei, che ne vien, l’altera figlia
     Dell’iniqua cognata al re diletta,
     Vergine, di beltà gran meraviglia,
     Sì tutti i cor soavemente alletta:
     Vermiglia il volto, e dalle negre ciglia
     Pure il soave sguardo arde e saetta;
     E sempre o ch’ella il posi, o ch’ella il giri,
     240Ammirabile riso ivi rimiri.

Le labbra di rubin, che almo diffonde
     Per l’aria lampi di bell’ostro ardenti,
     Perle chiudean, che le Gangetich’onde
     Perle non san nudrir tanto lucenti;
     E neve d’Appennin, che sulle sponde
     Senza offesa cadeo d’umidi venti,
     Perde suo pregio, e in paragon vien meno
     248Colla bianchezza dell’eburneo seno

Quale in nembi dipinti apparir fuori
     Suol Alba, nunzia dell’amabil giorno,
     Tale apparve costei tra’ bei colori
     Di varj veli, ch’ella avea d’intorno:
     Testi in candida seta argenti ed ori
     Facean la gonna, e di smeraldi adorno
     L’aria de’ ricchi raggi il lembo empiea,
     256Ne basso più, che sul tallon scendea.

Grave di smalti in fulgid’or cospersi
     Stringe l’ampiezza della nobil vesta
     Cinto, che a’ fianchi intorno era a vedersi
     Qual Iri, che dal ciel sgombri tempesta;
     E d’odorifer’onda i crini aspersi
     Serpeggiando ne van sull’aurea testa,
     Ove fatta di gemme era ghirlanda,
     264Che l’Inda Teti, e l’Eritrea ne manda.

Lungo monil, ben singolar tesoro,
     Gira al collo d’avorio, onde discende
     Gemma, che per ricchezza e per lavoro,
     Quasi vampa di stella, in sen le splende:
     Nè men lucide perle in anel d’oro
     All’orecchie di rose ella s’appende,
     E d’ambedue le man, pompa infinita,
     272Pur con gemme dell’India orna le dita.

Tal entro spoglie peregrine avvolta,
     E di beltate a deïtà sembiante,
     Move danzando, e studïosa ascolta
     Le leggi, che il bel suon detta alle piante;
     Quinci leggiadra ella si gira in volta,
     Or cede indietro, ora trascorre avante,
     Or inchina cortese, ora sdegnosa
     280Rivolge il tergo, ora s’affretta, or posa.

La nobil turba, che a i begli atti attende
     Sì vivace diletto indi raccoglie,
     Che da quei moti tutta immobil pende,
     Nè guardo piega, nè sospir discioglie;
     Ma l’alta danzatrice, ove comprende
     Quasi del ciglio altrui paghe le voglie,
     Dal ballo cessa, e fassi al re vicina,
     288E sì gli dice umilemente inchina:

Sommo signor, sì desiato giorno
     Non fia, che al viver tuo l’età rinnovi,
     Che ogni affanno da’ tuoi non sgombri intorno
     E sempre l’alme lor liete non trovi;
     Ma pur sopra ciascuno al suo ritorno
     Io, convien che nel cor dolcezza provi,
     E che per ogni via con lieti segni
     296Mio gran piacer manifestar m’ingegni.

Or cento volte alla real tua vita
     Ei risorga dal mar chiaro e sereno,
     Nè mai si vegga stanco alla partita
     Colmo lasciarti d’allegrezza il seno:
     Qui la luce degli occhi alma, infinita
     A terra inchina, e bel rossor non meno
     Sovra il candido volto ella dispiega,
     304Pur vergognando, e le ginocchia piega.

Il re, che udendo singolar dolcezza
     Trasse da’ saggi detti, il guardo intento
     Ferma nell’ammirabile bellezza,
     E lieto scioglie cotai note al vento:
     Vergine, del mio cor somma vaghezza,
     Vergine, de’ miei regni alto ornamento,
     Sovra ognuno a ragion bramosa sei
     312De’ miei lunghi anni, e degl’imperj miei.

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Che mentre alla mia vita il corso avanza,
     E tra l’aure del ciel l’alma respira,
     Sempre fia di mia reggia ogni possanza
     Pronta a fornir ciò che il tuo cor desira:
     Meco non disperar, nulla speranza
     Di questi scettri ad ogni parte aspira;
     E se con froda, e se è mia fè mentita,
     320Dura m’aspetti, e miserabil vita.

Tanto Erode le parla; ella repente
     Per lo gaudio del cor via più serena
     Rassembrò di Ciprigna in Orïente
     L’Idalia luce, che il bel dì ne mena:
     Sfavilla il minio sulle labbra ardente,
     E l’infocato sguardo arde e balena,
     E sulle guance per candor nevose,
     328Aprono accese in più beltà le rose.

Tal del tiranno all’ammirabil sede
     Piegasi riverente, indi s’affretta
     A colà por tra ricche stanze il piede,
     Ove la madre i suoi ritorni aspetta;
     Ed ella da vicin prima non vede
     La tanto a sè venir cara e diletta,
     Che tragge dall’albergo in sulle soglie,
     336E con aperte braccia in sen l’accoglie.

Colma di ferventissimo desío
     Baci le porge, e nel baciar le dice:
     Sulla fronte gioconda, or che leggo io
     Da più gioconda far la genitrice?
     O gloria, o pregio altier del grembo mio,
     O delle nozze mie parto felice,
     A che del tuo piacer pur meco faci?
     344E la stringeva, e le doppiava i baci.

Ella negli occhi, di beltà splendore,
     Affina, e lieta ne saetta i rai,
     E dice: io fei vedermi al mio signore,
     E per lui dilettar, vaga danzai:
     Fui fortunata sì, che il regio core
     Tanto per tempo alcun non vinse mai,
     Nè mai tanto gioir gli misi in petto,
     352E prova alta mi diè del suo diletto.

Ogni mia voglia, ogni desir del regno
     Non poca parte egli mi offerse ancora,
     E giurando affermollo: or quale è degno
     Far prego al re, che in modo tal m’onora?
     Duro mostro d’inferno, al tuo disdegno
     Tanto opportuna non perdesti l’ora,
     Che sul fornir dell’aspettata voce
     360Alla madre agitasti il cor feroce.

Subito giù nel sen nuovo spavento
     All’empia donna il rio Demon cosparse,
     E d’ira e di furore in un momento
     Orribil fiamma suscitando, ei l’arse;
     Quinci ebbra gli occhi di veneno, al vento
     L’orrida chioma, e rabbuffata sparse,
     E sparsa di livore ambe le gote,
     368Il cielo empiè d’abbominevol note.

Deh, stridendo dicea, fiamma funesta
     Mi strugga in polve, e di fier nembi involta,
     Senza più lungo scorno, atra tempesta
     Me nel fondo del mar lasci sepolta:
     Dunque io vivrò, perchè alla nobil testa
     La corona reale or mi sia tolta?
     Ad ognun specchio? da ciascun schernita?
     376Perverso Ciel, che mi ponesti in vita.

Meglio era pur tra le mondane genti
     Non uscir unqua a rimirar le stelle,
     O sugger tosco de’ più rei serpenti,
     Quando latte mi dier l’empie mammelle.
     Qui nelle proprie labbra imprime i denti,
     E l’irte chiome infurïata svelle,
     E fissa in terra i torbidi occhi, e poi
     384Apre in vece di pianto i dolor suoi.

Come rinnovellar l’ingiurie e l’onte,
     Che mia possanza oltra ragion sostenne,
     O come sollevar posso la fronte,
     L’autor membrando, onde l’offesa avvenne?
     Tu stessa il sai, che del Giordano il fonte
     Abbandonando un non so qual sen venne,
     Che bagnava le turbe entro quell’acque,
     392Onde a lui del Battista il nome nacque.

Vile di stato infra i miglior negletto,
     Rozzo le membra, in volto aspro e selvaggio,
     Il mio col re non separabil letto
     A biasmar ebbe, ebbe a dannar coraggio:
     Io ben di giusto sdegno accesi il petto,
     E mossi contro il temerario oltraggio,
     E spegner volli il disfrenato ardire;
     400Ma tacque Erode, e venne lento all’ire.

Solo a miei prieghi ardenti, al mio cordoglio,
     Al fervor delle lagrime diffuse,
     Per rintuzzargli un così strano orgoglio,
     Tra ferri e ceppi il traditor rinchiuse:
     Ma qual conforto o sicurtà raccoglio,
     Se non fur l’empie labbra anqua mai chiuse?
     Anzi contro mio scettro, e mia corona,
     408Gridando ognor, dalla prigione ei tuona.

Stanco non fia di rinnovarmi guerra,
     D’impiegare a mio strazio ogni sua frode,
     D’annojar con sue strida e cielo e terra,
     Finchè di braccio non mi tragge Erode:
     Figlia, se nel tuo cor pietà si serra,
     Odimi tu, poscia che il re non m’ode:
     Mira il mio danno estremo, e di te stessa
     416Mira l’obbrobrio, e finalmente il cessa.

Poichè ad ogni tua brama oggi secondo
     Del Signor nostro il giuramento avesti,
     Fa che il nemico fier si cacci in fondo,
     Fa che, morendo, d’oltraggiarne ei resti;
     Per questo grembo, onde venisti al mondo,
     Per questo petto, che primier suggesti,
     Per gli baci che in fasce a donar t’ebbi,
     424Per le lunghe vigilie, onde ti crebbi.

Ella fra queste note alto dolore,
     E suon confuso di sospir traea
     Profondamente, e di pietate il core,
     Colma la figlia, e di stupor tacea.
     Ma di quel suo tacer nuovo furore
     La madre infiamma disdegnosa e rea,
     Con voce aspra, e con acceso aspetto
     432Sì fatti accenti sospingea dal petto:

Forse non è ragion, che a te sospiri,
     Scampo cercando a mia fortuna indegna?
     O pur forse è ragion, che tu mi miri
     Colmar d’infamia, e che per gioco il tegna?
     Erodïade lassa! I tuoi martiri,
     Deh chi sarà, che a vendicar mai vegna?
     S’avvien, che anzi tua figlia oggi tu pianga,
     440E ch’ella a’ pianti tuoi sorda rimanga?

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Or su da’ ceppi se ne sorga, e franco
     Ne’ nostri imperj il mio nemico seggia,
     E perchè di desir non venga manco,
     Me fatta infame, e discacciata ei veggia;
     Altro avverrà, che trapassarmi il fianco,
     E del mio sangue funestar la reggia,
     E queste membra tra’ più fier dirupi
     448Dare in pasto al digiun d’orsi e di lupi,

Mentre sì l’empia donna orribil freme,
     L’infernal furia alla donzella in seno
     Avventa fiamma d’Acheronte, e insieme
     Degli angui, ond’arma il crin, stigio veneno.
     Ratto quel mostro dalle parti estreme
     Al cor le corre, e di furor l’ha pieno;
     E l’agita feroce, e la confonde,
     456Sicchè ardendo, e stridendo ella risponde:

Pera, pera il fellon, strazio e tormento
     Non l’abbandoni, l’esecrabil pera:
     Ma tranquillati tu, perchè ei sia spento,
     Faronne al re mio debitor preghiera.
     Indi il tergo rivolge, e in un momento
     Trova il tiranno a rimirarsi fiera,
     Lo sguardo ha sanguinoso, il crin disciolto,
     464E di tartareo fiel verdeggia il volto.

Subito ch’ella appar, gran meraviglia
     Del petto in fondo a quei baron discende,
     E l’uno incontra l’altro. guardar piglia,
     E ciascun cheto atrocità n’attende:
     Ella al volto del re drizza le ciglia,
     Ed a lui frettolosa il corso stende,
     E fatta da vicin con fronte oscura,
     472Così gli parla, oltre il dover, sicura:

Diamisi qui, se regio cor non mente,
     Troncato il teschio del Battista, e s’ora
     Meco d’esser leal tuo cor si pente,
     Mai non sarò senza cordoglio un’ora.
     Tanto l’aspra donzella. Il re dolente
     Subito la sembianza discolora,
     E china il guardo, e giù dal cor sospira,
     480Ed in cose diverse il pensier gira.

Ma pur del rio Demon l’orribil arte,
     E la fanciulla d’attristar timore,
     E la fè data in così nobil parte,
     Nel dubbio assalto gli sforzaro il core.
     Quinci a se con la man chiama Grassarte,
     Uom vil, ma sua viltà crebbe in onore;
     Poi tra le regie guardie il re l’elesse:
     488A costui, suo fedel, sua voglia espresse:

Vanne al Battista, ove prigion soggiorna,
     Fa che ratto alla morte ivi ei si dia,
     Ed a questa mia cara indi ritorna
     Col teschio che di lui tanto desia:
     Qui l’egra fronte di bei lumi adorna
     Nuovo conforto alla donzella ria,
     E dal giocondo sguardo ella balena,
     496Sì nel riso del cor gli occhi serena.