Ed ecco orrendo il ripercote allora
Il gran monarca de’ guerrier stellanti,
E per quegli ampi regni in picciol ora
Ogni magion fassi magion di pianti:
Ivi non scorge al ritornar l’Aurora,
Se non mestizia, e di pietà sembianti;
Non scorge un occhio sol, ch’alto non pianga, 64Nè man, che di dolor chioma non franga.
Lieto Israel per solitaria sponda
Co’ duci intanto a libertà sen giva;
Armato l’orme Faraon seconda,
E dell’arabo golfo il giunge in riva:
Entravi il seme d’Abraamo, e l’onda
Asciutto varco a lor vestigie apriva:
Persegue Egitto le fuggenti spalle, 72E procella il sommerge a mezzo il calle.
Il rege, i duci, le falangi spente
Son de’ turbini preda, onda crudele
Armi, destrieri, e rote; onda fremente
Assorbe alti lamenti, alte querele:
Ma voi sul braccio del Signor possente,
Ma voi greggia di Dio, gente fedele,
Alzando canti in sulla turba oppressa, 80Gite a fruir la regïon promessa.
Così la pena del tiranno acerba
Il mare, i monti, la foresta, i fiumi
Per modo il colmo della stanza serba,
Che sembrano spirar tra l’ombra e i lumi;
Nè men ricchezza, oltra il pensier superba
Racchiusi in fila d’or sabei profumi,
Con bel trapunto di meonie sete, 88Pomposamente adombra ogni parete.
Nel mezzo cinta di bei seggi aurati
Mensa è di cedro, che soave spira,
E su serici drappi ha lin spiegati,
Testi per man di tessitrice Sira:
Sopra lei risplendean vasi gemmati,
Dilettoso stupor di chi li mira,
Pien d’amabili cibi in più maniere, 96Ne’ conviti reali esche primiere.
Son cento a riversar d’erbe più care
Sull’altrui mani distillati umori,
E cento a rasciugar quell’onde chiare
Con bianche tele, e peregrini odori:
Ed ecco allor, che ivi chiamato appare
Erode in ostri risplendenti, ed ori,
Con lungo manto di lavori egregi, 104E con corona in testa, uso de’ regi.
Seconda il tergo suo schiera infinita,
Illustre fior di cavalier, giojosa
Negli atti e ne’ sembianti, e sì vestita,
Che non men che gioconda, era pomposa:
Primo e soletto il re terge le dita
Dell’odorifer’onda, indi si posa
Eccelsamente in solitaria sede, 112Da lui remoto alquanto ogni altro siede.
Allor nobile gente, ognuno adorno
I regii cuochi a ritrovar s’affretta,
E fan con vario cibo indi ritorno,
Condito sì, che ogni appetito alletta;
E non men porta nobil gente attorno
In lucido cristal vendemmia eletta,
Che le sembianze altrui renda serene, 120E di viva allegrezza empia le vene,
Odonsi pronti a raddolcir le menti
Con soave armonia suoni diversi,
E spargono fra lor musici accenti
Scelti cantor di celebrati versi;
Ma tenne alle sue note i cori intenti
Più vivamente un, che di pel cospersi
Non avea i labbri giovinetti ancora, 128E di fulgide rose il volto infiora.
Alle corde gentil d’eburnea lira
Comanda con bell’arco, e con tal’arte
Dal petto giovenil la voce spira,
Che dolcezza di cielo altrui comparte:
Non così Filomena, ove sospira,
Iti iterando infra le fronde sparte,
Lusinga il ciel con gli ammirabil pianti, 136Com’egli ivi ogni cor con questi canti.
Quando per fiera invidia alto furore
A spegner valse natural pietate,
Sicchè a tanti fratei sofferse il core
Vender Gioseffo in sulla fresca etate;
Allor dal suo bel volto uscia splendore,
Sì celeste di grazia e di beltate,
Che seco in paragon furo men degni, 144Quanti ne avea ne’ paretonii regni,
Quinci in mirarlo d’amorosa pena
Ogni donzella scolori l’aspetto,
E raccogliendo ardor per ogni vena,
Sentía nuovo martir, nuovo diletto:
Ma più dura, ch’ogni altra, ebbe catena
Al collo intorno, e trapassò nel petto
Invisibilemente un stral più forte 152Alla gentil del suo signor consorte.
O come atroce conturbò sua mente!
O come l’agitò l’egro pensiero!
O come venne inferma, e come ardente
Al primo incontro, ed al guardar primiero!
Non è l’afflitta a sofferir possente,
Che si volga nell’alto un giorno intero,
E ch’ella intenta in bell’Ebreo non miri, 160Nè lassa il può mirar, che non sospiri.
Poi quando per lo ciel notte distende
L’ombra nemica a’ sfortunati amanti,
Pur un punto di sonno ella non prende,
Sì versa da’ begli occhi un mar di pianti:
Allor da lunge i cari detti intende,
E da lunge vagheggia i bei sembianti,
E per guise infinite il si figura, 168E cresce fiamme all’amorosa arsura,
Così predata da pensier, che cieco
A lei va per le vene al core intorno,
Tu pena sua, tu suo piacer l’hai teco,
Tu sul venir, tu sul partir del giorno;
Volge in petto sovente allor, che seco
Suol far dimora il Giovinetto adorno,
Gli incendj palesargli, onde s’affanna, 176Indi i consigli suoi mesta condanna.
Struggesi intanto, e de’ begli occhi i rai
Rider non san, nè le serene ciglia,
E son le rose dileguate omai,
Onde la guancia rilucea vermiglia;
Pure alcun scampo ricercando a’ guai,
Con amoroso ardir si riconsiglia,
E chiusa in luogo solitario chiama 184Soletta la beltà, che cotant’ama.