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276 poesie


Che mentre alla mia vita il corso avanza,
     E tra l’aure del ciel l’alma respira,
     Sempre fia di mia reggia ogni possanza
     Pronta a fornir ciò che il tuo cor desira:
     Meco non disperar, nulla speranza
     Di questi scettri ad ogni parte aspira;
     E se con froda, e se è mia fè mentita,
     320Dura m’aspetti, e miserabil vita.

Tanto Erode le parla; ella repente
     Per lo gaudio del cor via più serena
     Rassembrò di Ciprigna in Orïente
     L’Idalia luce, che il bel dì ne mena:
     Sfavilla il minio sulle labbra ardente,
     E l’infocato sguardo arde e balena,
     E sulle guance per candor nevose,
     328Aprono accese in più beltà le rose.

Tal del tiranno all’ammirabil sede
     Piegasi riverente, indi s’affretta
     A colà por tra ricche stanze il piede,
     Ove la madre i suoi ritorni aspetta;
     Ed ella da vicin prima non vede
     La tanto a sè venir cara e diletta,
     Che tragge dall’albergo in sulle soglie,
     336E con aperte braccia in sen l’accoglie.

Colma di ferventissimo desío
     Baci le porge, e nel baciar le dice:
     Sulla fronte gioconda, or che leggo io
     Da più gioconda far la genitrice?
     O gloria, o pregio altier del grembo mio,
     O delle nozze mie parto felice,
     A che del tuo piacer pur meco faci?
     344E la stringeva, e le doppiava i baci.

Ella negli occhi, di beltà splendore,
     Affina, e lieta ne saetta i rai,
     E dice: io fei vedermi al mio signore,
     E per lui dilettar, vaga danzai:
     Fui fortunata sì, che il regio core
     Tanto per tempo alcun non vinse mai,
     Nè mai tanto gioir gli misi in petto,
     352E prova alta mi diè del suo diletto.

Ogni mia voglia, ogni desir del regno
     Non poca parte egli mi offerse ancora,
     E giurando affermollo: or quale è degno
     Far prego al re, che in modo tal m’onora?
     Duro mostro d’inferno, al tuo disdegno
     Tanto opportuna non perdesti l’ora,
     Che sul fornir dell’aspettata voce
     360Alla madre agitasti il cor feroce.

Subito giù nel sen nuovo spavento
     All’empia donna il rio Demon cosparse,
     E d’ira e di furore in un momento
     Orribil fiamma suscitando, ei l’arse;
     Quinci ebbra gli occhi di veneno, al vento
     L’orrida chioma, e rabbuffata sparse,
     E sparsa di livore ambe le gote,
     368Il cielo empiè d’abbominevol note.

Deh, stridendo dicea, fiamma funesta
     Mi strugga in polve, e di fier nembi involta,
     Senza più lungo scorno, atra tempesta
     Me nel fondo del mar lasci sepolta:
     Dunque io vivrò, perchè alla nobil testa
     La corona reale or mi sia tolta?
     Ad ognun specchio? da ciascun schernita?
     376Perverso Ciel, che mi ponesti in vita.

Meglio era pur tra le mondane genti
     Non uscir unqua a rimirar le stelle,
     O sugger tosco de’ più rei serpenti,
     Quando latte mi dier l’empie mammelle.
     Qui nelle proprie labbra imprime i denti,
     E l’irte chiome infurïata svelle,
     E fissa in terra i torbidi occhi, e poi
     384Apre in vece di pianto i dolor suoi.

Come rinnovellar l’ingiurie e l’onte,
     Che mia possanza oltra ragion sostenne,
     O come sollevar posso la fronte,
     L’autor membrando, onde l’offesa avvenne?
     Tu stessa il sai, che del Giordano il fonte
     Abbandonando un non so qual sen venne,
     Che bagnava le turbe entro quell’acque,
     392Onde a lui del Battista il nome nacque.

Vile di stato infra i miglior negletto,
     Rozzo le membra, in volto aspro e selvaggio,
     Il mio col re non separabil letto
     A biasmar ebbe, ebbe a dannar coraggio:
     Io ben di giusto sdegno accesi il petto,
     E mossi contro il temerario oltraggio,
     E spegner volli il disfrenato ardire;
     400Ma tacque Erode, e venne lento all’ire.

Solo a miei prieghi ardenti, al mio cordoglio,
     Al fervor delle lagrime diffuse,
     Per rintuzzargli un così strano orgoglio,
     Tra ferri e ceppi il traditor rinchiuse:
     Ma qual conforto o sicurtà raccoglio,
     Se non fur l’empie labbra anqua mai chiuse?
     Anzi contro mio scettro, e mia corona,
     408Gridando ognor, dalla prigione ei tuona.

Stanco non fia di rinnovarmi guerra,
     D’impiegare a mio strazio ogni sua frode,
     D’annojar con sue strida e cielo e terra,
     Finchè di braccio non mi tragge Erode:
     Figlia, se nel tuo cor pietà si serra,
     Odimi tu, poscia che il re non m’ode:
     Mira il mio danno estremo, e di te stessa
     416Mira l’obbrobrio, e finalmente il cessa.

Poichè ad ogni tua brama oggi secondo
     Del Signor nostro il giuramento avesti,
     Fa che il nemico fier si cacci in fondo,
     Fa che, morendo, d’oltraggiarne ei resti;
     Per questo grembo, onde venisti al mondo,
     Per questo petto, che primier suggesti,
     Per gli baci che in fasce a donar t’ebbi,
     424Per le lunghe vigilie, onde ti crebbi.

Ella fra queste note alto dolore,
     E suon confuso di sospir traea
     Profondamente, e di pietate il core,
     Colma la figlia, e di stupor tacea.
     Ma di quel suo tacer nuovo furore
     La madre infiamma disdegnosa e rea,
     Con voce aspra, e con acceso aspetto
     432Sì fatti accenti sospingea dal petto:

Forse non è ragion, che a te sospiri,
     Scampo cercando a mia fortuna indegna?
     O pur forse è ragion, che tu mi miri
     Colmar d’infamia, e che per gioco il tegna?
     Erodïade lassa! I tuoi martiri,
     Deh chi sarà, che a vendicar mai vegna?
     S’avvien, che anzi tua figlia oggi tu pianga,
     440E ch’ella a’ pianti tuoi sorda rimanga?