Ifigenia in Aulide (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio
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Entra Menelao, tenendo la lettera di Agamènnone, tolta al vecchio servo, che gli tien dietro, cercando invano di farsela restituire.
vecchio
Menelao, troppo ardisci, ed oltre il lecito.
menelao
Vattene! Troppo al tuo signor sei fido.
vecchio
È questa, che mi fai, bella rampogna.
menelao
Guai a te, se farai ciò che non devi.
vecchio
Questa lettera aprir tu non dovevi.
menelao
Né tutti danneggiar dovevo gli Elleni.
vecchio
Ciò con altri discuti. A me la lettera.
menelao
No. non la lascerò.
vecchio
Né io la cedo.
menelao
Il capo col mio scettro ora t’insanguino!
vecchio
Morir pel tuo signore, onore arreca.
menelao
Lasciala: troppo, per un servo parli.
vecchio
Grida verso la tenda di Agamènnone.
Mi fan sopruso, o re! Costui mi strappa
la tua lettera a forza, e nulla vuole
fare di quanto è giusto. Odi, Agamènnone!
Agamennone esce dalla tenda.
agamennone
Qual tumulto, è questo dunque sulla soglia, qual conflitto
di parole?
menelao
Di parlare pria d’un servo avrò diritto.
agamennone
Con quest’uomo a che t’azzuffi, gli fai forza, ed ei contrasta?
menelao
Al mio viso il viso leva: tal preambolo mi basta.
agamennone
Ch’io lo sguardo abbassi, quando pur d’Atrídi è il mio lignaggio?
menelao
Di tristi ordini ministro vedi tu questo messaggio?
agamennone
Vedo; e tu per prima cosa dei lasciarlo.
menelao
No, che avanti
vo’ mostrare quanto è in esso scritto, ai Danai tutti quanti.
agamennone
I sigilli hai franti, e quanto non dovevi ora tu sai?
menelao
So le tue mene segrete: sí che doglia tu n’avrai.
agamennone
Fu la tua gran tracotanza, per gli Dei! Quando l’hai presa?
menelao
Di tua figlia, che qui d’Argo deve giunger, nell’attesa.
agamennone
Che t’intrighi dei miei fatti? Sarà questo esser protervo!
menelao
Perché voglia me ne punse dimandai: non son tuo servo.
agamennone
Questa è nuova! Piú padrone non sarò di casa mia?
menelao
No, ché obliqui i tuoi disegni sono, e tali eran già pria.
agamennone
Parli ben, ma trista cosa par l’arguzia dei ribaldi.
menelao
Cosa iniqua per gli amici sono i cuor chiusi e non saldi.
Ora in fallo io ti vo’ cogliere, e non sia che l’ira trista
repudiar ti faccia il vero; né sarà ch’io troppo insista.
Tu brigasti un dí, per essere duce in Ilio degli Achivi,
rifiutando in apparenza, ma nel cuor, ben sai, l’ambivi;
tu, ricordi, eri dimesso, tu stringevi a ognun la mano,
le tue porte eran dischiuse sempre ad ogni popolano,
e licenza davi a tutti di parlar, perfino a chi
non ne aveva voglia, i voti guadagnandoti cosí,
coi tuoi modi. Ma ben presto, come poi tu fosti in cima,
li cambiasti, e con gli amici piú non fosti quel di prima:
fu difficile accostarti, spesso chiuse le tue porte.
Pur, non deve un galantuomo, quando ride a lui la sorte,
mutar faccia: anzi, agli amici, tanto piú, se in luogo è giunto,
dove possa, dare aiuto deve. È questo il primo punto
che ho toccato, perché prima qui scoprii ch’eri dei tristi.
Quando ad Àulide, e all’esercito degli Ellèni poi venisti,
nulla tu valevi: l’ira ti colpiva degli Dei,
né soffiava il vento prospero. Pur, volevano gli Achei
che quel vano indugio d’Aulide si troncasse, e si salpasse.
Come allora eri sconvolto, come andavi a ciglia basse,
ché di Priamo la terra, pur guidando mille navi,
non potevi empir d’armati. Meco allor ti consultavi,
«Che farò? Devo esser privo del comando? Andrà smarrita
la mia fama gloriosa? Sono a un passo senza uscita».
Quando poi Calcante l’augure profetò che convenia
ad Artèmide immolare la tua figlia Ifigenía,
perché i Dànai potessero navigar, tu lieto n’eri,
e la figlia d’immolare promettesti, e volentieri
dir facesti alla tua sposa — e non già per forza, questo
non puoi dirlo — che tua figlia qui mandasse col pretesto
che sposar dovesse Achille. Ora, invece, non vuoi piú,
e t’ho còlto a scriver questa nuova lettera, che tu
mai dar morte alla tua figlia non potresti. E sia. La stessa
aura, ch’or noi respiriamo, quella udí la tua promessa.
Ciò, del resto, a mille avviene, che al poter la voglia han pronta,
e faticano, e poi devono rinunciare con grave onta:
per follia talor di popolo; a ragione poi, quand’essi
inadatti alla tutela son dei pubblici interessi.
Ma per l’Ellade è il gran cruccio mio, che mentre si periglia
a un’impresa glorïosa, per tua colpa e di tua figlia
deve un barbaro da nulla tollerar che di lei rida.
Non conviene pel valore solo sceglier chi sia guida
allo stato ed all’esercito. Chi del senno ebbe la luce
quello può condurre eserciti, dello Stato quello è duce.
coro
O triste cosa, se i fratelli vengono
a contrasto, ed ingiurie aspre si scagliano.
agamennone
Rampognarti, e sia con garbo, devo anch’io; ma sarò breve,
senza prenderla dall’alto, senza boria, come deve
un fratello col fratello: perché piace a un uom dabbene
mantenere il suo decoro. Dimmi un po’, da che proviene
questa tua furia terribile? Forse c’è chi ti soverchi?
Perché l’occhio pien di sangue vai girando? Forse cerchi
la tua moglie saggia? Offrirtela non posso io: ché male accorto
ti mostrasti a custodirla; ma scontar debbo il suo torto
io, che fallo non commisi? — Ch’io son tutto vanità
mi rimproveri. Ma tu, non ti curi d’onestà,
la ragione poni in bando, per goderti a tuo bell’agio
una bella donna: turpi son le brame del malvagio.
M’ero appreso a un mal consiglio. Or nel novero dei pazzi
devo andar, perché lo muto? Tu piuttosto! Ti sbarazzi
d’una moglie trista, un Nume tal fortuna ti concede,
e di nuovo tu riprendere te la vuoi. Giuraron fede
quegli stolidi dei suoi pretendenti. La Speranza
li convinse, ch’è pur Diva, credo, e non la tua prestanza.
Or li tieni: in campo guidali: pronti son, ché son dementi.
Però, Dio, che non è sciocco, ben distingue i giuramenti,
quei che son prestati senza senno, e quei che sono estorti.
Non sarà che i miei figliuoli per mia mano cadan morti.
Non sarà che tu trionfi, a vendetta dello scorno
d’una pessima consorte, e ch’io debba notte e giorno
macerarmi nelle lagrime, se con atto iniquo ed empio
dei figliuoli, a cui la vita diedi pur, facessi scempio.
Ecco quello ch’io ti dico, senza ambagi e breve e chiaro:
se ragion tu non intendi, ai miei casi io ben riparo.
coro
Questi discorsi molto differiscono
da quelli innanzi espressi, ed ammoniscono
bene a ragion, che i figli si risparmino.
menelao
Amici dunque piú non ho, me misero!
agamennone
Sí, che li hai, se pur tu non voglia perderli.
menelao
Provar potrai che il tuo padre fu il mio?
agamennone
Saggio teco esser vo’, non già demente.
menelao
Soffrir gli amici con gli amici devono.
agamennone
Coi benefici, e non coi crucci esortami.
menelao
Questa prova affrontar non vuoi per l’Ellade?
agamennone
Fa' un Dio che teco esca di senno l’Ellade.
menelao
Or del tuo scettro mena pompa, e il tuo
fratel tradisci: ad altri accorgimenti
ad altri amici io mi rivolgerò.
Entra un araldo.
araldo
Agamènnone, re di tutti gli Èlleni,
eccomi qui, la figlia tua conduco,
a cui d’Ifigenía tu desti il nome.
E Clitemnèstra seco vien, la madre
sua, la tua sposa, e il pargoletto Oreste:
sí, che goder potrai, poi che da tanto
da casa lungi sei, del loro aspetto.
Ma poi che lunga fu la via, vicino
a una limpida fonte ora al femineo
piè dan ristoro; e seco le puledre,
che fra l’erba d’un prato abbiam lasciate
a pascolare. Ed io son corso qui,
perché tu possa degnamente accoglierle.
Ché la fama è già corsa, e già l’esercito
sa che tua figlia è giunta, e a corsa muovono
tutte le turbe per vederla: tutto
si sa sempre dei grandi, esposti sempre
sono agli occhi di tutti. Ed uno dice:
«Di che si tratterà? D’un matrimonio?
O di che altro? Oppur per desiderio
della sua figlia, ha qui fatto Agamènnone
venire Ifigenía?» Risponde un altro:
«Vogliono all’ara presentar d’Artèmide
la giovinetta, alla Signora d’Àulide.
Chi mai la sposerà?» — Su via, per questa
cerimonia i canestri or tu prepara,
le fronti vostre coronate, e tu,
re Menelào, prepara l’imenèo,
e il flauto squilli e i piè danzino: tale
agamennone
Sta bene: ora entra nella tenda: il resto,
se fortuna ci assiste, andrà pel meglio. —
Ahi, che farò, misero me? Di dove
prender le mosse? A che giogo fatale
avvinto son! M’ha prevenuto il Dèmone,
che d’ogni astuzia mia stato è piú scaltro.
Oh quanto giova esser del volgo! Piangere
posson senza riguardo, e ciò che vogliono
liberamente dir; ma per me, nobile,
tutto ciò sconverrebbe. Al viver nostro
dà le norme il decoro; e della turba
siamo gli schiavi. Ed io, cosí, di piangere
or mi vergogno, e poi, misero me,
mi vergogno di non piangere, quando
sono caduto in cosí gran sciagura.
Che potrò dire alla mia sposa? come
l'accoglierò? come oserò lo sguardo
levar su lei? Mi die’ l’ultimo colpo,
venendo senza esser chiamata. Eppure,
che accompagni la figlia è ben diritto,
ch’essa a nozze la guidi, ed offra a lei
ogni piú caro dono, e me sorprenda
nella tristizia mia. Ma la fanciulla...
Che dico, ahimè! fanciulla? Essa d’Averno
sarà sposa fra poco. Oh, che pietà!
Mi par d’udirla già, ch’essa m’implora:
«Dunque tu, padre mio, m’ucciderai?
Simili nozze celebrar tu possa,
e chi tu prediligi!» — E Oreste qui
sarà, che grida non intelligibili
leverà, ché non parla, e pure, io bene
saprò capirle. Ahimè, figlio di Priamo,
a che rovina m’hai condotto, Pàride,
sposando Elena! È tua tutta la colpa.
coro
E gemo anch’io, come ad estranea gemere
per la sciagura dei signor’ s’addice.
menelao
La man, fratello, ch’io la stringa, porgimi.
agamennone
Eccola, hai vinto: un infelice io sono.
menelao
Per Pèlope io ti giuro, che fu padre
del tuo padre e del mio, per quell’Atrèo
che la vita ci die’, ch’io ti favello
senza niun artifizio, a cuore aperto,
quello solo ch’io sento. Allor ch’io vidi
il pianto che dagli occhi a te sgorgava,
sentii pietà, versai lagrime anch’io,
e ciò ch’io dissi lo rinnego, e duro
con te non sono, e accedo al tuo parere,
e la figlia t’esorto a non uccidere,
per anteporre il mio vantaggio al tuo.
Giusto non è che tu pianga, ed a me
rida la sorte, che i tuoi figli muoiano,
e i miei vedan la luce. E infatti, che
vado cercando? Se di sposa ho brama,
non posso altrove una eccellente eleggerne?
Trarre a rovina il fratel mio dovrò,
ciò che piú che ad ogni altro a me sconviene,
e avere Elena in cambio? Il male in cambio
del bene? Oh, fui demente, oh, fui fanciullo,
pria di veder da presso che significhi
uccidere una figlia. E poi, pietà
di lei mi vinse, misera fanciulla,
che consanguinea m’è, che cader vittima
dovrebbe per il mio talamo. E che
rapporto c’è fra la tua figlia ed Elena?
Si sciolgano le schiere, Àulide lascino;
e tu non bagnar piú gli occhi di lagrime,
fratello mio, né provocarmi al pianto.
Ché se ti resta ancora ombra di scrupolo
circa il responso di Calcante, niuno
ne resta a me: per parte mia, sei libero.
— Ma come mai dai tuoi fieri propositi
hai desistito? — Ho fatto bene: amore
del fratello mi mosse; ed attenersi
al consiglio miglior non è da tristi.
coro
Son generose, son degne di Tantalo
figlio di Giove, le parole tue:
tu non fai torto ai tuoi progenitori.
agamennone
Ti sono grato, o Menelao, che, contro
l’opinione mia, queste parole
di te degne hai soggiunte. Avvampar sogliono
le fraterne discordie, o per amore,
o per avidità di potere: io
aborro questi parentaggi d’odio
reciproco; ma or mi lega il fato
cosí, ch’io debbo la mia figlia uccidere.
menelao
Come? Chi può costringerti ad ucciderla?
agamennone
Tutto raccolto degli Achei l’esercito.
menelao
No, se di furto ad Argo la rinvii.
agamennone
Far lo potrei. Ma come poi nascondere...
menelao
Che cosa? Troppo non temer le turbe.
agamennone
Calcante ad essi svelerà l’oracolo.
menelao
No, se potessi prevenirlo: è facile.
agamennone
Tutti i profeti ambizïone han troppa.
menelao
Né la presenza lor giova, né piace.
agamennone
Non temi inoltre..... — in mente ora mi viene.
menelao
Come intender posso io ciò che non dici?
agamennone
Di Sísifo il rampollo1? Egli sa tutto.
menelao
Che me, che te danneggi Ulisse? Oh, no!
agamennone
È sempre doppio, e tien sempre dal popolo.
menelao
Soffre d’ambizione, un male grave.
agamennone
Figúrati costui, che fra gli Achei
surto a parlare, di Calcante sveli
i vaticinî, e ch’io feci promessa
d’immolar la mia figlia, ed or mi nego.
Quando avrà tratto dalla sua l’esercito
con simili argomenti, ingiungerà
che, uccisi me e te, gli Argivi immolino
la mia figliuola. E se fuggissi ad Argo,
là verrebbero, e me distruggerebbero,
e meco i valli dei Ciclopi, e a sacco
metterebber la terra. O me tapino,
in quali angustie i Numi mi costringono!
Solo un favore, appena fra l’esercito
sarai tornato, o Menelao, ti chiedo:
che di ciò nulla Clitemnestra sappia,
prima ch’io m’abbia la fanciulla, e all’Ade
io l’offra; e quanto men si può di lagrime
debba versar nella sciagura mia.
Alle donne del coro.
O stranïere, e voi motto non fate.
Menelao parte.