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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
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LE GRAZIE, OVVERO GERONE.

Idillio XVI

L’alme Figlie di Giove, e i Vati ognora
     Fanno lor cura il celebrar gl’Iddii,
     E de’ prodi mortali ogni bel vanto.
     Le Muse Dee cantando van gli Dei;
     Noi mortali cantiamo i buon mortali.
     Ma chi fra quanti mai soggiorno fanno
     Sotto la glauca Aurora alle mie Grazie
     Le porte aprendo accoglieralle in casa
     Cortesemente, nè di don fraudate
     Respingeralle? onde qua poi crucciose
     Tornando, ed a piè scalzi alto romore
     Fan, ch’io le danni a inutili viaggi,
     E schive in fondo a un’arca vôta, ov’hanno
     Ricetto vil, quando riescon vani
     I lor disegni, se ne stan battendo
     Il capo sulle frigide ginocchia.
     Chi v’ha mai tale a’ nostri dì che in pregio
     Tenga un buon parlator? Nol so. Qual pria,
     Or non più certo agognano i mortali
     D’esser lodati per magnanim’opre.
     Ma, vinti dal guadagno, ciascun tiensi
     Le mani in sen, guatando ov’egli possa
     Raccorre argento; e non darebbe altrui
     Nè pur la scoria, e tostamente ha in bocca:
     Lo stinco è più lontano del ginocchio.
     Io vo’ bene a me stesso. I Numi onore
     Facciano ai Vati. Omero basta a tutti.
     Chi gli altri curerà? Di tutti quanti
     Quest’è il miglior che non m’intacca in nulla.
     Miseri! e che mai val riposto in cassa
     Oro infinito? Ah! non quest’uso i saggi

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     Delle ricchezze fan; ma parte al vivere
     E ne assegnano parte ad un poeta.
     Giovan molti parenti, e molti estranj,
     E ognor d’offerte a’ Numi colman l’are.
     Non son d’ospizio avari, e sol da mensa
     Carezzando accomiatano l’amico,
     Quand’ei pur vuol partire, e sommo onore
     A’ santi secretarj delle Muse,
     Fan per aver buon nome anche sotterra,
     Nè pianger lungo il gelido Acheronte
     Abbietti come chi, tutto calloso
     Dalla zappa le man, piange la dura
     Mendicità, ch’ereditò dagli avi.
     A molti e molti servi entro i palazzi
     D’Antioco, e d’Aleva dispensata
     Era la provvision di mese in mese.
     Molti vitelli e ben forniti buoi
     De’ Scopadi alle stelle ivan mugghiando;
     E mille e mille ancora ai paschi estivi.
     Elette agnelle nel Cranonio suolo
     Guidavano i pastor de’ buon Creondi,
     Liberali d’ospizio: e niun piacere
     Gli avrìa seguiti dappoichè versaro
     I cari spirti lor nell’ampia barca
     Del lurido Acheronte, e senza nome
     Spogliati d’ogni ben dovrìan giacersi
     In mezzo a lagrimosa estinta turba
     Per lunghe età, se il gran cantor di Ceo
     Col vario suon di molticorde lire
     Non feagli ir chiari infra le tarde genti.
     E ben n’ottenner vanto anco gli snelli
     Corsier, che inghirlandati ritornaro
     Dai sacri agon. Chi conosciuto avrebbe
     I gran signor fra i Licj, e chi i Priamidi
     Chiomati, o Cigno in femminil sembiante,
     Se i cantor non ci avessero lodate

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     Le prische guerre? Ulisse ancor, che cento
     E venti mesi andò per tutto errando,
     E vivo entrò nell’Erebo profondo,
     E all’antro s’invelò del rio Ciclope,
     Non lungo onor raccolto avrebbe; e in muto
     Obblìo starebbe il buon percaro Eumèo,
     E l’operoso reggitor d’armenti...
     Filezio, ed il magnanimo Laerte,
     Se non giovava lor d’Omero il canto.
Gran fama all’uom vien dalle Muse. I vivi
     Le sostanze disperdono de’ morti.
     Ugual fatica è noverar sul lido.
     Quanti flutti sospinge a terra il vento
     Col mare azzuro, oppur con limpid’acqua
     Lavar matton fangoso, e piegar uomo
     Vinto dal lucro. Addio chiunque è tale.
     Ben aver puote innumerabil somina:
     Sempre fia schiavo di più ingorde voglie,
     Io l’onoranza, e l’amicizia altrui
     A molti preporrò muli, e cavalli.
     Vo in traccia di mortali, a cui mi renda
     Accetto con le Muse. Erte le vie
     Del canto son senza le Muse figlie
     Di Giove alto-veggente. Il Ciel non anco
     Stancato s’è di guidar mesi ed anni;
     Molti cavalli a trar seguiteranno
     Le rote del gran cocchio. Ah! verrà certo
     Quell’uom, che avrà mestier de’ versi miei,
     Oprando quanto il grande Achille, o il fero
     Ajace al pian di Simoente dove
     D’Ilo Frigio è la tomba. Or già i Fenici,
     Che stan di Libia nel calcagno estremo
     Sotto il cadente Sol gelan d’orrore.
     Con le mezz’aste i Siracusj alzate
     Già imbracciano di salce i gravi scudi,
     E uguale a’ prischi Eroi Geron fra loro

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     S’arma, e crin di caval gli fascia l’elmo.
     O Giove, augusto Padre, e veneranda
     Pallade, e o vergin Dea, che presso all’onde
     Lisimelée con la tua madre in sorte
     Avesti de’ ricchissimi Efirèi
     La gran città, per voi gli avversi fati
     Dall’isola respingano i nemici
     Ben facili a contar tra’ molti estinti
     Per l’onde Sarde ad annunziar lo scempio
     De’ lor compagni alle consorti e a’ figli.
     E le città, che pareggiate al suolo.
     Fur da nemiche man, sien nuovo albergo
     A’ cittadini antichi. I freschi campi
     Sien coltivati, ed infinite mandre
     Di pecore ingrassate in paschi erbosi
     Belin pe’ campi, e i buoi tornando in branco
     A’ loro chiusi affrettino per via
     Il lento passeggier. Sieno i maggesi
     Lavorati a sementa allor, che guardia
     Sul meriggio ai pastor fa la cicala
     Fra gli arbori cantando in cima ai rami.
     I ragnoli distendano su l’armi
     Sottili ragnatele, e di battaglia
     Nè pur timanga il nome: I buon cantori
     Portin la fama di Geron sublime
     Oltre le Scitie onde; e fin là dove
     Ampie mura construtte col bitume
     Semirami regno. Son io pur uno
     Fra i tanti amici delle Muse, a cui
     Cale d’ornar la Sicula Aretusa
     In un con le sue genti, e il pro’ Gerone.
     O Grazie, o Numi Eteoclèi; che amate
     Il Miniéo Orcomeno odioso
     Un tempo a Tebe, io rimarrommi in casa,
     Quand’i’ non sia ricerco: a chi mi cerca
     Baldanzoso n’andrò con le mie Muse;

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     Nè voi lascerò indietro. E che mai grato
     Agli uomini esser può senza le Grazie?
     Deh! sieno a me le Grazie ognor compagne.