Idilli (Teocrito - Pagnini)/XVI
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LE GRAZIE, OVVERO GERONE.
Idillio XVI
L’alme Figlie di Giove, e i Vati ognora
Fanno lor cura il celebrar gl’Iddii,
E de’ prodi mortali ogni bel vanto.
Le Muse Dee cantando van gli Dei;
Noi mortali cantiamo i buon mortali.
Ma chi fra quanti mai soggiorno fanno
Sotto la glauca Aurora alle mie Grazie
Le porte aprendo accoglieralle in casa
Cortesemente, nè di don fraudate
Respingeralle? onde qua poi crucciose
Tornando, ed a piè scalzi alto romore
Fan, ch’io le danni a inutili viaggi,
E schive in fondo a un’arca vôta, ov’hanno
Ricetto vil, quando riescon vani
I lor disegni, se ne stan battendo
Il capo sulle frigide ginocchia.
Chi v’ha mai tale a’ nostri dì che in pregio
Tenga un buon parlator? Nol so. Qual pria,
Or non più certo agognano i mortali
D’esser lodati per magnanim’opre.
Ma, vinti dal guadagno, ciascun tiensi
Le mani in sen, guatando ov’egli possa
Raccorre argento; e non darebbe altrui
Nè pur la scoria, e tostamente ha in bocca:
Lo stinco è più lontano del ginocchio.
Io vo’ bene a me stesso. I Numi onore
Facciano ai Vati. Omero basta a tutti.
Chi gli altri curerà? Di tutti quanti
Quest’è il miglior che non m’intacca in nulla.
Miseri! e che mai val riposto in cassa
Oro infinito? Ah! non quest’uso i saggi
Delle ricchezze fan; ma parte al vivere
E ne assegnano parte ad un poeta.
Giovan molti parenti, e molti estranj,
E ognor d’offerte a’ Numi colman l’are.
Non son d’ospizio avari, e sol da mensa
Carezzando accomiatano l’amico,
Quand’ei pur vuol partire, e sommo onore
A’ santi secretarj delle Muse,
Fan per aver buon nome anche sotterra,
Nè pianger lungo il gelido Acheronte
Abbietti come chi, tutto calloso
Dalla zappa le man, piange la dura
Mendicità, ch’ereditò dagli avi.
A molti e molti servi entro i palazzi
D’Antioco, e d’Aleva dispensata
Era la provvision di mese in mese.
Molti vitelli e ben forniti buoi
De’ Scopadi alle stelle ivan mugghiando;
E mille e mille ancora ai paschi estivi.
Elette agnelle nel Cranonio suolo
Guidavano i pastor de’ buon Creondi,
Liberali d’ospizio: e niun piacere
Gli avrìa seguiti dappoichè versaro
I cari spirti lor nell’ampia barca
Del lurido Acheronte, e senza nome
Spogliati d’ogni ben dovrìan giacersi
In mezzo a lagrimosa estinta turba
Per lunghe età, se il gran cantor di Ceo
Col vario suon di molticorde lire
Non feagli ir chiari infra le tarde genti.
E ben n’ottenner vanto anco gli snelli
Corsier, che inghirlandati ritornaro
Dai sacri agon. Chi conosciuto avrebbe
I gran signor fra i Licj, e chi i Priamidi
Chiomati, o Cigno in femminil sembiante,
Se i cantor non ci avessero lodate
Le prische guerre? Ulisse ancor, che cento
E venti mesi andò per tutto errando,
E vivo entrò nell’Erebo profondo,
E all’antro s’invelò del rio Ciclope,
Non lungo onor raccolto avrebbe; e in muto
Obblìo starebbe il buon percaro Eumèo,
E l’operoso reggitor d’armenti...
Filezio, ed il magnanimo Laerte,
Se non giovava lor d’Omero il canto.
Gran fama all’uom vien dalle Muse. I vivi
Le sostanze disperdono de’ morti.
Ugual fatica è noverar sul lido.
Quanti flutti sospinge a terra il vento
Col mare azzuro, oppur con limpid’acqua
Lavar matton fangoso, e piegar uomo
Vinto dal lucro. Addio chiunque è tale.
Ben aver puote innumerabil somina:
Sempre fia schiavo di più ingorde voglie,
Io l’onoranza, e l’amicizia altrui
A molti preporrò muli, e cavalli.
Vo in traccia di mortali, a cui mi renda
Accetto con le Muse. Erte le vie
Del canto son senza le Muse figlie
Di Giove alto-veggente. Il Ciel non anco
Stancato s’è di guidar mesi ed anni;
Molti cavalli a trar seguiteranno
Le rote del gran cocchio. Ah! verrà certo
Quell’uom, che avrà mestier de’ versi miei,
Oprando quanto il grande Achille, o il fero
Ajace al pian di Simoente dove
D’Ilo Frigio è la tomba. Or già i Fenici,
Che stan di Libia nel calcagno estremo
Sotto il cadente Sol gelan d’orrore.
Con le mezz’aste i Siracusj alzate
Già imbracciano di salce i gravi scudi,
E uguale a’ prischi Eroi Geron fra loro
S’arma, e crin di caval gli fascia l’elmo.
O Giove, augusto Padre, e veneranda
Pallade, e o vergin Dea, che presso all’onde
Lisimelée con la tua madre in sorte
Avesti de’ ricchissimi Efirèi
La gran città, per voi gli avversi fati
Dall’isola respingano i nemici
Ben facili a contar tra’ molti estinti
Per l’onde Sarde ad annunziar lo scempio
De’ lor compagni alle consorti e a’ figli.
E le città, che pareggiate al suolo.
Fur da nemiche man, sien nuovo albergo
A’ cittadini antichi. I freschi campi
Sien coltivati, ed infinite mandre
Di pecore ingrassate in paschi erbosi
Belin pe’ campi, e i buoi tornando in branco
A’ loro chiusi affrettino per via
Il lento passeggier. Sieno i maggesi
Lavorati a sementa allor, che guardia
Sul meriggio ai pastor fa la cicala
Fra gli arbori cantando in cima ai rami.
I ragnoli distendano su l’armi
Sottili ragnatele, e di battaglia
Nè pur timanga il nome: I buon cantori
Portin la fama di Geron sublime
Oltre le Scitie onde; e fin là dove
Ampie mura construtte col bitume
Semirami regno. Son io pur uno
Fra i tanti amici delle Muse, a cui
Cale d’ornar la Sicula Aretusa
In un con le sue genti, e il pro’ Gerone.
O Grazie, o Numi Eteoclèi; che amate
Il Miniéo Orcomeno odioso
Un tempo a Tebe, io rimarrommi in casa,
Quand’i’ non sia ricerco: a chi mi cerca
Baldanzoso n’andrò con le mie Muse;
Nè voi lascerò indietro. E che mai grato
Agli uomini esser può senza le Grazie?
Deh! sieno a me le Grazie ognor compagne.