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S’arma, e crin di caval gli fascia l’elmo.
O Giove, augusto Padre, e veneranda
Pallade, e o vergin Dea, che presso all’onde
Lisimelée con la tua madre in sorte
Avesti de’ ricchissimi Efirèi
La gran città, per voi gli avversi fati
Dall’isola respingano i nemici
Ben facili a contar tra’ molti estinti
Per l’onde Sarde ad annunziar lo scempio
De’ lor compagni alle consorti e a’ figli.
E le città, che pareggiate al suolo.
Fur da nemiche man, sien nuovo albergo
A’ cittadini antichi. I freschi campi
Sien coltivati, ed infinite mandre
Di pecore ingrassate in paschi erbosi
Belin pe’ campi, e i buoi tornando in branco
A’ loro chiusi affrettino per via
Il lento passeggier. Sieno i maggesi
Lavorati a sementa allor, che guardia
Sul meriggio ai pastor fa la cicala
Fra gli arbori cantando in cima ai rami.
I ragnoli distendano su l’armi
Sottili ragnatele, e di battaglia
Nè pur timanga il nome: I buon cantori
Portin la fama di Geron sublime
Oltre le Scitie onde; e fin là dove
Ampie mura construtte col bitume
Semirami regno. Son io pur uno
Fra i tanti amici delle Muse, a cui
Cale d’ornar la Sicula Aretusa
In un con le sue genti, e il pro’ Gerone.
O Grazie, o Numi Eteoclèi; che amate
Il Miniéo Orcomeno odioso
Un tempo a Tebe, io rimarrommi in casa,
Quand’i’ non sia ricerco: a chi mi cerca
Baldanzoso n’andrò con le mie Muse;