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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
VII
VI VIII

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LE TALISIE

OVVERO IL VIAGGIO DI PRIMAVERA.

Idillio VII

Già fu, che in verso Alente Eucrito ed io
     Dalla Città partimmo, e a noi compagno
     S’aggiunse Aminta. A Cerer le Talisie
     Fean Frasidamo e Antigene due figli
     Del buon Licope, se ancor nulla resta
     Di buon da i chiari un dì Clizia, e Calcone
     Che poggiato il ginocchio ad una rupe
     Destò di botto la Barèa fontana,
     Cui feano i pioppi, e gli olmi alti chiomati
     Coi verdi rami intorno un bosco ombroso.
     Non ancor giunti a mezza via, nè a vista
     Della tomba di Brasila, repente
     Alle Muse gradito un di Cidone
     Onest’uom viandante, a noi si scopre,
     Licida detto, e di mestier capraro.

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     Nè potea alcuno errar, poichè un capraro
     Ei somigliava a maraviglia. Il tergo
     Copriagli di un velloso ed irto becco
     Rossa pelle olezzante fresco caglio.
     Un mantel vecchio avea serrato al petto
     Con pieghevol cintura, e d’oleastro
     Un ricurvo baston nella man ritta.
     Ei col riso sul labbro il guardo gira
     Socchiuso a me placidamente, e dice:
     Simichida, in qual parte or sul meriggio
     Hai volto il piè, quando il ramarro dorme
     Entro alle siepi, e neppur vanno attorno
     Le sepolcrali allodole? Sei forse
     Chiamato in fretta a un pasto? o calchi il torchio
     D’un qualche cittadin? Poichè ogni sasso,
     Mentre tu vai, nei piè ti batte, e cigola
     Sotto le suola. Io gli soggiunsi allora:
     O Licida diletto, ognun t’appella
     Infra i pastori e i mietitor sovrano
     Sonator di sampogna, e assai ne godo,
     Benchè a mio creder d’agguagliarti io spero.
     Questo cammin va alle Talisie; poi
     Che una brigata d’uomini prepàra
     Di sue ricche primizie un bel convito
     Alla velata Cerere, ch’empièo
     A lor con larga man di messi l’aja.
     Ma poich’abbiam comune il calle e il giorno,
     Su via cantiamo, e l’uno e l’altro aita
     Ci darem forse. Io delle Muse acceso
     Mi sento il labbro, e d’ottimo cantore
     Tutti nome mi dan. Ma affè del mondo
     Nol credo di leggier. M’avvegg’io stesso,
     Che ancor non vinco il valoroso Samio
     Sicelida, o Fileta, e son qual rana
     A petto a’ grilli. Io così dissi ad arte.
     E il caprar sorridendo a me rispose:

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     Questo vincastro a te vo’ dar, che sei
     Tutto in ver del gran Giove opra e germoglio.
     Troppo m’è in odio artefice, che tenti
     Alla cima uguagliar d’Oromedonte
     Un abituro, e sonmi in odio ancora
     Quegli augei delle Muse, che gracchiando
     Emuli a fronte del Cantor di Scio,
     Spendon in van lor opra. Or diam principio,
     O Simichida, ai pastorecci carmi.
     E vedi, amico, se ti piace un brieve
     Canto, ch’io dianzi meditai sul monte.
Ageanatte un navigar felice
     In Mitilene avrà; quand’Austro ancora
     De’ Capretti al cader le lubric’onde
     Incalza, e i piè ferma Orion sul mare,
     Sol che Licida salvi arso d’amore,
     Amor, che per lui stemprami in faville.
     E gli Alcioni appianeranno i flutti,
     Il mare, e Noto, ed Euro, che l’estreme
     Alighe move; gli Alcioni grati
     Alle azzurre Nereidi su quanti
     Campan augelli di marine prede.
     Tutto ad Ageanatte disìoso
     In Mitilene andar comodo sia
     Per approdar in salvo. Ed io quel giorno
     O d’aneti, o di rose, o di viole
     Bianche tenendo una ghirlanda in capo,
     Sdrajato al focolare, il vin di Ptelea
     Sorbirò a una giara; alcun sul foco
     Arrostirà la fava, e un letticello
     Alto un cubito avrem tutto contesto
     Di gnizza ed asfodillo, e flessile appio.
     Berò soavemente alla salute
     D’Ageanatte, e terrò sempre il labbro
     Attaccato ai bicchier fino alla feccia.
     Due Pastori, un d’Arcania, un di Licopi

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     Soneranmi la piva, e lì vicino
     Titiro canterà, come il bifolco
     Dafni amò Senea un giorno, e come tutto
     Girava il monte, e lo piagnean le querce,
     Che nate sono al fiume Imera in riva,
     Allor quand’ei si disfacea qual neve
     Per l’alto Emo, e pel Rodope, o per l’Ato,
     O pel Caucaso estremo; e dirà poscia,
     Com’ampia cassa per nequizia insana
     Del suo padrone il Caprar vivo accolse,
     E come gìan da i prati a pascolarlo
     Coi tenerelli fior le sime pecchie
     Volando a un grato cedro, onde la Musa
     Soave gli stillò nettare in bocca.
     Fortunato Comata, a te serbate
     Fur sì belle venture. Entro la cassa
     Chiuso, e pascendo delle pecchie i favi,
     Della stagion prefissa al fin giugnesti.
     Deh fossi stato ai giorni miei fra’ vivi!
     Per te le belle capre avrei pasciuto
     Sui monti al suon della tua voce intento;
     E tu, divin Comata, o sotto querce
     Colcato, o sotto pin tessuto avresti
     Note soavi. - Qui diè fine al canto.
     Ed io ripresi: O Licida diletto,
     Molte cose pur anco a me insegnaro
     Le Ninfe allor, ch’io gìa pascendo al monte,
     Leggiadre cose, che di Giove al trono
     Forse la fama riportò. Fra tutte
     Quella è solenne, ond’io m’appresto a farti
     Or un bel dono. E tu, che delle Muse
     Amico sei, m’ascolta. A Simichida
     Starnutaron gli Amori, all’infelice,
     Che tanto ama Mirton, quanto le capre
     Aman la primavera. Arato, il suo
     Maggior amico, d’un garzon l’amore

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     Ha per entro le viscere. Ben sallo
     Aristi, il grande Aristi, il qual, cred’io,
     Febo medesmo non avrebbe a sdegno,
     Che a’ tripodi cantasse a suon di cetra,
     Quanto mai per amor d’un garzoncello
     Arde nell’ossa Arato! Ah Pan! che in sorte
     L’amabile terren d’Omola avesti,
     Tu nelle care man gliel’assecura,
     Senza che il chiami, o il tenero Filino,
     O qual altro egli sia. Se in ciò t’adopri,
     Caro Pan, non mai gli Arcadi fanciulli
     Ti flagellino gli omeri, e le coste
     Con squille allor, che poche carni avrai
     Sull’are tue. Ma se nol fai, deh! possi
     Sbranato esser dall’unghie in tutto il corpo,
     E dormir fra le ortiche e a mezzo il verno
     Star sugli Edonj monti in faccia all’Ebro
     Vicino all’Orsa, e pascolar l’estate
     Nell’Etiopia estrema alla spelonca
     De’ Blemj, onde veder non puossi il Nilo.
     Ma voi lasciate omai le placid’acque
     Di Jeti e Bibli, voi, che albergo avete
     Nei tetti alteri di Diona bionda,
     Amoretti simili a rosse mele,
     Il vezzoso Filin ferite d’arco,
     Feritel pur, che nulla sente il crudo
     Del mio diletto amico in sen pietade.
     Bench’ei più d’una pera, è già maturo,
     E gli dicon le donne: ahi! ahi! Filino,
     Il tuo bel fior si perde. Or non più vegghia
     Facciasi, Arato, a quelle porte, e il piede
     Non più si stanchi. Il mattutino gallo
     Alto crocciando a sì noiosi tedj
     Costringa, e Molon solo in questa lotta
     Si strangoli. A noi caglia del riposo.
     Ed una vecchierella a noi sia presta,
     Che ogni male sputando ne distorni.

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Sì dissi. Ei, sorridendo come pria,
     Diemmi in premio del canto il suo vincastro.
     Poi piegando a sinistra la via prese
     Vêr Pissa; io con Eucrito e il vago Aminta
     A casa ci avvìam di Frasidamo.
     Ivi su letti ben cedenti al basso
     Di molle giunco e pampani ben freschi,
     Festosi ci adagiammo, e a noi sul capo
     Scotean lor rami i folti pioppi e gli olmi.
     E colà presso fuor d’un antro uscìa
     Mormorando un ruscel sacro alle Ninfe.
     Su i frondosi arbuscelli le cicale
     Innamorate del calore estivo,
     Faticavan nel canto, e la calandra
     Stridea da lunge fra spinose macchie.
     Cantavan lodolette, e cardellini,
     La tortora gemea, scorreano a volo
     L’api dorate intorno alle fontane.
     Tutto spirava un’ubertosa estate,
     Spirava autunno. Largamente ai lati
     Ruzzolavan le mele, ai piè le pere,
     E curvi i rami di susine carchi
     Scendeano a terra. Dalle botti il vino
     Del quarto anno spillava. O voi, Castalie
     Ninfe, custodi del Parnasio giogo,
     Vedeste mai, che nel petroso speco
     Di Folo un nappo tal Chirone antico
     Ponesse innanzi Alcide? o quel sì forte
     Pastor d’Anapo, che scagliava i massi
     Polifemo a danzar per le sue stalle
     Un nettare invogliò pari a quel vino,
     Cui dell’Areal Cerere agli altari
     Apriste, o Ninfe, allor sì larga via?
     Voglia il Ciel, ch’io di nuovo in sì gran massa
     La pala cacci, e ch’ella rida avente
     Ad ambe man papaveri, e covoni.