Ha per entro le viscere. Ben sallo
Aristi, il grande Aristi, il qual, cred’io,
Febo medesmo non avrebbe a sdegno,
Che a’ tripodi cantasse a suon di cetra,
Quanto mai per amor d’un garzoncello
Arde nell’ossa Arato! Ah Pan! che in sorte
L’amabile terren d’Omola avesti,
Tu nelle care man gliel’assecura,
Senza che il chiami, o il tenero Filino,
O qual altro egli sia. Se in ciò t’adopri,
Caro Pan, non mai gli Arcadi fanciulli
Ti flagellino gli omeri, e le coste
Con squille allor, che poche carni avrai
Sull’are tue. Ma se nol fai, deh! possi
Sbranato esser dall’unghie in tutto il corpo,
E dormir fra le ortiche e a mezzo il verno
Star sugli Edonj monti in faccia all’Ebro
Vicino all’Orsa, e pascolar l’estate
Nell’Etiopia estrema alla spelonca
De’ Blemj, onde veder non puossi il Nilo.
Ma voi lasciate omai le placid’acque
Di Jeti e Bibli, voi, che albergo avete
Nei tetti alteri di Diona bionda,
Amoretti simili a rosse mele,
Il vezzoso Filin ferite d’arco,
Feritel pur, che nulla sente il crudo
Del mio diletto amico in sen pietade.
Bench’ei più d’una pera, è già maturo,
E gli dicon le donne: ahi! ahi! Filino,
Il tuo bel fior si perde. Or non più vegghia
Facciasi, Arato, a quelle porte, e il piede
Non più si stanchi. Il mattutino gallo
Alto crocciando a sì noiosi tedj
Costringa, e Molon solo in questa lotta
Si strangoli. A noi caglia del riposo.
Ed una vecchierella a noi sia presta,
Che ogni male sputando ne distorni.