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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
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I BUCCOLICI CANTORI

Idillio VI

Daneta e Dafni.

Dameta un giorno, ed il bifolco Dafni
     Menaro a un luogo stesso, o Arato, il gregge
     L’uno avea bionda ancor la barba e l’altro
     Il primo pelo. Assisi entrambi a un fonte,
     Così cantaro in sul meriggio estivo.
     Cominciò Dafni, che a sfidar fu il primo.
dafni
Galatea getta alla tua greggia pomi,
     O Polifemo, e te capraro appella
     Difficile in amor. Tu lei non vedi,
     0 pover uom, ma siedi dolcemente

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Fistoleggiando. Ve’ di nuovo or coglie
     La tua cagna seguace, che alle agnelle
     Fa guardia, e verso il mar guatando abbaja.
     Le limpid’onde placide ridenti
     Ne mostran lei, che va scorrendo il lido.
     Quand’esce fuor del mar la tua donzella,
     Ve’ che le gambe non le addenti, e strazii
     I bei membri. Or per te si ringalluzza
     Come l’aride chiome dell’acanto
     Abbrostolite dal calore estivo.
     Ella fugge chi l’ama, e in traccia corre
     Di chi non l’ama, e fa le prove estreme.
     Così ad Amor, sovente, o Polifemo,
     Quel che bello non è, bello rassembra.
Tacque, e il bel canto ripigliò Dameta.
dameta
Per Pan, la vidi trar le mele al gregge,
     Nè si celò a quest’occhio unico e dolce,
     Ond’io tutto vedrò fino alla morte.
     Ma Telemo, che ognor m’annunzia guai,
     Ei sol se gli abbia per serbarli ai figli.
     Io per darle martello non la guato,
     E dico avere un’altra donna; ed ella,
     O Febo! allor di gelosia si rode,
     E dal pungolo spinta esce del mare
     A spiar ogni tana, ed ogni stalla.
     Io fei cenno alla cagna d’abbajarle;
     Che quand’io fea all’amor, le gagnolava
     Tenendo volto alle sue cosce il muso.
     Forse al veder questo mio stile un messo
     Invierammi, ed io terrò la porta
     Serrata, finchè giuri apparecchiarmi
     Di sua mano in quest’isola un bel letto.
     Brutta cera non ho, com’altri dice.
     Dianzi in mar mi specchiai; quand’era in calma;
     Bella vidi la barba, e bella ancora

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     A mio parer quest’unica pupilla.
     Più bianco assai di Pario marmo apparve
     Il luccicar dei denti; e perchè fatta
     Non vengami malìa, tre volte in seno
     Sputaimi, come m’insegnò la vecchia
     Cotittari, che il piffero sonava
     Là presso Ippocoonte ai mietitori.
Ciò detto il buon Dameta baciò Dafni,
     E diegli una sampogna, e l’altro a lui
     Un vago flauto. Indi Dameta il flauto
     A sonar prese, e la sampogna Dafni.
     Danzavano a quel suon le vitellette
     Sulle molli graminge, e niun dell’altro
     Rimase vincitor, ma entrambi invitti.