I suicidi di Parigi/Episodio terzo/V

Episodio terzo - V. Il seguito della colazione di Bianca e di Balbek

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V.

Il seguito della colazione di Bianca e di Balbek.

— Io pass’oltre a tutto ciò che i gazzettieri àn raccontato di questa storia nei libelli e nei giornali — favellò Tebe. Voi avete dovuto leggere tutto codesto.

— L’ò letto, Altezza.

— Allora voi saprete che tra mio fratello e me fuvvi mai sempre la più cattiva intelligenza. Sarebbe perchè mia madre, quando era incinta di mio fratello, si annoiava dei sermoni di un gesuita, e quando era incinta di me, si divertiva con un ciambellano saltimbanco? Dio lo sa. Il fatto è, che mio fratello non à saputo mai tollerarmi.

— Tutti i gabinetti di Europa non ignorano codesto. [p. 221 modifica]

— Bene. A ciò si aggiunsero le insinuazioni dei confessori e dei cortigiani. Sua Maestà si lamentava di un’indigestione? io l’aveva avvelenata! Sua Maestà aveva mal dormito? gli è ch’ella aveva creduto vedere l’ombra mia tra il muro e le cortine del letto! Le truppe di S. M. erano state battute? io aveva comunicato i piani strategici al nemico! I sudditi di S. M. si querelavano del suo malgoverno? ero io che li ammutinava. I figli di S. M. erano morti? era io che aveva dovuto soffiare su di loro il germe della morte! Infine, se S. M. non poteva più avere dei figliuoli, l’era io che lo aveva fatto sfinire da una ganza al mio servizio. Breve: io era il dio Siva del regno e del re Taddeo. Io metteva paura alla gente in cocolla e in livrea, che mi aveva tanto oltraggiato — e sapeva che io mi sovveniva e che non avrei mai perdonato. Bisognava dunque cacciarmi da parte ad ogni costo. E s’inspirò al re l’idea di un nuovo matrimonio.

— Ma, se Sua Maestà non aveva più prole!

— Sì, e perciò appunto si decisero a quelle nuove nozze. Ma la gente che commetteva questo misfatto non era mica di quella che si ferma a mezzo cammino. Da quando in poi, del resto, è stato necessario di fare i suoi propri bimbi? Una sola cosa sembrò urgente in questa circostanza: Trovare un suocero condiscendente ed una moglie complice. Si avevano le due cose sotto la mano, al di là di ogni desiderio. Il padre d’Ebro compose, S. M. Taddeo copiò una lettera per re Claudio III.

— Vostra Altezza l’à dunque letta?

— Ne ò avuto la copia in poter mio, dalla mano stessa del P. d’Ebro. Essa suonava così:


«Caro cugino,

«Io scrivo a V. M. un’altra lettera per mezzo dei miei ministri. Con questa, io mi indirizzo direttamente al figlio del fratello di mio padre. Gli è dire, che io desidero che il mio grido di uomo trovi un’eco nel cuore del parente, o che vi resti sepolto.

«Io sono in presenza della crisi la più spinosa del mio regno, sì pieno di accidenti. Io traverso il ponte dell’avvenire: affronto la questione della successione, in pre[p. 222 modifica]senza dalla quale la Provvidenza divina à voluto collocarmi per provarmi — ripigliandosi i figliuoli che impartiti mi aveva. Se avessi avuto, per compenso, in questo immenso disastro, l’affetto di mio fratello, mi sarei forse consolato di un dolore che uccide perfino i più forti. Ma l’Europa intiera, sgraziatamente, sa come la mano del Signore à posato gravemente sulla mia casa, anche da questo lato, ed à appreso i pericoli che ò corsi. Non ò avuto prove materiali sufficienti. Ò però la certezza morale, che quel fratello snaturato à attentato parecchie volte alla mia vita. E sono convinto, che la mia vita non cesserà di essere in pericolo contro quelle aggressioni, se non il giorno in cui io mi avrò una successione legittima diretta.

«Ecco quali considerazioni — oltre quelle dei miei popoli, della pace o della gloria della religione — mi ànno deciso ad implorare l’aiuto del Signore per un secondo matrimonio. Io tento Iddio. Imperocchè, quantunque la mia età di 54 anni non sia eccessiva, per l’opera satanica del principe di Tebe io posso considerarmi come estinto alla vita. Un matrimonio, sì, può consolare le tenerezze dei miei ultimi anni; ma, ohimè! esso non farà riverdire il ceppo fulminato della mia dinastia.

«Ora, l’è codesto che io voglio — a qualunque prezzo — ed è per codesto che io mi indirizzo a Vostra Maestà.

«Voi padre, non vorrete forse comprendermi; voi, fratello, esiterete forse. Aiutatemi come amico, come re, come uomo che va al soccorso di un uomo minacciato. Fate vostra la mia causa, il mio desiderio, la mia speranza, ed aggiungerei quasi la vendetta della natura e della morale oltraggiata. Vi dimando in matrimonio la vostra figlia maggiore, la principessa Bianca.

«Il suo carattere virile sarà opportuno alla lotta, dopo la mia morte. Il suo spirito elevato braverà il sacrifizio, innanzi al quale, io lo so, una donna volgare rinculerebbe, ma che pertanto è indispensabile onde dare come erede del mio trono il figliuolo di mia moglie.

«Ora, chi peserà queste ragioni di Stato? chi indovinerà questi sentimenti di un uomo curvato sotto il peso del suo dovere? chi distinguerà, in mezzo alle apparenze equivoche, la voce della coscienza che ispira i martiri, e [p. 223 modifica]chi farà gradire i miei voti alla principessa, se non voi che, re, conoscete i doveri cui impone la corona; che, padre, valuterete il trono sul quale vostra figlia verrà a sedere? Come parente, voi vi affliggerete del mio scorruccio e dei miei malanni domestici; come amico, vi addirete a portar soccorso alla mia miseria. Sì: mi occorre un erede a qualunque costo — ed è per questo che, malgrado le infermità dalla mia persona, vi dimando vostra figlia. A voi, che non mi siete straniero, nè per sangue nè per cuore, ò bisogno soggiunger altro?

«Al momento in cui tutto sarà pronto ed assicurato — se consentite a venirmi in aiuto per cavarmi fuori di questa crisi — non avrete che ad ordinare al marchese delle Antilles di aprire il dispaccio suggellato di cui l’ò munito, ed ei farà la dimanda ufficiale della mano della principessa Bianca. Se mi negate il vostro soccorso, non ne rimango mica meno l’amico di V. M., del di cui spirito e saggezza ò una così grande considerazione.

«Voglia Iddio ispirarvi, cugino mio, e farvi comprendere il vostro dovere di padre, con la medesima amplitudine ed il medesimo disinteresse che io comprendo quello di re, di uomo e di amico.»

— Che abbominevole guazzabuglio! — sclamò il principe di Lavandall. Se Vostra Altezza non me l’avesse detto, lo avrei indovinato che quella scritta usciva da un’officina clericale, ed era stata mandata da un sovrano.

— Ebbene, quest’infame lettera ebbe il suo effetto. Si dètte alla donzella il duca di Balbek per cavaliere di compagnia, ed il re Claudio rispose per un’epistola sul medesimo tono e stile.

— Vostra Altezza non à la copia della risposta?

— Sì, e della medesima mano del padre d’Ebro. Ma non me la ricordo mica così bene che l’altra. Diceva, in sostanza: che S. M. Taddeo poteva contare che l’appello alla sua affezione non resterebbe senza effetto, poichè trattavasi non solamente di consolare e rassicurare un parente, ma di punire uno scellerato — lo scellerato ero io — e di salvare una dinastia; che S. M. Claudio III accomoderebbe le cose di maniera che tutto fosse salvo: l’onore, la dignità, gl’interessi della successione, il segreto, il rispetto alla morale ed alla religione, l’augusta serenità del [p. 224 modifica]padre e dello sposo; che S. M. Taddeo, per la sua condotta disinteressata e piena di nobiltà, onorava la corona — la quale diveniva doppiamente divina, e per la benedizione di Dio, e per il sacrificio e l’umiltà dell’uomo, che s’inchinava innanzi al gastigo della Provvidenza, da cui si apparecchiava il rimedio nel tempo stesso che apriva la piaga...

E così, per quattro pagine zeppe zeppe.

— Quale di quelle due lettere è più vigliacca, e chi di quel padre o di quello sposo è più infame agli occhi di Vostra Altezza?

— Si valgono: la scelta sarebbe impossibile. Ma il risultato di tutto ciò non si fece attendere. Il duca di Balbek però, innanzi di mettersi all’opera seriamente, esigette, per iscritto, il mandato di cooperare ad assicurare la successione del re Taddeo. Suo zio, ministro del re Claudio, gli rilasciò questo attestato — come pure la copia autentica della lettera di re Taddeo e della risposta di re Claudio. E gli è precisamente questo documento essenziale dell’affare, cui non ò, e che mi occorre. Le lettere dei due re, copiate da un gesuita disgraziato, non ànno alcun valore morale: possono essere falsificate. Però, queste medesime, scritte, copiate da un ministro degli affari stranieri, e munite dei suggelli dello Stato, quella lettera ministeriale che autorizza l’impresa del duca di Balbek... ecco ciò che è capitale.

— Ma in che modo Vostra Altezza à avuto cognizione e comunicazione di questi documenti?

— Vado a dirvelo. Il matrimonio fu dunque manipolato e precipitato. Sei settimane dopo la sua partenza, il marchese delle Antilles, ritornando alla Corte del suo padrone, gli annunziava, e conduceva la sposa ed il successore. Mio fratello si recò, incognito, alla frontiera dei suoi Stati, all’incontro della regina. La bellezza di costei lo abbarbagliò — disse egli. — Egli pretestò dunque che la giovane donna dovesse essere stanca del viaggio; ordinò che si facesse sosta, e, contrariamente alla severa etichetta della nostra Corte, il matrimonio fu consacrato e consumato nel luogo stesso. Il domani, l’ispezione della camera nuziale ebbe luogo secondo l’uso: tutto era in regola! Il processo verbale, cui gli ufficiali speciali del regno redas[p. 225 modifica]sero, è depositato negli archivi dello Stato. Capite? tutto era in regola! Dopo questo tratto di genio della giovane regina, non era più mestieri di disperare di nulla. Se si fosse esatto l’intervenzione dello Spirito Santo nella faccenda, ella lo avrebbe esibito, a suo carico e discarico, come operatore.

— Il duca di Balbek era sempre della partita?

— Non ne avevano più bisogno. Per il momento, il re bastava. Laonde, quando, qualche mese dopo, la gravidanza della regina fu ufficialmente annunciata, alcuno non ne sembrò stupito. Quella donna era così bella! E poi, sì modesta, sì casta, così pia, così riserbata...! Ella fuggiva le feste; non visitava che ospizi e spedali, le chiese, sopratutto i conventi di donne ed i santuari miracolosi. Passava una grande parte del suo tempo fuori della capitale, nelle residenze reali di caccia e di riposo. I sudditi felici di S. M. Taddeo IX sapevano appena che si avessero una regina.

— Che abilità sovrana!

— Ascoltate ancora. Infrattanto i mesi passavano, l’ora dello snodamento avvicinava. Quell’uomo, quella donna, per re e regina che si fossero, non potevano aggiungere un secondo al tempo, nè rinculare di un minuto il giorno dello sgravo. Bisognava, non pertanto, rubare al tempo tre settimane o un mese. Non bastava poi al re di aver un erede. Gli occorreva, per giunta, un figlio maschio. Per forzare la mano di Dio in questa opera, dal primo giorno in cui un sospetto di gravidanza puntò, la regina cominciò a bazzicar le immagini miracolose che s’incaricano della bisogna. Ella corse tutti i romitaggi. Ma restava ancora lo più insigne. Lo si serbò per l’ultimo — tanto più che era il più lontano. Nelle montagne, lì, presso alla frontiera, vi è un convento di religiose di Sant’Orsola, annidato in un vecchio castello a cui si è addossato una chiesa. Il re è badessa di nascita di quelle religiose, ed à un appartamento nel convento. Nella chiesa, una madonna della Scala fa miracoli, e, a seconda della dimanda, gratifica garzoncelli, e li sostituisce alle ragazze, dall’alto dei cieli.

— Ecco lì una vergine che non à mica considerazioni pel suo sesso! — sclamò Lavandall. [p. 226 modifica]

— Ella se ne permette ben altro, eh! A sei chilometri di distanza, si trova un parco reale, con una foresta che si prolunga fin sotto le mura del giardino delle religiose — le quali ànno diritto di caccia nel bosco reale. Era il settimo mese dopo l’arrivo della regina nel regno. Ella si recò allora al Torrente dei Pini — ove ella cacciava negl’intervalli delle sue preghiere alla madonna della Scala. Al principio dell’ottavo mese, il re si rese anch’egli in quella residenza per cercarvi la regina, benedetta a dovere, e ricondurla nella capitale, dove ella avea il dovere di fare il suo parto — in presenza della Corte, dei corpi dello Stato, e della diplomazia.

— Che opulenza di sguardi per una giovine donna, in quella situazione delicata!

— Ebbene, la fatalità opinò esattamente come voi, forse, caro principe: perocchè essa volle evitare quella deboscia di occhi alla bella e giovane regina. Il fatto fu che, mentre un giorno ella cacciava quasi sola — lasciandosi dietro e ben lontano il suo seguito, secondo la sua consuetudine — il suo cavallo si abbattè a qualche centinaio di passi dal verziere delle religiose. La regina si trovò coricata per terra, ed il suo cavallo si allontanò al galoppo. Alla vista del destriero della regina corrente solo, gli staffieri ed i grooms di S. M., che l’avevano perduta di vista nei viali della boscaglia, si spaventarono. Si precipitarono tutti verso il luogo ove ella era scomparsa. E si finì per scoprirla, per terra, svenuta, pallidissima, ed un cotal poco sgraffiata qua e là.

— Che donna di genio! à conquistato la corona.

— Ne sareste voi innamorato, principe?

— Ne sareste voi geloso, monsignore?

— Quasi. La paura fu grande nel servidorame. Si raccolse la regina, cui si trasportò immediatamente nel convento, e si corse ad avvertire il re della disgrazia successa. S. M. sembrò fulminata. Credette tutto perduto. Si mandò a cercare il medico del villaggio vicino — il quale non potè giungere che molto tardi il dì seguente. La notte però la regina fu presa dalle doglie di un parto accelerato dalla caduta. L’è un aborto, dicevan tutti — senza escluderne la vecchia cameriera, anche un po’ levatrice — cui la regina aveva condotta dal suo paese — e compreso [p. 227 modifica]il medico, il quale in tutto codesto non vide che i pranzi ed i scudi reali. Il re si desolava, — dicevasi. Il neonato non sarebbe vitale. La regina correva grossi rischi. Gli empi! Essi contavano per nulla l’intervento della Vergine della Scala in quel malore! Non era stata ella, probabilmente, che aveva aiutato la regina a discendere di cavallo, quando alcuno non la vedeva? Non era stata forse ella che aveva scudisciato il ginnetto, il quale era partito al galoppo? Non era stata forse ella che aveva fregate le gengive della regina, e del sangue che ne aveva estratto le aveva maculato le mani ed il sembiante? Non era dessa che le aveva consigliato di ritenere il respiro, per diventar pallida, e tutto il resto di quell’opera miracolosa che si compiè col parto felice della sua reale divota? Andate dunque, in una disgrazia simile, a preoccuparvi dell’etichetta, e del corpo diplomatico, e dei corpi dello Stato, i quali dovevano essere le levatrici del successore del re Taddeo! La commedia era finita. Viva la regina!

— Poffardio! che pezzo di attrice!

— Ora, voi sapete il resto, che è storia: rivoluzione, guerra civile, Costituzione, esigenze del Parlamento, incameramento dei beni ecclesiastici, espulsione dei gesuiti... tutto per assicurare ad un bimbo intruso1 la successione della corona che mi era dovuta. Questo guazzabuglio, come di ragione, à stomacato papa Gregorio XVI; à messo in forte collera i Reverendi Padri. Di quivi, Sua Santità à autorizzato il P. di Ebro a parlare, a rivelare gli stessi segreti della confessione — trattandosi del bene della religione. Ed ecco come io ò ricevuto a Roma, al Gesù, comunicazione di questi documenti e conoscenza dei fatti e degli atti.

— Nulla mi stupisce adesso. E con codesti ausiliari io non dispero di nulla...

— Voi avete ben ragione. Però, bisogna che sappiate che i RR. PP. ànno di già fatto delle ricerche inutili. I documenti in questione non sono, e’ sembra, presso il duca di Balbek. Si è rimuginato dovunque in casa sua, si pensa — dovunque, almeno, l’occhio di un lacchè e la mano di [p. 228 modifica]un ladro possono giungere. Le ricerche sono state infruttuose. Al palazzo dell’ambasciata non vi è nulla. Ora, come non è probabile che quelle carte fossero state distrutte; come il duca di Balbek non è un sere a disfarsene per nulla; come non le gli si strapperanno che dopo una resistenza disperata... la partita cui impegniamo diventa terribile. Nondimeno, dovessimo noi mettere il fuoco ai quattro cantoni di Parigi, quelle carte mi occorrono. Bisogna che io le depositi nella cancelleria russa a Pietroburgo, dove tutta la diplomazia straniera potrà consultarne e verificarne l’autenticità, prima che io dia la battaglia suprema a mio fratello ed al successore cui à fabbricato per frustrarmi del trono. Cosa pensate voi fare, principe?

— Altezza, non ne so ancora nulla.

— Io parto per l’Inghilterra. Se avrò del danaro, ve ne manderò.

— Ve ne sarà forse bisogno. Noi abbiamo a fare con un nemico formidabile — il duca di Balbek, soppannato da un compare terribile, il dottore di Nubo. La battaglia cui andiamo a presentare a quelle volpi-tigri sarà rude. Piaccia a Dio che, se vi debba esser del sangue, non vi siano almeno delitti.

— Principe — disse il sire di Tebe levandosi — sangue e delitto sono parole che non ànno un significato assoluto, e non ispaventano che gli spiriti piccoli e le coscienze di già punticce. Il delitto e l’assassinio, alla fin fine, non ricadono su coloro che se ne macchiano, ma su coloro che li provocano. La giustizia umana borbotta come barbogia.

— E strangola come brigante, Altezza — in Francia almeno, dove si è inventata quell’assurda infamia che addimandasi eguaglianza. Ma noi non ne siamo ancora lì. Noi vaneggiamo, in lontananza, dei grandi drammi e delle grandi peripezie, per arrivar forse ad una soluzione che può esser delle più semplici. Lasciatemi dapprima ispezionare il campo di battaglia e scandagliare le forze del nemico. Poi, farsa o tragedia, ci si troverà pronti a tutto.

— Punto di scrupoli, principe! Con galeotti, gallonati o coronati, tutto è permesso. L’infamia è una necessità, e talvolta un dovere.

Il principe di Tebe uscì. Il suo aspetto era addivenuto orrido pronunziando le ultime parole. [p. 229 modifica]

Il principe Lavandall lo accompagnò in silenzio, gli occhi bassi — sotto quello sguardo che distillava sangue.

Quando ritornò nel suo gabinetto, vi trovò Sergio di Linsac che lo aspettava.

— Ebbene? — sclamò il principe, esprimendo con tutta la sua persona una pressante interrogazione.

Sergio di Linsac sorrise e si fregò le mani di un’aria soddisfatta.

Note

  1. Non sarebbe piuttosto ad una bimba intrusa — Isabella?

    (Nota dell’Editore)