I suicidi di Parigi/Episodio terzo/IV
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IV.
Ove si vede che chi comanda non suda.
Cinque anni sono scorsi dall’asciolvere della principessa Bianca col duca di Balbek nella galleria delle due cascate.
Grandi avvenimenti sono occorsi.
Claudio III è morto.
Il duca di Balbek è ambasciatore di suo figlio, re Comodo V, presso la Corte delle Tuileries1.
La principessa Bianca à sposato re Taddeo IX, il cui regno à subito gravi prove.
Il principe Alessandro di Lavandall è sempre incaricato dall’imperatore Nicola di quelle funzioni misteriose che toccavano al mondo dei saloni di Parigi, alla polizia politica ed all’alto intrigo diplomatico. E’ scriveva sempre allo czar di quei ghiotti spacci, cui Federico II, Caterina II, Luigi XVIII gustavano con tanto appetito — la petite presse all’uso delle teste coronate!
Un mattino dell’anno.... non mi ricordo bene la data. Ma M. Guizot era ministro, ovvero M. Thiers — uno, insomma, dei due grandi piloti che condussero la dinastia di Orléans al di là della Manica! Un mattino, dunque, di questo ricordevole anno, il principe di Lavandall passeggiava nella sua sala d’armi.
Erano le nove del mattino.
Egli aveva fatto due ore di ginnastica alla spada col suo maestro d’armi, ed in quel momento percorreva in lungo ed in largo la sala, per dare l’ultimo acume a quell’appetito della colazione sì ben preparato dalla scherma. Un monte di giornali, più o meno sberleffatti da una matita rossa, giacevano sur un divano, e due o tre altri sur una seggiola, marcati all’inchiostro nero e postillati.
Il principe era avvolto in una vesta da camera di cachemire grigio, e si baloccava colla cordella turchina che l’azzeccava alla vita. Era distratto e camminava a gran passi, borbottando qualche cosa. Poi tuffava le mani nelle sue grandi tasche e ne tirava fuori, per la terza volta, un dispaccio, cui leggeva facendo dei musoni singolari, sclamando con dispetto:
— Sì, sì, vi ci vorrei ben vedere, voi signor conte di Nesselrode! Gli è facile dar degli ordini, i piedi stesi sugli alari del camino...
E soggiungeva altra roba, forse meno riverente pel suo ministro, cui perciò appunto non articolava chiaro, e che restava in istato di ringhio indistinto.
In quel momento, un domestico annunziò il signor conte Sergio di Linsac.
Il principe fece un segno della testa, ed il signor di Linsac entrò.
Non era avariato di molto, dopo l’assassinio di Regina. Sarebbe forse perchè il rimorso non è ruggine che rode alla superficie, ma trivella che fora in dentro?
Vi sono dei dolori che sono una maschera; altri che sono un’anima.
Per espiare il sospetto — di cui aveva vituperata Regina — il signor di Linsac si era forse imposto il bazzicare intorno al principe di Lavandall. Il principe, dal lato suo, onde risarcirlo in qualche modo, gli aveva procurato una sovvenzione annua di 30,000 franchi dalla Russia, per il suo giornale Les Deux Europes: perocchè vi sono dei rimorsi gentiluomini.
Il fatto è, che il demone dell’ambizione aveva acciuffato M. di Linsac, e che egli voleva arrivare ad ogni costo, arrivare a tutto.
La fortuna del signor Thiers lo aveva abbarbagliato. Voleva dunque esser deputato, pari, ministro, ambasciatore, tutto ciò che la sua ardente immaginazione di romanziere gli pingeva come una sorgente di ricchezza e di piaceri. Si era gittato perciò a corpo perduto nel giornalismo conservatore.
Il signor Guizot lo pagava e sprezzava largamente. Si serviva dello stile pomposo e vuoto, della coscienza senza fede, del cuore senza principii di questa spugna politica, per coltivare la parte più ignominiosa della sua politica secreta. Era però pronto sempre a spezzarlo, se la necessità lo imponeva, dicendogli: Vi ò pagato per codesto!
Come il principe di Lavandall, il signor di Linsac è adesso un po’ calvo sul vertice della fronte, cui le rughe delle cure, delle brame, dell’ambizione, dei disinganni invadevano. Come il principe, egli à preso quel certo impinguare, cui danno l’età, il comodo, un poco di pigrizia, la vita molle, le amiche rinnovellate a punto — da tenere il desiderio in piedi senza la pena degli stimolanti, cui la calma dei sensi e la saturazione dei piaceri spiegano. Come il principe, egli aveva acquistato quella pallidezza che segue al serio del pensiero — quella pallidezza sana che indica il lavoro dell’anima, non quella pallidezza mordace che ne indica la combustione e la rovina. Come il principe, egli aveva l’occhio spento, il labbro inferiore un po’ abbattuto, qualche grinza intorno agli occhi, la barba rasa — tranne i baffi — i movimenti gravi.
L’uno e l’altro portavano la testa alta, guardavan dritto innanzi a loro, ascoltavano bene, stavano in guardia, parlando. Come il principe, il signor di Linsac scherza col sorriso — quello spasimo che implica nelle sue pieghe Dio e Satana — le due metà, o piuttosto le due facce del Tutto.
Entrambi sono graziosi e falsi, seducenti e perfidi, pensan nero e dicon rosa — ciò che non li impedisce di esser generosi, sempre gentiluomini — anche nel vizio — sempre eleganti. Entrambi infine odiano profondamente, squisitamente — ed odian forse lo stesso uomo: l’assassino vero di Regina! Ed entrambi dissimulano quell’odio con la precauzione sinistra di una donna di trent’anni, cui si derubò del suo amore.
Per gl’Iddii! pazienza, mio principe; pazienza, mio Proteo! il dottor di Nubo non à forse neppure sessant’anni!
A quest’ora il signor di Linsac veniva a dimandare la sua parola d’ordine, per non so quale polemica cui aveva impegnata in favore della Gallizia e di Cracovia.
— Arrivate a proposito, signor di Linsac — disse il principe. O’ qualche cosa a chiedervi. So che posso contare sulla vostra discrezione.
— Lo potete, principe mio. Ma voi sapete altresì che io amo poco le confidenze, le quali sono come le macchie di olio: si spandono e si tradiscono sempre da sè sole!
— Non temete nulla. Non è mica una confidenza che io vi fo; è un consulto che vi dimando. Non siete voi ancora romanziere, fra linea e linea, bordeggiando fra il diplomatico dell’avvenire ed il pubblicista di oggidì? Ma, da prima, prendete quei due giornali su quella sedia. Leggerete ciò che è segnato all’inchiostro. Vi risponderete, aggiungendo: che, quantunque dato dal Journal Français de Francfort e dalla Gazzetta d’Augsbourg, voi avreste della pena a credere a quelle notizie, se, trattandosi di una perfidia, la mano del principe di Metternich non vi fosse mischiata.
— Quel caro principe! m’à fatto rispondere al mio ultimo articolo dal signor di Gentz: che per lo innanzi, la Russia aveva dei giornalisti assassini — i quali uccidevano una reputazione — e che adesso la assolda dei facchini — i quali marciano pesanti nella melma ed inzaccherano le genti.
— E voi avete risposto?
— Che non s’inzacchera l’oro. E tutte le Corti d’Europa sanno che il principe di Metternich non è che un luigi di oro!
— Alessandro ne sapeva qualcosa. Napoleone ed il re di Napoli essi pure. Vada! Voi passerete in seguito dal mio segretario, il quale vi darà un embrione di articolo, cui ricamerete in guisa da non vedervisi che scintille; in sostanza, nè cane nè lupo. Debbo dirvi, a questo proposito, che si è contenti di voi, e che lo Czar legge i vostri articoli. La vostra pensione sarà aumentata.
Il signor di Linsac s’inchinò.
Il principe continuò:
— Vi associo ora alla soluzione di un problema, cui il conte di Nesselrode mi propone, o, meglio, cui il nostro ambasciatore a Roma à posto.
— Diavolo! Ed io che sono così smilzo matematico! — sclamò Sergio, sorridendo.
— Ed io dunque? — riprese il principe. Ma insomma, il problema dato, bisogna pure risolverlo. Ecco di che si tratta. L’ambasciatore d’Austria a Roma possiede, non so come, tre documenti, di un valore incalcolabile, cui la Corte di Torino vorrebbe avere. E’ sembra si riferiscano al modo con cui Carlo Alberto arrivò al trono, a detrimento del duca di Modena. L’ambasciadore di Sardegna a Pietroburgo à interessato lo Czar all’acquisto di quelle carte, e Sua Maestà Imperiale ne à incaricato il suo ambasciadore a Roma. Voi vedete chiara la cosa, n’è vero?
— Perfettamente.
— Bene. Ora, come vi condurreste voi per ottenere quei documenti? Per alcuna considerazione al mondo, l’ambasciadore d’Austria non vorrebbe disfarsene.
— Ma! se egli non vuole darli, io non veggo che un mezzo: pigliarglieli.
— Alto là, signore! — sclamò il principe aggrottando. Cedesti procedimenti sono buoni per quei governi di mascalzoni che voi chiamate parlamentari, e per quei ministri saltimbanchi che vanno a farsi assolvere delle loro stoltezze e delle loro infamie da quella masnada d’idioti cui voi addimandate una maggioranza. Maggioranza! Poffardio! come se in questo mondo la scienza, la probità, l’onore fossero la dote del più gran numero, e l’imbecillità una anomalia minima! I piedi valgono dunque meglio della testa, perchè son due, mentre la testa è sola?
— Cosa volete, principe mio, — sclamò Linsac sorridendo, — quei gnoccoloni di Inglesi ci ànno importato ciò... con la scienza abbominevole del confortable, il libero cambio, la vita a buon patto, ed il beefsteak saignant.
— Voi avete mal capito l’Inghilterra. Colà, la maggioranza non è, in sostanza, che la minoranza. Vi à dunque tanta gente che possa spendere 250,000 franchi per cavarsi il solletico di andare a gridare per sei mesi, durante cinque anni — se non arrivano accidenti — in un bazar di coscienze? Ma infine, se appo di voi involar delle carte può essere scusato da ciò che voi chiamate ragione di Stato, in quella Corte autocratica, che i vostri giornali dell’opposizione calunniano ogni mattino, da quel despota di tutte le Russie, di cui i vostri mariuoli a penna di acciaio fanno un tiranno da tragedia, un atto simile sarebbe ricompensato dello knout e dei lavori forzati nelle miniere dell’Ural. Scartate dunque codesto mezzo.
— Allora, principe mio, è mestieri comprar quelle carte a quell’ambasciadore.
— Per lui, valgono dei milioni.
— Se non si tratta che di codesto, la soluzione è bella e trovata.
— In che modo?
— Ma! l’è una legge economica semplicissima che vi indica il vostro metodo.
— Spiegatevi.
— Ecco qui. Ora, voi avete bisogno di comprare e l’ambasciatore non vuol vendere. Egli mantiene, per conseguenza, il prezzo alto. Bisogna dunque creare un insieme di circostanze, mediante le quali voi mettete l’ambasciatore nella necessità di vendere. È chiaro.
— Per bacco! l’è vero codesto. L’uovo di Colombo rappresenterà sempre la sua parte!
— Eh! mio Dio, sì, principe. E...
La conversazione fu interrotta dall’entrata precipitosa di un domestico che rimise al principe una carta di visita.
— All’istante — sclamò il principe. M. di Linsac ò bisogno di parlarvi. Vogliate aspettarmi o ritornare fra due ore.
— Ritornerò, principe — disse Sergio, salutando ed uscendo.
Il principe di Lavandall entrò nella sua camera per indossare una redingote, poi si recò al salone.
Aveva letto sulla carta di visita: Le prince de Thébes!2.
Era dunque il fratello di S. M. Taddeo IX che lo aspettava.
Il principe di Tebe aveva una figura atroce — ciò che non significa assolutamente una figura laida. Era verde come un pappagallo; ne aveva l’aria maliziosa. I suoi occhi erano grandi; ma il suo sguardo feroce. Le sue labbra erano rosse; ma desse svelavano gli istinti degli animali carnivori. La sua bocca era piccola, bella, voluttuosa; ma se ne paventava il morsicare più che il bacio. I suoi capelli erano neri; ma si rizzavano come stecchi da per tutto e sfidavano le leggi del pettine. Le sue mani erano piccoline; ma si aggrinzavano in uno stato di agitazione perenne: lo si sarebbe detto un cavaliere d’industria! La sua taglia era pieghevole e fina; ma teneva meno dell’ondulazione graziosa della donna, che dello slancio della pantera. La sua fronte era alta; ma poi indietreggiava bruscamente come quella degli animali della razza felina. La sua statura era piccola; ma il suo portamento era così altero che ne imponeva come un gigante.
Guai a chi si fidava alla dolcezza della sua voce, alle carezze della sua parola, all’eleganza de’ suoi gesti, alla gentilezza delle sue maniere, all’assicuranza del suo attaccamento, alle melodie del suo amore e della sua amicizia! Il principe di Tebe era Tartufe soppannato da Cartouche — un duca d’Alba azzimato in Wilberforce! Lo si poteva paragonare a quei bei guanti cui faceva preparare Caterina dei Medici: mortali per chi li metteva! o a quelle lettere di amore che inviavano certe patrizie italiane del XVI secolo: che avvelenavano gli sgraziati che le aprivano!
Quante storie non si raccontavano sugli amori del principe di Tebe, tutti terminati con l’assassinio?
Gli è vero, però, che erano i gesuiti i quali mettevano in circolazione tutto codesto.
Il principe di Tebe, steso sur un canapè, contemplava, la voluttà negli occhi, un martirio di S. Sebastiano di Annibale Caracci, quando il principe di Lavandall gli si avvicinò e gli disse:
— Dimando mille scuse a Vostra Altezza Reale se ò avuta la sfortuna di farla aspettare. Mi trovavo nella mia sala d’armi...
— Non importa — interruppe il principe di Tebe.
— Perchè Vostra Altezza, d’altronde, non mi à fatto l’onore di chiamarmi presso di sè?
— Perchè io sono in un albergo, — e la camere d’albergo ànno tutte delle orecchie. Ora, io ò a parlare con voi di cose che, anche in questo vasto salone, esito a comunicarvi.
— Vostra Altezza può favellare senza tema. Nonpertanto, se Vostra Altezza desidera intrattenersi meco in un gabinetto più solitario ed appartato, avrò l’onore di mostrarle il cammino.
— Sì: credo che ciò sia meglio. Quando si vuol essere un po’ sicuri del silenzio, meglio vale veder le parole palpitare sulle labbra anzi che udirle.
Il principe di Lavandall si alzò e condusse il fratello del re Taddeo in un gabinetto che sporgeva sul giardino, vicino al suo gabinetto di lavoro — ove egli si ritirava per redigere i suoi dispacci particolari allo Czar.
L’era una stanzuccia ottagona, tappezzata di lampasso verde, guarnita di una biblioteca, con un divano comodissimo per meditare, due seggioloni e quattro quadri: i ritratti di Nicola e della czarina a mezzo busto, un’Anima di Scheffer, ed un clown impiedi innanzi ad un piccolo cadavere, di quell’Hamlet della pittura che chiamasi Delacroix.
Il principe di Tebe si allungò sul divano, fece segno al signor di Lavandall di sedersi rimpetto a lui e disse, dopo qualche minuto di silenzio:
— Arrivo dalla Russia.
— Lo so, monsignore, io vi aspettava.
— Il conte di Nesselrode vi à scritto, allora, di che si tratta.
— Ò ricevuta la lettera del Gran Cancelliere questa mattina stessa.
— Sì. Gli avevo detto che mi sarei trattenuto qualche giorno a Vienna. Ma, dopo un abboccamento col signor di Metternich, l’impazienza mi à soverchiato, e sono partito la notte stessa.
— Il Cancelliere austriaco parteciperebbe anch’egli ai segreti di Vostra Altezza?
— Oh! no. Egli li avrebbe venduti.
— Sono ai vostri ordini, monsignore. Ma non nascondo a V. A. che l’intrapresa è arduissima.
— Lo so anch’io.
— Tanto più che non si è neppur sicuri che quelle carte esistano ancora.
— Ciò è certo: esse esistono.
— Sarei indiscreto se domandassi a V. A. come ella ne ebbe la rivelazione!
— Per il mezzo lo più sicuro: dal padre d’Ebro, confessore di mio fratello.
— Possibile?
— L’è così. Io vado a raccontarvi tutto; ma procediamo con ordine.