I suicidi di Parigi/Episodio terzo/I
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I.
Una confusione come ve n’àn poche.
Vogliate entrare, se non vi è discaro.
Noi siamo nella cappella del castello, il mattino del mercoledì santo.
Un prete aspettava innanzi l’altare, dalle otto del mattino, per cominciare la messa.
Erano già le nove.
Ingualdrappato da capo a piedi; il viso rivolto al lato della porta; le spalle appoggiate al corno del Vangelo; quel paziente ecclesiastico sembrava abituato alla sua posizione, a que’ ritardi, alla vista del luogo.
Egli guardava dunque con indifferenza suprema i marmi, le colonne, le sculture, le dorature, i balaustri, le tribune, gli stucchi, i vetri dipinti, i merletti delle ogive, le nervature, i rosoni della cappella - che si sarebbero detti un oggetto da oreficeria, talmente erano ricchi, eleganti, minutini - di quell’architettura rococò insomma, della seconda metà del XVII secolo, protetta dai gesuiti.
Il prete applicava i suoi occhi senza sguardo sopra una madonna di Alfonso Cano, e sbadigliava. Egli portava poi quelli occhi carichi di noia sopra un martire del Ribera, e cominciava una seconda tappa di sbadigli; e di tappa in tappa, e’ trascinava quello sguardo senza lume da una Santa Agnese di Velasquez ad una Santa Lucia di Ribalta, da un santo inquisitore di Zurbaran ad altri santi e ad altre sante del Domenichino, del Caravaggio, del Guido. — E non era neppur rapito da una splendida carola d’angeli dell’Albano.
Il brav’uomo si sarebbe addormentato, se un mozzoncello di paggio, trasformato per la bisogna in chierico, non gli avesse di tanto in tanto pizzicato i polpacci a sottecchi, e non l’avesse fatto di tempo in tempo trasalire.
Allora e’ sospirava, e guardava il bel masso d’iride che il sole, filtrando a traverso il rosone a vetri colorati sulla porta, stampava nel mezzo della cappella.
Come la primavera inneggiava al di fuori! Che brezza tiepida in que’ bei viali del parco — mentre che egli aggrinzava su quell’altare di marmo ove il buon Dio, egli stesso, doveva trovarsi a disagio! Come gli insetti e gli uccelli erano liberi sotto quella volta di cielo — mentre che egli — unto del Signore e bisunto del mondo — montava la guardia sotto quella volta di stucco e di legno, ed aspettava, e doveva aspettare chi sa ancora per quanto tempo!
La cappella era vuota.
Tranne il prete ed il paggio, una lampada di oro che oscillava, ed una polvere di oro, che formicolava in quel raggio di sole guizzato al di dentro, nulla movevasi, nè dava segno di vita.
Il rumore indietreggiava, pieno di riverenza o di paura.
Un inginocchiatoio, coverto di velluto cremisi, a fiordalisi, indicava che qualcuno doveva venire.
Poi, non una sedia, non una panca per chichessia. Quella cappella era un gabinetto privato, ove il buon Dio si recava per uso di qualche essere privilegiato, esclusivamente.
La porta che conduceva al di fuori era chiusa. Le tendine di seta verde delle tribune erano abbassate. Una portiera in velluto paonazzo, ornata di frange e di nappe d’oro, mascherava una porta laterale.
Il prete volgeva lo sguardo da quel lato con più persistenza ed ansietà, che verso i capolavori d’arte, i quali popolavano il luogo.
Infine, alle nove e mezzo, quella cortina si mosse, una mano, appartenente ad un corpo che si tirava indietro, la sollevò, a lasciò passare il personaggio aspettato.
Questi era un uomo di taglia mezzana, di aspetto insignificante, di uno scialbo fuligginoso, dagli occhi vitrei. Era calvo, tranne alle tempie, ove si rizzava qualche ciocca di capelli rossastri. Non un pelo sul volto. Le labbra rientrate, e la bocca ermeticamente serrata.
In tutti i suoi lineamenti non aveva di saliente che gli zigomi — i quali si arrampicavano verso l’insù della fronte — e le orecchie, che davan giù verso la mascella inferiore, come quelle del cane. Le narici erano feroci — ed eran desse la sola cosa che parlasse in quella figura allampanata.
Portava sul capo un berretto di velluto nero, cui levò entrando in cappella, ed avviluppavasi in un lungo zamberlucco da camera di velluto violetto.
Su questo, brillava l’ordine del Toson d’oro. E con codesto, delle pantofole ai piedi ed una pezzuola bianca attorno al collo1.
Un gesuita, che lo seguiva a due passi in dietro, s’inginocchiò alla sua sinistra, alla medesima distanza, mentre che egli, con la sua aria vecchiotta, s’installava a comodo sull’inginocchiatoio. Ed il prete dell’altare volgeva il dorso e dava principio alla messa.
Il sembiante del gesuita contrastava singolarmente con quello del personaggio del Toson d’oro.
Quel reverendo era pallido anch’egli, ma di quella pallidezza biliosa, cui cagionano lo studio, la reclusione, l’ambizione, le forti passioni tenute a briglia, il sangue che brucia senza ossigeno, mediante il sistema dei fumivori — di quella pallidezza fatale, insomma, la quale è il prodotto del consumo spontaneo, e che inverniciò tanti visi di grandi uomini e di uomini terribili; — la pallidezza di Dante, di Napoleone, di Filippo II, di S. Domenico e di Fouquier Tinville.
Era alto e magro, e di già un poco curvo, quantunque non avesse che circa cinquant’anni. La sua fronte calva si elevava alta. I suoi occhi profondi e neri fiammeggiavano. Il suo naso aquilino respirava le tempeste. Le sue labbra fine e pallide, ornate di un falso sorriso, denunziavano l’astuzia. Dai larghi denti, spaziati, acuti, indicavano istinti poco umani. Contrariamente alle regole del suo ordine, portava la testa alta, e guardava dritto innanzi a sè.
Gli è vero, che nella sua prima gioventù quel padre era stato dragone. E’ si chiamava allora il conte di Landrolle. Si chiama adesso il padre d’Ebro.
Aveva disertato da Napoleone a Waterloo, al seguito di Bourmont.
La messa, che scivolava allo spiccio, passava per sopra al suo capo. E’ non ne aveva bisogno. Azzeccava invece il suo sguardo sull’uomo dal Toson d’oro, il quale sembrava più attento e più divoto di lui.
Quando il prete si fu comunicato, il gesuita si avvicinò all’inginocchiatoio. L’uomo che l’occupava fe’ segno della testa di non aver d’uopo del ministero di lui. Si alzò infatti ed andò a comunicarsi all’altare.
Di ritorno al suo posto, e’ parve più fervente. Il gesuita, più inquieto.
Infine, la messa terminò. Il prete rientrò in sacrestia, ed il personaggio in veste da camera si levò. Il gesuita si precipitò per rialzare la portiera dell’uscio, lo lasciò passare e lo seguì.
Il personaggio dal Toson d’oro non manifestò di avvedersi di quegli atti di deferenza. E’ camminò dritto, traversando qualche sala ove zonzavano parecchi lacchè, affrettati ad aprire le porte.
Il gesuita seguiva in silenzio.
Arrivati in una galleria dove si aprivano più porte, il padre d’Ebro s’inchinò profondamente dietro il personaggio che lo precedeva, quasi per pigliare commiato da lui. Allora questi si volse e gli fe’ segno di continuare a seguirlo.
Il gesuita girò il manubrio della porta. Il personaggio entrò in una camera da letto, la traversò ed andò a sedere in un gabinetto da lavoro o da preghiera.
Quel ricovero, le di cui finestre sporgevano sul giardino, era tappezzato di raso cilestre a gigli d’oro. Sul muro, al fondo, penzolava un grande crocifisso di avorio, ed ai piedi di questo un inginocchiatoio di ebano. Vicino alla finestra, era uno scrittoio con qualche libro di sopra. A lato, un piccolo stipo incrostato di tartaruga. Dietro, un divano molto comodo, in velluto, ed un seggiolone innanzi lo scrittoio, stemmato a corona.
L’uomo dal Toson d’oro andò a sdraiarsi sul divano ed indicò al gesuita di tirare il campanello.
Questi toccò un bottone e restò impiedi.
Due minuti dopo, un lacchè, seguito da due gentiluomini con una chiave d’oro sul dorso, portò sur un vassoio d’oro una tazza di porcellana ripiena di cioccolatte. Il personaggio la prese, e di un gesto ordinò a quella gente di uscire.
Il gesuita restava sempre impiedi, vicino alla porta.
Quando il cioccolatte fu sorbito, il personaggio porse la tazza al gesuita, additandogli di posarla sullo scrittoio, e disse:
— Prendete quel seggio e sedete lì, in faccia a me.
— Mille grazie, sire — mormorò il padre d’Ebro.
Egli era in presenza di sua maestà, re Taddeo IX.
— O’ a parlarvi — disse costui, dopo qualche minuto di silenzio.
— Sono sempre agli ordini di vostra maestà.
— Fate attenzione, padre mio, chè vi parlo in confessione.
Il padre d’Ebro si alzò, s’inchinò, e si riassise.
— Voi vi occupate, padre mio, degli affari della mia anima. Ma voi non vi astenete di darmi altresì dei consigli sulla condotta del mio governo.
— Quando V. M. mi fa la grazia di esprimerne il desiderio...
— E sovente pure, senza che io lo desideri e senza ch’io ve lo domandi.
Il gesuita abbassò il capo, astenendosi dal rispondere.
La voce del re sembrava severa.
— Ora — continuò Taddeo IX — io vi consulto sopra un caso grave — grave per la mia coscienza d’uomo, pel mio onore di cavaliere, per il mio dovere di re.
— Vostra maestà può contare sulla mia lealtà senza limiti, e su i miei consigli — quali piacerà al nostro divino Redentore di inspirarmeli.
— Padre d’Ebro, vi siete voi giammai preoccupato della situazione del mio regno?
— Sire, dopo il regno del cielo — di cui mi sforzo appianare la via a V. M., e cui mi arrabatto a conquistare per me — io non ò che un pensiero: la grandezza, la pace, la sicurezza... e la buona direzione del reggimento di V. M. nelle viste del Signore.
— Io sono vedovo, padre mio — sclamò il re sospirando.
— Il signore ha detto nel libro della Sapienza: «Le amarezze dal vedovo parlano al Signore dell’integrità del suo cuore.»
— Non ò figliuoli.
— Vostra maestà à di già professato con Giob: Dominus dedit, Dominus abstulit!
— Ad ogni modo, Egli avrebbe meglio fatto di lasciarmeli — di lasciarli vivere, se veramente dati E’ me li aveva. Ma io ò dei dubbi su questi avvenimenti, cui è inutile di mettere in chiaro oggidì.
Il P. d’Ebro abbassò gli occhi e si tacque.
Il re continuò:
— Ora, che avverrà del mio trono, dopo la mia morte? Ecco la mia preoccupazione. È mestieri che io lo lasci a mio fratello — vale a dire, all’uomo che io odio di più in questo mondo.
— Sire — osservò il P. d’Ebro timidamente — il Signore proibisce l’odio, e la Chiesa non ordina di odiare che il peccato.
— Pertanto, bisogna ad ogni costo — dovess’io proclamar la Repubblica — che quell’uomo non mi succeda.
— Sire, le leggi fondamentali della Corona sono inesorabili su questo punto. Esse assicurano la successione a vostro fratello, se V. M. non avrà prole.
— Inezie! Chi à fatto quelle leggi? Gli Stati della nazione ed un altro re, che non era neppure dei miei antenati. Ebbene, che cosa è un re?
— Sire, l’Ecclesiastico à detto: «Dov’è la parola del re, quivi è la potenza. E chi può dirgli: cosa fai tu? Chi tiene il comando non può far male; ed il cuore di un uomo saggio distingue bene il tempo ed il giudizio.» Tale è il re.
— Io abrogherò la legge allora, e farò per il meglio.
— Sire, lo spirito del male non si rassegna giammai al bene, senza procurare di tuffarlo prima nella desolazione. Il principe di Tebe potrebbe cagionar dei malanni.
— Gli è precisamente codesto che sveglia le mie angustie. I popoli sono diventati infami: essi pensano e giudicano!
— Vostra Maestà è ancora giovane — insinuò il P. d’Ebro — e Dio semina l’avvenire. Ma l’uomo crea pure gli avvenimenti... e li corregge.
— Gli è appunto ciò cui penso da qualche settimana.
— Allora, V. M. troverà certamente la soluzione del problema... ed io supplicherò Dio che la rischiari.
— Non vi è mestieri di tanta luce, padre mio. Io non ò che quattro cose a fare. Primo: invertire l’ordine della successione...
— Gli Stati della nazione non lo consentirebbero, forse; ed e’ sarebbe pericoloso farne senza.
— Lo veggo anch’io. E perciò, ò messo da parte questa misura. Secondo: decretar la Repubblica, a partire dall’indomani dalla mia morte.
— Sire, non si rispetta sempre la volontà dei re defunti. Poi, la Repubblica, che assassina i re e rovescia gli altari, è abbominevole agli occhi di Dio.
— Ed ecco perchè ò messo da banda anche codesto mezzo. Terzo, allora: fare uccidere mio fratello.
Il gesuita non interloquì.
Il re continuò:
— Infine, riammogliarmi.
— E perchè no, sire? Vostra Maestà non à che cinquant’anni.
— Lo so. Ma cosa è l’età, cui annunzia un almanacco, se l’età, cui Dio infonde nel sangue, avanza del doppio? Io ò cento anni. Tutto è morto in me. Un nuovo matrimonio non migliorerebbe la situazione del mio regno e le condizioni della mia famiglia.
— Sire, voi obliate che Dio fa dei miracoli, o ch’Ei fa fiorire i rami disseccati.
— Io conosco qualcuno che farebbe di codesti miracoli senza ricorrere a Dio — e lo si vede più spesso che la morale nol consentirebbe. No, padre mio, non vi è resurrezione in questa materia. Quando l’olio è consunto, la lampada muore, e nulla la ralluma. Io ò tentato tutto, del resto, ed avrei dato nove decimi del mio regno a chi mi avesse presentato un elixir della vita.
— Sire, non bisogna scoraggiarsi giammai, quando si mette confidenza in Dio. Il signore à detto: «Io sono il forte!»
Re Taddeo conservò un silenzio pensieroso per qualche minuto, poi soggiunse:
— Padre mio, ove la scienza non arriva, ove la fede non basta, non trovate voi, non intravedete voi un altro mezzo?
— Sire — rispose il padre d’Ebro — io non oso nulla intravedere.
— Nondimanco, nella Bibbia, ove si attingono tanti consigli, ove s’incontrano tanti esempi, ove si cercano tanti espedienti e tante consolazioni, la soluzione dei dubbi che uccidono il mio riposo deve pur trovarsi consacrata.
— Sire, tutto è nella Bibbia. Solo occorre saperla interrogare. Che V. M. degni di mettermi sulla traccia, affinchè io le riveli la volontà di Dio.
— Ma, padre mio, gli è chiaro pertanto cosa io mi cerchi! Io voglio un successore al mio trono. Bisogna che n’abbia uno, che me se ne fabbrichi uno...
— Sire, posso osare comprendervi?
— Osate, osate, padre d’Ebro. Io voglio un successore... e la pace della mia coscienza. I pregiudizi degli uomini mi toccano poco, se la voce di Dio mi rassicura. Altri si son pure trovati nella medesima situazione, padre mio.
— Sire, poichè la M. V. mi ordina di aprire i libri santi, io oso leggervi?
— E cosa vi leggete voi?
— Nella Bibbia, sire, l’analogia è una chiave. Si parla di una radice di Jesse e s’intende Gesù. Geremia parla della Regina cœli, e la s’intende Maria. Ebbene...
— Ebbene?
— Sara non aveva figliuoli da Abramo. Ella introdusse nella camera nuziale la schiava Agar. Rachele non aveva prole da Giacobbe. Ella permise alla sua fante Balah di entrare nel suo talamo. Lia, per la medesima ragione, gli presentò la sua schiava Zilpah. E quella stessa Rachele permise alla sua sorella Lia di rivedere suo marito, per qualche ramo di mandragora.
— Basta — sclamò Taddeo IX. Gli è ciò che io voleva sapere. E cosa avvenne dei figli di quelle schiave, padre mio?
— Essi furono servitori di Dio, antenati di Gesù Cristo, patriarchi, capi di tribù — che erano i re d’allora...
— Padre d’Ebro — riprese il re — e se io seguissi l’esempio di quelle madri, di quelle mogli di patriarchi, troverei io grazia agli occhi del Signore? Potrei io dirgli: Io ò agito giusta i consigli di uno dei tuoi preti? La mia coscienza di cristiano può restare calma? Potrei io dirmi: Io ò compiuto il mio dovere di re!... ed andarmi a riposare nel Signore?
— Sire, io vi parlo in nome di Dio. Se egli vi à colpito — per uno dei suoi secreti inscandagliabili — della più crudele delle sue piaghe: la sterilità!... gli è ch’egli esigeva da V. M. la più grave delle espiazioni: quella dell’umiltà! Dio non poteva pensare a castigare i vostri popoli, che sono innocenti. Ora, il principe di Tebe sarebbe un castigo. La repubblica, la guerra civile. Una sostituzione mediante un ramo collaterale... Dio non può permettere codesto. Adorate la sua mano. Dio non adottò egli Saul, e dopo Saul Davide, in pregiudizio della discendenza del suo profeta? E perchè? Perchè gli Anziani del suo popolo dicevano a Samuele: «Guarda dunque! tu sei vecchio ed i tuoi figliuoli non vanno sulla tua strada; dacci un re che ci governi a modo delle altre nazioni.» Samuele fece quanto potè, e disse tutto ciò che seppe immaginare per distoglierli da quella determinazione. Gli Anziani tennero sodo, ed ebbero il loro re. Ora, se Samuele preferì un guardiano di asine, ed in seguito un guardiano di capre ai suoi proprii figliuoli — egli, Samuele, che faceva l’usura, dava mano alla corruzione e pervertiva la giustizia — di quanto un figliuolo di regina, nato dal cuore di V. M. non dovrebbe essere più gradito agli occhi del Signore, che questo successore obbligato, il quale cagionerebbe la ruina della nazione?
— Grazie, padre mio — disse il re. Io ò preso il mio partito. Voi mi avete convinto... e voi ne siete responsabile innanzi a Dio.
Il P. d’Ebro s’inchinò di un’aria piena di umiltà. Il re si levò e gli domandò:
— Padre d’Ebro, voi che leggete tante cose nelle Scritture Sante, vi avete voi giammai incontrato un qualche passo che si rapporti a re, i quali avrebbero ucciso dei profeti infedeli? E’ mi sembra che codesto debba esservi pure.
— Sire — sclamò il P. d’Ebro impallidendo — ciò vi è per l’appunto. Ma...
— Padre mio, parleremo del ma un’altra volta. Riflettete al testo, per il momento. La confessione è finita.
Il padre d’Ebro salutò umilmente ed escì.
Il re suonò.
Un ciambellano apparve.
— Il marchese delle Antilles — ordinò il re.
Due settimane dopo, il marchese delle Antilles era mandato in ambasciata straordinaria presso re Claudio III — onde negoziare un trattato di commercio e navigazione con suo cugino, il re Taddeo IX!
Note
- ↑ Si direbbe che si dipinga qui Ferdinando VII di Spagna.
(N. dell’Editore)