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miti, e su i miei consigli — quali piacerà al nostro divino Redentore di inspirarmeli.
— Padre d’Ebro, vi siete voi giammai preoccupato della situazione del mio regno?
— Sire, dopo il regno del cielo — di cui mi sforzo appianare la via a V. M., e cui mi arrabatto a conquistare per me — io non ò che un pensiero: la grandezza, la pace, la sicurezza... e la buona direzione del reggimento di V. M. nelle viste del Signore.
— Io sono vedovo, padre mio — sclamò il re sospirando.
— Il signore ha detto nel libro della Sapienza: «Le amarezze dal vedovo parlano al Signore dell’intergrità del suo cuore.»
— Non ò figliuoli.
— Vostra maestà à di già professato con Giob: Dominus dedit, Dominus abstulit!
— Ad ogni modo, Egli avrebbe meglio fatto di lasciarmeli — di lasciarli vivere, se veramente dati E’ me li aveva. Ma io ò dei dubbi su questi avvenimenti, cui è inutile di mettere in chiaro oggidì.
Il P. d’Ebro abbassò gli occhi e si tacque.
Il re continuò:
— Ora, che avverrà del mio trono, dopo la mia morte? Ecco la mia preoccupazione. È mestieri che io lo lasci a mio fratello — vale a dire, all’uomo che io odio di più in questo mondo.
— Sire — osservò il P. d’Ebro timidamente — il Signore proibisce l’odio, e la Chiesa non ordina di odiare che il peccato.
— Pertanto, bisogna ad ogni costo — dovess’io proclamar la Repubblica — che quell’uomo non mi succeda.
— Sire, le leggi fondamentali della Corona sono inesorabili su questo punto. Esse assicurano la successione a vostro fratello, se V. M. non avrà prole.
— Inezie! Chi à fatto quelle leggi? Gli Stati della nazione ed un altro re, che non era neppure dei miei antenati. Ebbene, che cosa è un re?
— Sire, l’Ecclesiastico à detto: «Dov’è la parola del re, quivi è la potenza. E chi può dirgli: cosa fai tu? Chi tiene il comando non può far male; ed il cuore di un uomo saggio distingue bene il tempo ed il giudizio.» Tale è il re.