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Infine, alle nove e mezzo, quella cortina si mosse, una mano, appartenente ad un corpo che si tirava indietro, la sollevò, a lasciò passare il personaggio aspettato.

Questi era un uomo di taglia mezzana, di aspetto insignificante, di uno scialbo fuligginoso, dagli occhi vitrei. Era calvo, tranne alle tempie, ove si rizzava qualche ciocca di capelli rossastri. Non un pelo sul volto. Le labbra rientrate, e la bocca ermeticamente serrata.

In tutti i suoi lineamenti non aveva di saliente che gli zigomi — i quali si arrampicavano verso l’insù della fronte — e le orecchie, che davan giù verso la mascella inferiore, come quelle del cane. Le narici erano feroci — ed eran desse la sola cosa che parlasse in quella figura allampanata.

Portava sul capo un berretto di velluto nero, cui levò entrando in cappella, ed avviluppavasi in un lungo zamberlucco da camera di velluto violetto.

Su questo, brillava l’ordine del Toson d’oro. E con codesto, delle pantofole ai piedi ed una pezzuola bianca attorno al collo1.

Un gesuita, che lo seguiva a due passi in dietro, s’inginocchiò alla sua sinistra, alla medesima distanza, mentre che egli, con la sua aria vecchiotta, s’installava a comodo sull’inginocchiatoio. Ed il prete dell’altare volgeva il dorso e dava principio alla messa.

Il sembiante del gesuita contrastava singolarmente con quello del personaggio del Toson d’oro.

Quel reverendo era pallido anch’egli, ma di quella pallidezza biliosa, cui cagionano lo studio, la reclusione, l’ambizione, le forti passioni tenute a briglia, il sangue che brucia senza ossigeno, mediante il sistema dei fumivori — di quella pallidezza fatale, insomma, la quale è il prodotto del consumo spontaneo, e che inverniciò tanti visi di grandi uomini e di uomini terribili; — la pallidezza di Dante, di Napoleone, di Filippo II, di S. Domenico e di Fouquier Tinville.

Era alto e magro, e di già un poco curvo, quantunque

  1. Si direbbe che si dipinga qui Ferdinando VII di Spagna.

    (N. dell’Editore)