I solitari dell'Oceano/5. La rivolta dei coolies

5. La rivolta dei coolies

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CAPITOLO V.

La rivolta dei coolies.


La morte del giovane marinaio aveva gettato lo scompiglio fra l’equipaggio.

Il terribile morbo che prima sembrava localizzato nel frapponte, aveva ormai fatta la sua comparsa anche in coperta e tutti prevedevano, con terrore, stragi immense.

Tutti gli abiti appartenuti al morto, compresa la branda, erano stati prontamente gettati in mare e la cabina del quadro era stata subito disinfettata con acqua di calce.

Sarebbero bastate quelle precauzioni per arrestare il male? Nessuno lo sperava.

Per colmo di sventura l’Alcione era stato preso dalle calme del Tropico del Capricorno, riducendo a nulla la sua marcia.

Era molto se in ventiquattro ore riusciva a percorrere una dozzina di miglia con manovre eccessivamente faticose, dovendo correre continuamente bordate in causa dei venti contrarii.

La temperatura era diventata intanto eccessivamente calda. Il sole versava veri torrenti di fuoco sulla disgraziata nave, colando il catrame delle gomene e delle fessure della coperta e facendo screpolare i bordi.

I chinesi che soffocavano nel frapponte, mandavano incessantemente urla feroci, chiedendo aria e acqua, mentre la peste mieteva giornalmente nuove vittime. [p. 30 modifica]

Pareva che la maledizione pesasse su quella povera nave perduta nell’immensità dell’Oceano Pacifico.

La punta meridionale della Nuova Caledonia era già stata girata da parecchi giorni e l’Alcione era stato imprigionato in quel vasto tratto di mare che separa l’isola sopra accennata, la Tonga-Tabù, le Kermedes ed il piccolo gruppo di Norfolk, il terribile penitenziario dei malfattori inglesi ed australiani.

Il commissario del governo e suo fratello, impotenti a resistere al calore che regnava nel quadro, avevano ottenuta la libertà, ma si erano ben guardati dall’accostarsi al capitano.

Si studiavano anzi di sfuggirlo tutte le volte che lo vedevano avvicinarsi.

Il gigante era d’altronde molto cambiato.

Lo si vedeva visibilmente preoccupato e anche molto spaventato pel pessimo andamento delle cose.

Dobbiamo però dire che verso i chinesi non si era mostrato più umano, anzi pareva che fosse diventato più accanito contro quei disgraziati per indebolirli maggiormente ed impedire loro di ribellarsi.

Pareva anche che i coolies fossero giunti al colmo dell’esasperazione. Ogni volta che un cadavere veniva issato attraverso la grata per essere gettato ai pesci-cani, sempre numerosi attorno alla nave, le urla e le loro minacce acquistavano una tale intensità da far impallidire tutti.

Pure prevedendo, in un tempo più o meno lontano, uno scoppio tremendo, il capitano aveva fatto portare in coperta quattro casse di lacera-piedi e distribuire all’equipaggio fucili e coltellacci e raddoppiare le sentinelle alle due tramezzate di prora e di poppa.

Sentiva per istinto che il giorno della rivolta non doveva essere lontano e si teneva pronto a soffocarla nel sangue fino dal principio.

— Se l’aspetta — aveva detto un giorno il commissario al suo giovane fratello, mentre un altro cadavere veniva precipitato nelle bocche spalancate dei charcharias.

— Credi Cyrillo che questi chinesi tenteranno qualche cosa di serio? — aveva chiesto il giovane.

— Sì, Ioao. Sono giunti agli ultimi limiti dell’esasperazione.

— E che cosa succederà allora?

— Un orribile massacro.

— Che costerà ai chinesi torrenti di sangue, è vero fratello?

— Chi può dirlo? Pensa, che sono ancora quasi quattrocento.

— Indeboliti però dalle fame e dalla sete ed inermi — disse il giovane.

— Lo ammetto, Ioao, ma pensa che cosa accadrebbe se questi quattrocento uomini, resi furiosi dai cattivi trattamenti, potessero rovesciarsi in coperta.

Forse le armi da fuoco non sarebbero sufficienti a respingerli nè i lacera-piedi a trattenerli — disse il commissario. [p. 31 modifica]

— E tu non puoi far nulla per calmarli? Sao-King ha veduto come tu hai cercato di proteggerli.

— Non mi ascolterebbero.

— Fa’ pressione sul capitano.

— Quel bruto non mi obbedirà mai. Lo hai già veduto.

— Ma se sfuggiremo alla morte, tu lo denuncerai alle autorità peruviane e...

Uno scoppio di risa troncò la frase che stava per uscire dalle labbra del giovane de Ferreira.

Il capitano Carvadho stava dietro ai due fratelli, a pochi passi di distanza e probabilmente aveva udite le ultime parole.

— Denunciarmi! — esclamò. — Correte molto, signor Ioao de Ferreira – disse il gigante.

— Pare che abbiate dimenticato che a bordo del mio legno non vi è più commissario.

— Ah! — esclamò Cyrillo de Ferreira, con ironia. — Mi avete levata la carica? Avete ricevuto questo ordine dal mio governo?

— Non ho bisogno di ordini – disse il capitano. — Ve l’ho levata io.

— Vedremo però se il governo riconoscerà questo vostro atto.

— Se non lo riconoscerà il Perù, lo farà certo quello della Bolivia.

— Che cosa volete dire?

— Che la mia nave non approderà più sulle coste peruviane. Andrò a cedere i miei arruolati ad un mio amico che ha delle vaste piantagioni presso Arica.

Non vi siete accorto che ho modificata la rotta della mia nave?

— E noi? — chiese il commissario, con voce sorda.

— In quanto a voi ve la sbrigherete come meglio vi piacerà.

— I chinesi si sono arruolati per le miniere di guano peruviane.

— I chinesi faranno quello che piacerà a me.

— Non sono schiavi signore — gridò Cyrillo.

— Li venderò come tali.

— Io denuncerò le vostre infamie!

— Fatelo, — rispose freddamente il gigante. — Prima però che il vostro rapporto giunga nel Perù io sarò ben lontano dall’America del Sud. Quindi, riassumendo, io vi considero come due semplici passeggeri, non avendo più bisogno di un commissario peruviano dal momento in cui io ho presa la decisione di andarmene nella Bolivia.

— Oh!

— Però...

— Continuate — disse il commissario.

— Non siete giunti in America, quindi non sapete ancora se e quando potrete denunciarmi — concluse il capitano.

— Ed ora, volete un consiglio? Non impicciatevi più nei miei affari. [p. 32 modifica]

— Ve ne voglio dare anch’io uno — disse il signor de Ferreira.

— Dite pure.

— Che nemmeno voi siete giunto sulle coste della Bolivia e che non si sa se e quando vi giungerete.

— Sperate nell’intervento di qualche nave? Percorro una rotta che non è ordinariamente battuta da alcun vascello da guerra.

— Parlavo della mina che vi sta sotto i piedi — disse il commissario.

— Dei chinesi! Ah! Fra pochi giorni non saranno più da temersi, — disse il gigante con un sorriso da fiera. — Da oggi le loro razioni subiranno una nuova riduzione.

— Sono già mezzi morti di fame e di sete, briccone! — urlò il commissario.

— E farò di peggio per far dispetto al signor commissario del Perù. —

Aveva appena pronunciato quelle parole quando nel frapponte s’alzò un clamore così formidabile, da far credere che cento fiere stessero per sbucare in coperta.

Erano clamori selvaggi, terribili, uniti a cupi rombi come se si demolissero i fianchi della nave.

Il capitano era diventato pallido.

— Udite, signor Carvadho? — chiese il commissario afferrandolo per un braccio. — È la rivolta che scoppia a bordo e che vi caccerà tutti in mare!

In quel momento le quattro sentinelle che vegliavano presso le grate di prora e di poppa si erano slanciate in coperta, gridando:

— All’armi! I chinesi sfondano le pareti!

Il capitano, passato il primo istante di stupore, aveva mandato un ruggito di fiera in furore.

I clamori diventavano così acuti da non udire più i comandi del bosmano e dei contromastri.

— Morte al capitano! — urlavano quattrocento voci. — Vendetta!...

E gli urti continuavano, sempre più potenti, più terribili, minacciando di sradicare le tramezzate e di sfondare le grate.

Il capitano Carvadho, se era un inumano, non era però un codardo, tutt’altro.

Aveva già assistito a ben altre rivolte a bordo della sua nave ed aveva anche avuto la fortuna di domarle col ferro e col piombo.

Con un gesto aveva fatti accorrere i primi dieci uomini armati di fucili e si era precipitato nel quadro, mentre il bosmano faceva sfondare le casse ripiene di pallottole irte di punte, per disperderle sulla coperta e collocare gli artiglieri ai due pezzi.

— Vieni, — disse Cyrillo, conducendo il fratello verso il quadro. — Cerchiamo d’impedire un massacro.

— Vorrei che i cinesi irrompessero sul ponte — disse Ioao.

— Non risparmierebbero nemmeno noi, fratello. — [p. 33 modifica] Maledizione! — gridò. — Capitano!, ti strapperò il cuore! — (Cap. VII). [p. 35 modifica]

Nella parete di poppa che divideva il quadro dal frapponte, s’apriva una larga grata fatta con sbarre di ferro di spessore notevole, destinate a dare maggior aria a quell’immenso camerone dove s’ammucchiavano i coolies.

Si poteva perciò vedere tutto ciò che accadeva nel frapponte e all’occorrenza aprire un fuoco infernale senza correre alcun pericolo.

I chinesi, viste fuggire le sentinelle, s’erano scagliati furiosamente verso la grata e dopo lunghi sforzi erano riusciti già a contorcere e quindi staccare una sbarra, mentre altri assalivano la murata per strapparla tutta intera o rovesciarla.

Non parevano più uomini: sembravano belve feroci sbucate dai deserti dell’Asia.

Urlavano come ossessi, imprecavano, minacciavano, si pigiavano, si accavallavano per giungere primi alla grata e irrompere nel quadro.

Avevano strappati già parecchi puntali e con quelli percuotevano, come arieti, le tramezzate, i fianchi della nave e perfino la base degli alberi.

Il rimbombo era tale che pareva che la nave, da un momento all’altro dovesse sfasciarsi tutta e sommergersi.

In mezzo a tutti quei furibondi si vedeva agitarsi forsennatamente Sao-King il capo, l’anima della rivolta.

Il capitano Carvadho, strappato un fucile ai suoi uomini, si era accostato alla grata, gridando con voce tuonante:

— Indietro o faccio fuoco! —

Quella minaccia, lungi dal produrre l’effetto sperato, portò al colmo l’ira dei chinesi.

Venti mani s’allungarono attraverso le sbarre per afferrarlo, mentre quattrocento voci urlavano ferocemente:

— Morte a quel cane! Scannatelo!

— Indietro! — ripetè il capitano. — Che venga Sao-King.

— È troppo tardi! — gridò il capo dei coolies che stava dietro a duecento petti pronti a fargli scudo.

— Comando il fuoco! Frena i tuoi uomini o farò un massacro di tutti.

— Date dentro la grata! — urlò invece Sao-King.

Cento braccia si tesero e cento mani s’aggrapparono alle traverse, mentre gli uomini che erano armati di puntali li passavano attraverso i fori per colpire il capitano ed i suoi uomini.

Il gigante aveva già puntato il fucile, quando il commissario gli si precipitò addosso, abbassandogli l’arma.

— Disgraziato! — esclamò il peruviano. — Volete far trucidare tutto l’equipaggio?

— Che cosa volete voi? — urlò il gigante liberando l’arma che il signor de Ferreira aveva stretta fra le mani.

— Evitare un massacro.

— O farmi uccidere? — [p. 36 modifica]

In quel momento un chinese, vedendo il commissario a portata, gli diede un tale colpo sul cranio col puntale che aveva passato fra le traverse, da gettarlo a terra svenuto e sanguinante.

Sao-King aveva visto l’atto ed aveva gridato:

— Risparmiate quell’uomo!

Era troppo tardi: il colpo era stato ormai vibrato.

Ioao si era precipitato verso il fratello, gridando:

— L’hanno ucciso!

— Portate via quest’uomo! — gridò il capitano. – Sgombrate.

Mentre un marinaio, aiutato da Ioao, trasportava in una cabina del quadro il povero commissario sanguinante, Carvadho ed i suoi uomini avevano fatto una scarica a bruciapelo contro i chinesi.

Cinque o sei uomini erano caduti dinanzi alla grata, fulminati dalle palle, mentre altri feriti si trascinavano verso le pareti opposte urlando.

— Vendetta!... Vendetta, compagni! —

I coolies, spaventati si erano ritirati, ma fu l’affare d’un momento solo.

— All’assalto! — aveva gridato Sao-King. — Morte agli uomini bianchi. —

E tutti quei chinesi si erano scagliati contro le grate di prora e di poppa con maggior rabbia, mentre i marinai, atterriti, indietreggiavano per sfuggire ai colpi di puntale che grandinavano fitti ed ai coltelli aperti che lanciavano contro di loro quei furibondi.

Già la parete sconquassata, stava per cadere tutta intera, quando delle scariche rimbombano, seguìte da urla di dolore e da bestemmie.

I marinai hanno alzata la grata del boccaporto maestro e fanno un fuoco infernale sui chinesi, mentre altri sparano attraverso la grata di prora, cogliendo così i ribelli sopra e alle spalle.

I disgraziati, fucilati da tutte le parti, cadono a gruppi.

Sono come topi in trappola e non possono sfuggire alle scariche che si susseguono con terribile intensità.

Il capitano ha fatto ricaricare i fucili ai suoi uomini e spara spietatamente sui coolies che si pigiano dinanzi alla grata, aprendo un solco sanguinoso nella massa.

I chinesi s’arrestano esitanti.

La voce di Sao-King echeggia ancora:

— Date dietro la murata! Uno sforzo ancora! —

Cento uomini allora si scagliano come macchine contro la tramezzata, già malferma mandando un urlo assordante.

I puntali, strappati di colpo, oscillano un momento, poi cadono schiantati e la parete intera crolla con fragore schiacciando quattro dei dieci uomini del capitano.

Un immenso urlo di trionfo rimbomba nelle viscere del vascello. [p. 37 modifica]

La via è aperta! Chi arresterà quelle tigri gialle assetate di sangue e di vendetta?

Il capitano Carvadho, sfuggito miracolosamente alla morte s’era slanciato verso la scala, mentre i chinesi facevano a brani i quattro marinai rimasti sotto la parete.

— In ritirata! — aveva gridato.

In pochi salti attraversa il quadro e si slancia sul ponte nel medesimo momento in cui il giovane Ioao ed un marinaio trasportavano fuori il povero Cyrillo ancora svenuto, per sottrarlo agli assalitori.

— Francisco! — gridò. — Tutti sul castello di prora! Il cassero è perduto!

Rovescia con una spinta irresistibile il cannone messo a guardia della poppa e del timone e si precipita in coperta seguìto dai suoi uomini.

— Signore! — grida Ioao, che non può seguirlo in quella ritirata precipitosa. — Soccorrete mio fratello!

— Gettatelo ai cinesi! — rispose il gigante.

Due marinai però, più umani, accorrono in aiuto del giovane e trasportano, correndo, il ferito sul castello di prora, deponendolo su un cumulo di cordami.

I chinesi allora sbucavano dal quadro mandando clamori feroci.

In un baleno tutte le cabine erano state svaligiate e le poche armi che vi si trovavano erano passate nelle loro mani.

Non dispongono che di una mezza dozzina di fucili, di alcune sciabole e di qualche scure, ma non sono più prigionieri e sono ancora otto o nove volte più numerosi dell’equipaggio.

Quelli che sono inermi s’armano di traverse, d’aste, di manovelle, e di ramponi e perfino di funi grosse e pesanti, mentre altri s’inerpicano sulle griselle dell’albero di mezzana e tagliano i grossi boscelli per scagliarli sulle teste dei loro avversari.

Tutta quella massa furiosa s’era precipitata innanzi per dare l’assalto al castello di prora, su cui si erano raggruppati precipitosamente i marinai.

Ad un tratto i primi ranghi s’arrestano, poi indietreggiano confusamente e grida di dolore echeggiano.

Eppure dal castello di prora non era partito nessun colpo di fucile ed il cannone era rimasto muto.

Erano i lacera-piedi che avevano arrestato di colpo lo slancio dei coolies.

I marinai avevano sfasciate le quattro casse ripiene di quei pericolosi gingilli che erano state collocate sul margine del castello e le pallottole, irte di punte aguzze, si erano sparse per la coperta, con un rumoreggiare metallico.

L’ondulazione che subiva la nave le faceva danzare disordinatamente, correndo da babordo a tribordo e giungendo fino dinanzi alle prime file dei chinesi. [p. 38 modifica]

Questi che si trovavano a piedi nudi, vedendo avanzarsi quegli oggetti erano balzati indietro mandando urla di furore e anche di dolore perchè alcuni avevano già provato i primi morsi di quelle terribili punte.

— Ecco arrestato il loro assalto, — disse il capitano che rideva delle smorfie che facevano i primi feriti. — Vedremo se potranno attraversare quei graziosi ninnoli.

Poi alzando la voce, tuonò:

— Rientrate nel frapponte o vi spazzo via a colpi di mitraglia!

Sao-King, facendosi largo fra i suoi compatrioti, si era spinto fino alle prime linee per rendersi conto del pericolo che aveva arrestato i suoi uomini.

Il capitano Carvadho, scorgendolo, aveva puntato verso di lui il fucile, ma il bosmano gli aveva abbassata l’arma, dicendogli:

— No, comandante. Non rendiamoli più furibondi. Cerchiamo di calmarli prima o ci faranno a pezzi.

— Ho una voglia pazza di mitragliarli, — rispose Carvadho.

— Pensate che ogni uomo che cade è una perdita per voi. Quella carne gialla vale dell’oro e poi... non siamo troppo crudeli, signore.

— Per delle pelli-gialle! Tuttavia apprezzo il tuo consiglio perchè, infine, questi uomini valgono del denaro. Ehi, Sao-King!

Il chinese si era fatto avanti; però cinque o sei dei suoi compagni gli s’erano stretti intorno per fargli scudo col loro corpo.

— Vi arrendete? — chiese il capo dei coolies.

— Hai troppa fretta, mio caro, — rispose il capitano.

— Cosa volete allora?

— Consigliarti di ritornare nel frapponte prima che succeda un macello.

— Mai! — rispose il chinese, con accento fermo. — Abbiamo acquistata la nostra libertà a prezzo di molto sangue e la conserveremo.

— Che cosa esigi?

— Che ci si riconduca in Cina.

— Tu sei pazzo, Sao-King, — disse il capitano.

— Volete la morte?

— Sarò io che ve la darò. Siamo bene armati ed un cannone è ancora in nostra mano.

— Lo prenderemo d'assalto.

— Provati! Bada però che ti scorticherai i piedi.

— A me, amici! — gridò il chinese. — Diamo battaglia agli uomini bianchi! —