I rossi e i neri/Secondo volume/XXXIV

XXXIV

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XXXIV.

Post nubila Phoebus

E adesso i lettori benevoli, che siamo dolenti di non aver più a trattenere se non per pochi capitoli, ci usino la cortesia profumata di chiuder gli occhi, affinchè noi, mal destri giuocatori di mano, facciamo sparire un sei settimane, e presentiamo loro un fatto compiuto, che, piaccia o non piaccia, dovranno pur riconoscere.

Ci torna a mente che quando eravamo bambini, una vecchia fante, la quale era stata in sua giovinezza ai servigi d’un papa (ma intendiamoci, d’un papa prigioniero, il quale non aveva potestà di scegliere i suoi servitori secondo i sacri cànoni), ci raccontava certe sue favole di principi e principesse che, dopo grandi travagli, incantesimi di maghi gelosi ed altri consimili diavolerie, finivano sempre col diventar marito e moglie, come la nostra santa madre Chiesa comanda; di guisa che, dopo essere andati i fatti loro per un pezzo alla peggio, tutto volgeva a bene, perfino le salse del cuoco, il quale ammanniva un pranzo grande e grosso ai felici amanti e ai felicissimi cortigiani. E noi, scimuniti, sempre a chiedere come fosse questo pranzo di nozze. Ma qui ci voleva, la buona Paolina Monetti, per darci sempre la medesima baia. Ella era stata invitata alle nozze, ma sotto la tavola, s’intende, che non era persona da impancarsi in quella fiorita compagnia. E di là sotto, la poverina andava tirando il lembo della gonna alla principessa, perchè si ricordasse di lei e le facesse la limosina di qualche buon boccone. Ma la fortuna fa gli uomini insolenti; ora la principessa, dimenticando i sofferti travagli, s’era fatta una superbiona, ma di quelle! e gran mercè, se, tolto un osso spolpato dal piatto, lo buttava, insieme con un colpettino del suo piede, alla povera affamata. La qual cosa a noi non piaceva nè punto nè poco, tanto più che non avevamo ancora in que’ tempi acquistato quel sesto senso, che ora ci fa piacere un bel piede, ancorchè irrequieto, e un pochettino dispettoso.

Signore, non vi sgomentate, che non si fa un corso di estetica. Volevamo, con questo accenno d’infanzia, significarvi che abbiamo a nostre spese imparato a non mettere il [p. 308 modifica]naso ne’ banchetti di nozze, e che, da uditori diventati narratori, vi facciamo grazia del convito finale. Già, nel caso presente, non se n’è neppur fatto; e se un pranzo ci è stato, diciamo che fu otto settimane dopo gli avvenimenti narrati; ma non pranzo di nozze, quantunque gli sposi ci fossero. Infatti non si trattava d’altro che del duca di Feira, il quale, alla vigilia di partire per un lungo viaggio col suo giovine amico Aloise, voleva pigliar commiato dalle poche persone a cui s’era avvicinato, con cui, o per cui, s’era adoperato, così felicemente come tutti sanno, nella sua breve dimora in Genova.

Si potrebbe dunque chiamare un pranzo di addio, uno di que’ pranzi che noi daremo di certo ai nostri benevoli, quando saremo trenta o quaranta volta milionarii come il duca di Feira, o in quel torno, e potremo cantare il nunc dimittis all’ingrata arte del novelliere. Non potendo finora offrirlo del nostro alla cortese brigata, neppure la faremo assistere a quello del duca. Solo diremo che fu splendido, e che gli onori di casa eran fatti da una bellissima sposa, con quella grazia eletta, con quella squisitezza di modi, che in lei potevano dirsi natura.

Maria Salvani era bella, e tanto più bella appariva in quanto che aveva patito, e i patimenti avevano conferito più soavità alle sue fattezze, più efficacia allo sguardo. Maria non era più la giovinetta paurosa ed ignara; in lei si mostrava la donna educata alla severa scuola del dolore; la donna colla sua bellezza riposata ed altera, co’ suoi grandi occhi sereni ad un tempo e pensosi, specchio fedele alla maturità del pensiero. Non dissimilmente il mare, dov’è più profondo e più vigilato da rupi scoscese, apparisce, sotto i raggi di un bel sole d’estate, più azzurro insieme e più limpido.

Gli affanni della gentil creatura, erano cessati; Lorenzo era salvo; Lorenzo l’amava; Lorenzo era suo; che più? Sua madre s’era intenerita, era ridiventata sua madre. Ed ella era felice, tutta compresa della gioia profonda e tranquilla di chi è scampato da un alto pericolo e nel pensiero della insperata salvezza si conforta delle angosce durate.

La marchesa di Priamar, grave ma sfavillante anch’essa di tenera gioia, era presso di lei, in apparenza di protettrice e di amica; perchè Maria, felice d’aver ricuperata la madre, non avrebbe voluto per cosa alcuna al mondo far vergognare, arrossire la donna. Il segreto era noto a Lorenzo come al duca di Feira, e bastava; lo avevano trapelato Aloise, l’Assereto e il Giuliani: ma essi, da quei compìti cavalieri che erano, [p. 309 modifica]fingevano di non saper nulla; il Pietrasanta e il dottor Mattei lo ignoravano affatto.

Così, senza volerlo, abbiamo passati in rassegna i commensali del duca. Era, come si vede, un’assai ristretta brigata. Le più ristrette, ogni persona di garbo può farne testimonianza, sono anche le più liete. Eppure, quello non era stato un gaio banchetto; il pensiero della vicina partenza di Aloise e del duca di Feira, non era tale per verità da sciogliere in serena allegrezza l’amichevole confidenza dell’ora.

Il nostro Aloise, pallido anzi che no e smunto a guisa di chi esca di malattia, era composto dei modi, affabile nei discorsi, quale i lettori l’hanno veduto nella cavalcata di Pegli; ma bene era agevole ad un conoscitore d’affetti lo scorgere che un’arcana cura gli siedeva nell’animo. Più avvezzo a padroneggiarsi, il duca di Feira, se non si mostrava ilare (che tale non era mai stato in sua vita) appariva disinvolto, bello di quella schietta cortesia signorile, che sa, dissimulando lo sforzo, sacrificare agli ospiti ogni interna afflizione, ogni più grave molestia. Più giovine, e meno esercitato all’affanno, Aloise si lasciava a volte andar giù dello spirito; ma bastava che il suo sguardo incontrasse quello del duca, perchè egli si rimettesse tosto; e allora a sentirlo! Ma la sua loquacità irrequieta, il suo riso stentato, non persuadevano il vecchio gentiluomo, nè Lorenzo Salvani, nè Enrico Pietrasanta, che meglio l’avevano in pratica.

Più lieto a gran pezza era il tinello, mezz’ora dopo levate le mense padronali. Colà, non pure allegria, c’era baldoria a dirittura. La gente del duca aveva convitato anch’essa due sposi novelli, non già novellini, intendiamoci; che erano, s’indovina, il nostro Michele Garaventa, e quella badalona della signora Marianna.

Michele, a dir vero, non era più un servitore. Il legionario di Montevideo, il veterano di Roma, viveva, come suol dirsi, d’entrata. Un certo poderetto, che i nostri lettori conoscono, là nei pressi della Montalda, a un trar di schioppo dall’alture della Bricca, era stato assegnato in dote dal Feira alla governante del padre Bonaventura. Quella aveva ad essere la capanna di Filemone e di Bauci; da quei vigneti a solatìo, da quei seminati, da quei castagneti, avevano i due felici da cavare il vivere senza molta fatica, poichè c’era luogo per due famiglie di coloni. Michele, come tutti gli omini trabalzati a lungo qua e là dalle vicende della vita, aveva sempre vagheggiato nei suoi sogni un èremo come quello, ornato di buon letto, di buona tavola e di buona cantina. [p. 310 modifica]Iddio misericordioso aveva finalmente esaudito i suoi voti.

I signori erano già da un pezzo raccolti a conversare sotto un elegante loggiato, e i nostri più umili commensali erano ancora e accennavano di voler stare a lungo sul gotto. Michele, che non aveva più segreti da custodire, aveva fatta e suggellata la pace coll’inimico, e ben lo dimostravano i suoi occhi lustri, e il suo naso fiammeggiante più del consueto. A fargli perder le staffe aveva anche contribuito non poco una calda discussione con Sindi. Figuratevi; Michele voleva fare il saputo, parlare de’ suoi viaggi, delle sue guerre, delle costumanze dei gauchos, della selvaggia bellezza delle Pampas; e Sindi, un Indiano di Bènares, conosceva più America di lui, di lui Michele Garaventa, di lui legionario di Montevideo, avanzo di Rio Grande e della tapèra di Don Venanzio!

Come se ciò non bastasse. Sindi voleva far l’uomo anche in materia di lingua, e riprenderlo, lui Michele Garaventa, quando diceva che le Cordigliere delle Ande erano state testimoni di grandi catechismi, e che da Montevideo a Buenos Aires correvano di molte miglia quadrate. Scontento dell’America, e udito che il suo contradittore non era mai stato a Roma, Michele si pigliò una satolla dell’eterna città, che egli conosceva a menadito; parlò a suo bell’agio del Foro antico, che doveva al certo essere stato turato, poichè non si vedeva più; di San Giovanni Luterano, delle Ecatombe, dove si radunavano i primi Cristiani, e del Circolo, a cui s’era tolto il nome, poichè in parte era diroccato, e il popolo usava in quella vece chiamarlo Colosseo, forse perchè molti, nei tempi andati, ci s’erano fiaccato l’osso del collo.

Così preso l’aire, il buon Michele veniva ciaramellando allegramente da un pezzo, tra le risate dei commensali, allorquando uno di essi, che già da un’ora era tornato alle cure del suo uffizio, venne a dirgli che la sua presenza era desiderata da Sua Eccellenza il duca di Feira. Lui nel salotto? Lui dal duca e dai suoi nobilissimi ospiti? La cosa gli parve strana, inaudita, impossibile, e fu mestieri che il collega gliela ripetesse coll’aria più grave del mondo, perchè egli non l’avesse in conto d’una celia.

Ecco ora il come e il perchè di quella chiamata, che faceva tanto senso a Michele. Erano già suonate le nove di sera, e la marchesa Lilla accennava di volersi ridurre a casa per le dieci. Però il duca di Feira invitò cortesemente i suoi [p. 311 modifica]ospiti a passare dal loggiato nel salotto, ove li attendevano i rinfreschi d’uso. E colà il nostro Giuliani, che aveva il suo Foscolo in mente, volle propinare al buon viaggio del duca e di Aloise, invocando loro propizi i genii del ritorno. In quel suo brindisi l’allegro giovinotto aveva anche destramente accennato come tutti i convenuti fossero stretti da un vincolo che egli chiamò di parentela morale. - Qual Nume, diceva il Giuliani, qual Nume ci raccostò, ci trasse l’un verso l’altro, perchè avessimo a darci la mano? Qual ragione, per dirla più umanamente, condusse noi, venuti da tante parti diverse, tolti da così diversi ordini di cose e di pensieri, a far manipolo, a chiamarci col santo nome d’amici? La ragion della guerra. Il posto del soldato è là dove romba il cannone. Noi tutti abbiamo udito l’appello, siamo accorsi, e viribus unitis, agmine facto, anzi testudine densa, ci siamo precipitati all’assalto. Abbiamo combattuta, non fo per dire, un’aspra battaglia, contro un nemico ben munito e coperto. È lecito vantarsi un tantino, la sera della vittoria. Perchè tale è stata la nostra, la Dio mercè, mercè l’assistenza delle donne e mercè il gran capitano, il duca di Feira, che oggi si accomiata da noi, portandoci via uno dei più strenui, de’ più cari ufficiali dello stato maggiore. Ho detto, ho detto, e adesso prendo fiato. -

S’intende che per prender fiato il Giuliani vuotava il suo calice. L’oratore ebbe il plauso universale; i cavalieri lo acclamarono principe dell’eloquenza; le dame lo salutarono coi loro più amabili sorrisi.

- Grazie, signor Giuliani, - disse di rimando il duca, a cui s’erano rivolti gli occhi di tutti; - ma consentite che io propini in quella vece a voi, alla vostra ricchezza di partiti, alla efficacia dei vostri spedienti. Non siete voi che, insieme coi vostri amici, coi Templarii, come usate chiamarli, avete ordinato ogni cosa? Io ero giunto tardi per ingaggiare il combattimento; voi eravate già in campo, e a tutto avevate provveduto. Io non ho fatto altro che seguire il filo de’ vostri disegni, mettendo a’ vostri servigi la mia vecchia esperienza.

- Ed altro ancora, signor duca, ed altro ancora!

- Sia pure, ma mi è grato di poter mettere in chiaro che senza di voi non avrei fatto nulla, e non potremmo oggi trovarci raccolti in questa sala, stretti, come avete detto voi così veramente, da un vincolo di parentela morale.

- A questi patti, signor duca, noi dovremmo in quella vece [p. 312 modifica]fare un brindisi al servo di casa Salvani. È il buon Michele che s’è messo a sbaraglio per noi, che è penetrato sotto mentite spoglie nella piazza nemica, ha inchiodati i cannoni che traevano a scaglia su noi, e finalmente ci ha schiuse le porte. Modesto al pari dei veri eroi, egli ha compiuta senza sussiego la più grave bisogna. Chi ha fatto entrare una parola di conforto in monastero? Chi ha origliato i disegni dei tristi, dando per tal guisa il bandolo a voi, e il modo di sgominarli? Chi finalmente ha posto le mani... Ma che dirò io di più? - soggiunse, con bella e soprattutto accorta reticenza, il Giuliani. - Questi è Michele Garaventa, un povero servitore, che, fatta un’impresa degna d’Ulisse, o d’altro eroe dell’antichità, se n’è tornato modestamente nell’ombra, senza chiedere ricompensa delle sue prodezze, riportandone anzi una punizione. Perdonate, bella signora, - diss’egli, volgendosi a Maria Salvani, - io parlo sempre da scapolo impenitente.

- Ottimo Michele! - soggiunse Maria, poi che ebbe con un sorriso mostrato al Giuliani che intendeva l’allusione a quel castigo di Dio della signora Marianna. - Egli è stato, non già un servo, un fratello per noi.

- Queste parole egli deve udirle, - notò il duca di Feira, - e saranno la più bella ricompensa delle opere sue. Se voi lo permettete, gentili signore, lo faremo chiamare. Questo è fuori delle consuetudini, in verità; ma non ne siamo stati fuori un po’ tutti, in questa guerra mal nata? Ed egli, poi, il valentuomo, per amore de’ suoi padroni, non n’era uscito prima di noi, dalle sue? non s’era levato a tale altezza di sacrifizi, che non si può richieder da tutti? -

In questa guisa era stato chiamato Michele Garaventa al cospetto della gentile brigata. Il poveretto era confuso, fuori di sè; quando si vide in mezzo a quei signori, sentì mancarsi qualcosa di sotto, che ben non sapeva se fosse la terra, o le gambe. Accettò, senza profferire parola, il bicchiere che gli porgeva Maria, e bevve mutamente, istintivamente, come uomo che non avesse mai fatto altro in sua vita. Del resto, come a tutti è noto, egli sapeva farlo per bene. Ma allorquando egli udì che si beveva alla sua salute, che quella gran dama della Priamar aveva cortesemente alzato il bicchiere ad onor suo, che Sua Eccellenza si degnava di toccare con lui, che sguardi e parole amorevoli lo sfrombolavano d’ogni parte, fu un altro paio di maniche. Bisognava parlare, egli lo vedeva. Parlare! Ma che cosa avrebbe egli - detto? Le gambe gli facevano giacomo giacomo; gli zufolavano le orecchie; [p. 313 modifica]la lingua gli s’impacciava nella chiostra dei denti. Basta; Michele non era stato soldato per nulla; s’appigliò ad uno stratagemma di guerra; pensò che quando il generale Garibaldi passava dinanzi alle file, egli, Michele, soleva guardarlo in faccia, e interrogato rispondergli; che di fronte al nemico egli non aveva tremato mai, nè chiuso gli occhi davanti ad un pericolo. Dopo tutto, non mi mangeranno mica! diss’egli. E fatta questa filosofica considerazione, si sentì tornare il sangue nelle vene; guardò tutti in giro i convitati, e ripulitasi graziosamente la bocca col dosso della mano, uscì in questo discorso:

- Le Signorie Loro mi compatiranno. Io non ho pratica di galateo. La signorina.... cioè no, dico male, la signora Maria può far testimonianza che io sono sempre stato meglio all’accampamento.... Ma che diavolo dico? Ella non c’era mica a vedermi! Insomma, volevo dire che ella mi conosce sa che io sono uno zotico, un ignorantaccio....

- Siete un ottimo cuore, Michele! - interruppe sorridendo Maria Salvani.

- Ah, non dico di no; ma la testa val poco. Già la testa, con licenza delle Signorie Loro, è sempre il peggio della bestia. In fondo, sono un buon diavolo; amo il figlio del mio povero colonnello, e venero la signorina Maria. Che diamine? La lingua non vuol mai piegarsi a dire signora. Ma che vogliono? l’ho veduta così piccina! Si figurino che la si metteva ritta sui miei piedi; ed io, tenendola per le mani, le servivo d’altalena. E ciò le faceva piacere, e ne faceva anche a me, malgrado i miei dolori aromatici, che ho buscati laggiù nell’America, e che non m’hanno ancora voluto lasciare. Ma ora, se piace a Dio, andrò in Acqui, a far la cura dei fanghi. I miei padroni non hanno più bisogno di me; sono contenti.... E anch’io, perbacco, sono contento come una vecchia granata messa a riposo, che ci ha il gusto di veder pulita la casa e di starsene a dormire in un angolo Ma chi me l’avesse mai detto, che tutti questi malanni sarebbero finiti così presto e così bene!... No, per tutti i diavoli, non l’avrei mai creduto. Il mondo è pieno di stranezze oggi in un mar di guai, domani all’adige della contentezza Ecco lì.... Mi scusino della libertà! parlo come vien viene, alla dozzinale, da vecchio soldato che non sa d’arte aratoria. Io vedo starsene lì come pane e cacio due bravi signori che otto mesi fa li ho visti barattar stoccate da mettere i brividi. Il signor Assereto e il signor Pietrasanta ne sanno la parte loro, essi che erano della festa. Ci ha fatto caldo [p. 314 modifica]a San Nazaro, quel giorno, sebbene non ci fosse il sole! Ma finita la zuffa, tutti amici meglio di prima!

- Le mani dei galantuomini, - disse il Giuliani, - son fatte per stringersi, non già per farsi la guerra.

- Ben detto! - seguitò Michele. - E io, con licenza delle Signorie Loro, bevo alla salute di tutti i veri amici.

- Cominciando da Oreste e Pilade; - entrò a dire il Mattei.

- No, quelli là! - fu pronto Michele a rispondere. - Piuttosto, vede Ella? berrei alla salute di Erode e Pilato.

- Perchè?

- Perchè quei due nomi, Oreste e.... l’altro, mi fanno ricordare d’una cattiva notte, che io mi son lasciato cavare i calcetti da un certo mascalzone, e poi n’è venuto un subbisso di malanni. Ho presa la mia rivincita, sta bene; per altro, non mi bastava ancora, e se quel tristo mi capitava sotto le unghie!... Ma la giustizia di Dio ci ha avuto più buone gambe di me. Il furfante è in gattabuia, e se non me lo schiaffano in galera, certo me lo spediscono, franco di porto, a rifare un po’ meglio i suoi studi ad Oneglia.

- Parlate del Garasso? - chiese Lorenzo.

- Di lui per l’appunto. Lo cercavo da un pezzo, per cavarmi una certa voglia dalle dita; ma sì, piglialo! Il mio uomo doveva fiutarmi da lontano. Per sua disgrazia, mentre sfuggiva da me, inciampò nei birri, che avevano un altro conticino da aggiustare con lui. Si figurino che costui teneva il sacco ai ladri; i suoi compari, caduti nelle mani della giustizia, hanno cantato, e l’amico ciliegia ha dovuto andarli a raggiungere. Vedano un po’ con che razza di gente io m’ero imbarcato! Sono un asino, sì, un asino, sì, un asino calzato e vestito; e quando penso a tanti guasti cagionati dalla mia balordaggine....

- Eh via, Michele, non vi buttate a’ cani in questo modo! - interruppe il Giuliani. - Io vi ho veduto alla prova, rimediare strenuamente al mal fatto, e mi vien voglia di paragonarvi alla lancia d’Achille.

- Che, mi burla? Una lancia, io? Sdruscita, sì, forse; ma se il personaggio ch’Ella dice ne aveva una simile, giuro che non s’è mosso da riva.- -

Questo era un bisticcio, e fu salutato da una risata universale. Ma il buon Michele non l’aveva fatto a posta, chè non era forte di studi, e ci aveva per giunta l’inimico in corpo, che, come i lettori già sanno, gliele faceva dire più grosse del solito.

Poco stante, il nostro [p. 315 modifica]Michele ebbe licenza di tornarsene ai dolci vincoli dell’Imeneo. Anche il Pietrasanta, l’Assereto, il Giuliani e il Mattei, allegro quartetto di scapoli, pigliarono il largo, dopo aver promesso ad Aloise che sarebbero andati il giorno seguente ad accompagnarlo allo scalo della ferrovia. A sua volta, la marchesa di Priamar, stretti al seno quei due, che ella poteva, innanzi al duca e ad Aloise, chiamar liberamente suoi figli, uscì da quella casa in cui aveva passato il primo giorno veramente lieto della sua vita. Il duca di Feira, da quel compito cavaliere che era, volle accompagnarla fino al suo palazzo; della qual cortesia non è a dire com’ella gli fosse grata. La povera madre sentiva il bisogno di essere sola con lui, per ringraziarlo, per aprire il suo cuore a quell’angiolo salvatore di sua figlia e di lei, a quell’autore di tutte le sue contentezze.

- Ella è felice. Povera madre! Era tempo; - andava egli dicendo tra sè, nel ricondursi a casa. - Felici tutti, per me. Ed io?... -

Il pensiero del mesto gentiluomo corse alla Montalda, presso quella tomba solitaria in cui riposava la salma della donna adorata.

- Salvar tuo figlio, Eugenia, e poi ricongiungermi a te nella morte; questa sarà la ricompensa di Cosimo. -

Intanto Aloise, rimasto solo con Lorenzo e Maria nel salotto del duca, s’era lasciato cadere sfinito su d’una scranna.

- Ah, finalmente! - esclamò egli. - Non ne potevo più.

- Voi siete triste, Aloise? - gli disse Lorenzo, avvicinandosi a lui, e posandogli una mano sulla spalla.

- Perdonate, amici, fratelli miei, perdonate! - rispose il marchese di Montalto, congiungendo la mano di Lorenzo e quella di Maria nelle sue. - Io sono felice, come si può essere, quando si è stati testimoni della gioia d’una madre che vi ama, e che nel contemplarvi, si lasciava sfuggire con nobile audacia il suo segreto dagli occhi; quando infine s’è stretta la destra ad amici schietti e operosi come coloro che ci hanno lasciato poc’anzi. No, la virtù non è un nome vano; no, tutto non è abbiettezza, codardia, bruttura nel mondo. Ma perchè non sono io lieto? Perchè in mezzo a tutta questa gioia io mi sento morire? Da due mesi, vedete, da due mesi io vivo come uno smemorato. Ho come un vuoto qui dentro, e non ardisco addentrarmi nella mia coscienza, considerare questa grande rovina di tutte le mie speranze, di tutti i miei sogni, di tutto ciò che mi faceva cara la vita. [p. 316 modifica]

- Voi amate, Aloise.... - disse Maria con accento compassionevole.

- Sì, e senza speranza. Non è il segreto di alcuno; è il mio segreto; posso adunque trarlo fuori dal profondo, e flagellarmene il petto. Sì, amo fieramente, e fieramente odio.... me stesso. Sì, vorrei strapparmi il cuore, questo cuore malnato, che accoglie confidente un affetto, e lo serba a mio malgrado, e lo difende contro la mia stessa ragione; questo vil traditore che mi dà in balìa d’un beffardo nemico, e dopo avermi offuscato l’intelletto, scemata ogni virtù di propositi, congiura a togliermi perfino la dignità del soffrire. Ah Lorenzo, amico, fratello mio! Se non avessimo di tali spine qui dentro, come saremmo noi forti! Quale avversa possanza resisterebbe alla tenace operosità dell’uomo, tutta rivolta ad un fine? Noi giovani, noi animosi, noi senza macchia e senza paura, potremmo dar opera a grandi cose, far manipolo contro il male che invade d’ogni banda, portar la spada e la fiaccola, combattere e illuminare, essere esempio ai buoni e flagello ai malvagi, ordinare l’aristocrazia dell’ingegno e della onestà, la sola vera, la sola efficace, non già a salvare un vecchio edifizio che minaccia d’ogni parte rovina, sibbene a rinnovare la faccia del mondo infiacchito nel tiepido amore del bello, del vero e del buono, fatto teatro ai contrasti ridicoli di vizi piccini e di piccine virtù. Ma no; forti e non ignari della nostra forza, rinunziamo alle nobili voluttà che ella può darci; abbiamo qui dentro il tarlo roditore delle nostre passioni; disperdiamo in vani scintillamenti una luce preziosa; consapevoli dissennati, sprechiamo tutta la possanza nostra a’ piedi d’un idolo di creta. -

Così parlava esacerbato Aloise. Lorenzo volse lo sguardo a Maria, che avvicinatasi chetamente già era per reclinare la bruna testa sull’omero dell’amato, ma si trattenne, e parve dirgli col gesto: rispettiamo il suo dolore.

Aloise, o si avvedesse del gesto, o indovinasse il pensiero, levò la fronte verso i due pietosi, e soggiunse:

- Voi, Lorenzo vi siete imbattuto in un angelo. Io, in quella vece, ho fallita la strada, e debbo portarne la pena. Che volete, fratelli miei? Nessuno può sottrarsi al suo fato.