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XXXIV.

Post nubila Phoebus

E adesso i lettori benevoli, che siamo dolenti di non aver più a trattenere se non per pochi capitoli, ci usino la cortesia profumata di chiuder gli occhi, affinchè noi, mal destri giuocatori di mano, facciamo sparire un sei settimane, e presentiamo loro un fatto compiuto, che, piaccia o non piaccia, dovranno pur riconoscere.

Ci torna a mente che quando eravamo bambini, una vecchia fante, la quale era stata in sua giovinezza ai servigi d’un papa (ma intendiamoci, d’un papa prigioniero, il quale non aveva potestà di scegliere i suoi servitori secondo i sacri cànoni), ci raccontava certe sue favole di principi e principesse che, dopo grandi travagli, incantesimi di maghi gelosi ed altri consimili diavolerie, finivano sempre col diventar marito e moglie, come la nostra santa madre Chiesa comanda; di guisa che, dopo essere andati i fatti loro per un pezzo alla peggio, tutto volgeva a bene, perfino le salse del cuoco, il quale ammanniva un pranzo grande e grosso ai felici amanti e ai felicissimi cortigiani. E noi, scimuniti, sempre a chiedere come fosse questo pranzo di nozze. Ma qui ci voleva, la buona Paolina Monetti, per darci sempre la medesima baia. Ella era stata invitata alle nozze, ma sotto la tavola, s’intende, che non era persona da impancarsi in quella fiorita compagnia. E di là sotto, la poverina andava tirando il lembo della gonna alla principessa, perchè si ricordasse di lei e le facesse la limosina di qualche buon boccone. Ma la fortuna fa gli uomini insolenti; ora la principessa, dimenticando i sofferti travagli, s’era fatta una superbiona, ma di quelle! e gran mercè, se, tolto un osso spolpato dal piatto, lo buttava, insieme con un colpettino del suo piede, alla povera affamata. La qual cosa a noi non piaceva nè punto nè poco, tanto più che non avevamo ancora in que’ tempi acquistato quel sesto senso, che ora ci fa piacere un bel piede, ancorchè irrequieto, e un pochettino dispettoso.

Signore, non vi sgomentate, che non si fa un corso di estetica. Volevamo, con questo accenno d’infanzia, significarvi che abbiamo a nostre spese imparato a non mettere il