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fingevano di non saper nulla; il Pietrasanta e il dottor Mattei lo ignoravano affatto.

Così, senza volerlo, abbiamo passati in rassegna i commensali del duca. Era, come si vede, un’assai ristretta brigata. Le più ristrette, ogni persona di garbo può farne testimonianza, sono anche le più liete. Eppure, quello non era stato un gaio banchetto; il pensiero della vicina partenza di Aloise e del duca di Feira, non era tale per verità da sciogliere in serena allegrezza l’amichevole confidenza dell’ora.

Il nostro Aloise, pallido anzi che no e smunto a guisa di chi esca di malattia, era composto dei modi, affabile nei discorsi, quale i lettori l’hanno veduto nella cavalcata di Pegli; ma bene era agevole ad un conoscitore d’affetti lo scorgere che un’arcana cura gli siedeva nell’animo. Più avvezzo a padroneggiarsi, il duca di Feira, se non si mostrava ilare (che tale non era mai stato in sua vita) appariva disinvolto, bello di quella schietta cortesia signorile, che sa, dissimulando lo sforzo, sacrificare agli ospiti ogni interna afflizione, ogni più grave molestia. Più giovine, e meno esercitato all’affanno, Aloise si lasciava a volte andar giù dello spirito; ma bastava che il suo sguardo incontrasse quello del duca, perchè egli si rimettesse tosto; e allora a sentirlo! Ma la sua loquacità irrequieta, il suo riso stentato, non persuadevano il vecchio gentiluomo, nè Lorenzo Salvani, nè Enrico Pietrasanta, che meglio l’avevano in pratica.

Più lieto a gran pezza era il tinello, mezz’ora dopo levate le mense padronali. Colà, non pure allegria, c’era baldoria a dirittura. La gente del duca aveva convitato anch’essa due sposi novelli, non già novellini, intendiamoci; che erano, s’indovina, il nostro Michele Garaventa, e quella badalona della signora Marianna.

Michele, a dir vero, non era più un servitore. Il legionario di Montevideo, il veterano di Roma, viveva, come suol dirsi, d’entrata. Un certo poderetto, che i nostri lettori conoscono, là nei pressi della Montalda, a un trar di schioppo dall’alture della Bricca, era stato assegnato in dote dal Feira alla governante del padre Bonaventura. Quella aveva ad essere la capanna di Filemone e di Bauci; da quei vigneti a solatìo, da quei seminati, da quei castagneti, avevano i due felici da cavare il vivere senza molta fatica, poichè c’era luogo per due famiglie di coloni. Michele, come tutti gli omini trabalzati a lungo qua e là dalle vicende della vita, aveva sempre vagheggiato nei suoi sogni un èremo come quello, ornato di buon letto, di buona tavola e di buona cantina.